Architettura

Antisismica, la casa baraccata di epoca borbonica può ancora salvare molte vite

Di Paola Mammarella

Non solo tecniche e materiali moderni. Per la messa in sicurezza antisismica si può guardare anche al passato. Ad esempio al regolamento antisismico europeo del 1785, adottato nel regno di Ferdinando IV di Borbone, dopo il sisma del 1783 che distrusse intere città tra Sicilia e Calabria e causò circa 50mila vittime.

Urbanistica nel regolamento antisismico di epoca borbonica

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La ricostruzione avvenne in pochi anni, facendo ricorso a maestranze e materiali locali. Alcune città, completamente spazzate via dal sisma, vennero rilocalizzate in aree più sicure, mentre altre, come ad esempio Reggio Calabria, furono ricostruite nello stesso luogo.

Si utilizzò un sistema nuovo, in grado di scongiurare il collasso strutturale in caso di sisma e di limitare i danni a persone e cose. Le “nuove” regole costruttive prevedevano sezioni stradali pari a 10-13 metri per le strade principali e 6-8 metri per quelle secondarie. Le città dovevano inoltre essere dotate di piazze maggiori per i mercati e piazze minori. Numero e dimensioni delle piazze dovevano essere calcolate in base al numero della popolazione ed essere pensate per fungere anche da rifugio in caso di emergenza.

Struttura degli edifici nel regolamento antisismico di epoca borbonica

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La vera innovazione apportata dagli ingegneri dell’epoca fu l’inserimento di una struttura tridimensionale in materiale ligneo nelle murature in materiale lapideo.

Nacque così la “casa baraccata”, in cui il legno rappresenta un’armatura interna in grado di resistere alle sollecitazioni sismiche.

L’idea nacque studiando altri esempi di costruzioni, realizzate nell’area mediterranea, che avevano resistito ai terremoti. Uno di questi era il Palazzo del Conte di Nocera a Filogaso (Vibo Valentia) che era stato costruito prima del 1783 con una analoga struttura lignea e fu l’unico edificio a rimanere in piedi dopo il sisma.

Un altro esempio è la gaiola pombalina portoghese, adottata dopo il terremoto di Lisbona del 1755.

gaiola

Soluzioni simili sono state adottate anche in Turchia. Sono le himis, che nel terremoto del 1999 sono rimaste in piedi a dispetto di molte costruzioni in cemento armato.

himis

Antisismica borbonica oggi

Il CNR nel 2013, al convegno H.Ea.R.T, ha dimostrato che il sistema costruttivo della casa baraccata può resistere a terremoti di una certa rilevanza.

Durante il convegno è stata realizzata una muratura rinforzata da un’intelaiatura lignea utilizzando il sistema costruttivo settecentesco.

CNR_01

CNR_02

Dopo una serie di test è stato decretato che questa tecnologia, con dettagli costruttivi moderni e fatti i dovuti approfondimenti, può essere applicata alle nuove costruzioni.

Foto credits: Randolph Langenbach, www.conservationtech.com

Originariamente pubblicato in:

News Edilportale, 29 agosto 2016. Disponibile presso: http://www.edilportale.com/news/2016/08/sicurezza/antisismica-la-casa-baraccata-di-epoca-borbonica-pu%C3%B2-ancora-salvare-molte-vite_53539_22.html

Il terremoto di Agadir, o la costruzione dell’identità

Di Edoardo Bernasconi

Il 29 febbraio del 1960, un terremoto rade al suolo la città di Agadir, in Marocco, seppellendone l’immagine tra le macerie. Nella distruzione, perdono la vita 20.000 persone.

L’antica Qasba, eretta sopra un promontorio a presidio del territorio, e il quartiere di fondazione berbera conosciuto come Yachech scompaiono in pochi attimi, mentre gli edifici dei quartieri Founti e Talborjt, costruiti rispettivamente tra il 1920 e il 1930 e tra il 1935 e il 1950, subiscono gravi crolli e danni strutturali irreparabili (Falconer, 1966).

La catastrofe scuote profondamente l’intero Paese, eppure, da questo scenario atroce, si solleva prontamente un vigoroso élan vital unanime che conduce un intero popolo a mobilitarsi su tutti i fronti e a concentrare gli impegni nella realizzazione di una grande opera urbanistica e architettonica corale.

Questo carattere di bene comune connota Agadir sin dal momento della sua fondazione: il suo nome, in lingua Amazigh, significa letteralmente “granaio collettivo fortificato”. Tale aspetto fornisce un indizio che lascia comprendere quale sia sempre stata la portata strategica e la natura identificativa di questo luogo per la regione e per le genti che l’hanno popolata.

Agadir si trova, infatti, in una posizione territoriale cruciale, dove i monti dell’Atlante si abbassano per sfiorare le rive dell’oceano, a presidiare la fertile vallata del Wadi Souss. La facilità di navigazione delle acque e l’abbondanza di pescato fanno sì che, ai piedi dell’agadir, si vada a insediare un modesto villaggio di pescatori berberi che, nel corso dei secoli, successivamente alla conquista portoghese, acquista un importante ruolo come scalo delle rotte navali mercantili diventando Santa Cruz do Cabo de Gué. Nel 1505, queste sue peculiarità la conducono ad assumere il ruolo di porto principale del Marocco meridionale, rendendo necessaria la costruzione di fortificazioni militari a proteggere le crescenti ricchezze. La città mantiene questa carica anche a seguito delle lotte che portano alla deposizione del governatore Guterre de Monroy da parte delle tribù locali nel 1541, perdendola solamente nel 1760, quando, a causa dell’instabilità politica della regione, il sultano Sidi Mohammed Ben Abdullah decide di deviare definitivamente tutte le rotte sul porto di Essaouira. Il borgo viene infine occupato dall’esercito francese il 14 giugno 1913, ma trovandosi in un’area remota del territorio marocchino, difficile da controllare dal punto di vista politico e militare, non viene ritenuta idonea per un utilizzo commerciale e strategico intensivo, lasciando la località in una posizione economicamente marginale. Ciò nonostante, l’abbondanza di pesce nelle acque circostanti comporta lo svilupparsi di una fiorente attività di pesca e di un’importante industria di manifattura e conservazione del pescato (Dartois, 2008). Per questa ragione, dai primi anni Venti, il governo coloniale incarica il service de l’Urbanisme, l’organo deputato allo sviluppo urbano e territoriale del Marocco diretto dall’architetto e urbanista Henri Prost, di trasformare il modesto villaggio in una città modello (Cohen & Eleb, 2004).

Il piano dell’ingegnere Jean Raymond è evidentemente caratterizzato dall’intento di separare la popolazione locale dai coloni, prevedendo l’edificazione di due aree lungo la costa, nettamente distaccate, seppure accomunate sul piano progettuale da un disegno urbano di matrice eclettica (Raymond, 1923).

La borgata a ovest, situata ai piedi del promontorio sormontato dalla Qasba, viene concepita con lo scopo di ospitare la popolazione locale – il Talborjt, che in dialetto tachelit significa “piccolo fortino” –, mentre il quartiere a est, contraddistinto dalla sua forma a ferro di cavallo, situato oltre il Wadi Tildi, è destinato ad accogliere la popolazione europea.

A seguito dell’ingentissimo sviluppo industriale dei primi anni del secondo dopoguerra, il Marocco si trova a dover affrontare una grave emergenza: la mancanza di un vero centro economico strategico nel sud del paese provoca un graduale spopolamento delle aree rurali, dovuto a un’emigrazione massiva verso le grandi città industriali come Casablanca o Rabat (Embarek, 1965).

Così, sia per porre un argine ai problemi di ordine pubblico e sanitario derivanti dal sovraffollamento dei centri del nord, sia per motivare le popolazioni a non spostarsi da una regione così ricca di risorse agricole e minerarie, il governo del protettorato inizia a impiegare mezzi per la creazione di un nuovo capoluogo regionale del Souss.

Jean Raymond, Schéma de la future ville d’Agadir, 1923. Piano di espansione della città. A pagina 339 dell’articolo di J. Raymond, “Dans le Sous mystérieux, Agadir”, in La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, n. 3, marzo 1923, pp. 321-340.
Jean Raymond, Schéma de la future ville d’Agadir, 1923. Piano di espansione della città. A pagina 339 dell’articolo di J. Raymond, “Dans le Sous mystérieux, Agadir”, in La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, n. 3, marzo 1923, pp. 321-340.
La città di Agadir prima del terremoto del 1960. Pianta. Da sinistra: la Quasba, il Talborjt, il Quartiere Amministrativo, il Quartiere Europeo, compreso tra il Wadi Tildi e il Wadi Tanaout e il Quartiere Industriale. Elaborazione dell’Autore.
La città di Agadir prima del terremoto del 1960. Pianta. Da sinistra: la Quasba, il Talborjt, il Quartiere Amministrativo, il Quartiere Europeo, compreso tra il Wadi Tildi e il Wadi Tanaout e il Quartiere Industriale. Elaborazione dell’Autore.

Contemporaneamente, al fine di rendere ben chiara la presenza del protettorato in questa regione, Agadir viene trasformata strategicamente in una prospera località di villeggiatura per abbienti turisti, accentuando la suddivisione in zone funzionali, razionalmente compartimentate da un progetto di Michel Ecochard, allora a capo del Service de l’Urbanisme.

Il piano prevede, oltre all’ampliamento del porto, un’ulteriore estensione della città verso sud, che ha lo scopo di separare le attività turistiche da quelle produttive attraverso l’edificazione di un vasto quartiere industriale e relativa zona residenziale (Ecochard, 1923).

È, tuttavia, la collocazione geografica di Agadir, origine della sua fortuna, la cagione stessa del suo annullamento. Proprio dove sorge, infatti, la porzione dell’Atlante Sahariano che ripiega verso sud, entra in contatto con la Zolla Africana, creando una grande faglia – la linea sud-atlasica – che si estende per circa 2000 chilometri da Gabès, in Tunisia, passando da Biskra, Laghouat e Fuguig, giungendo ad Agadir. Questa condizione rende l’intero limite sud della catena montuosa ad alto rischio sismico (Duffaud, Rothé, Debrach, Erimesco, Choubert & Faure-Muret, 1962).

La tragica calamità naturale si rivela essere un punto focale per la vicenda della città, specialmente perché occorre in un momento storico segnato da una delicata fase di transizione del regno che, da soli quattro anni, aveva ottenuto la sovranità politica dalla Francia, ma che lottava ancora per affermare la propria autonomia culturale.
In questo contesto, dunque, il problema di come fronteggiare l’emergenza diventa il simbolo di una volontà di riscatto e di asserzione dell’identità di un popolo. La criticità della situazione non è solo dovuta alla necessità di ridare nel più breve tempo possibile un tetto ai sopravvissuti, ma anche di affermare la legittimità dell’indipendenza di una nazione.

Il 3 marzo, il re Mohammed V annuncia pubblicamente l’avviamento dei lavori per la ricostruzione di Agadir, e ancora prima dell’estate il Service del l’Urbanisme con il Ministero dei Lavori Pubblici redigono un documento dove vengono riportate le prime indicazioni per il tracciamento di un Piano Regolatore. Una commissione di geologi viene incaricata di tracciare i confini delle aree a rischio sismico e di trovarne altre adatte all’edificazione. Gli studi portano a ritenere necessario uno slittamento verso sud dell’intero perimetro cittadino.

L’evento catastrofico causa preoccupazione in tutto il mondo. A impegnare le proprie risorse sono, in modo particolare, Francia e Stati Uniti. Tuttavia, l’impegno di questi paesi si riduce a occuparsi del problema degli aiuti umanitari per i terremotati (Nadau, 1992). Un mese dopo l’accaduto, l’ambasciatore di Francia invita Le Corbusier a visitare Agadir, con la speranza di convincere il maestro e il governo marocchino a collaborare al progetto di ricostruzione. Gli incontri non hanno seguito. Ciò nonostante Le Corbusier trova il modo di lasciare il proprio segno sottolineando, in un’intervista radiofonica rilasciata durante il suo soggiorno, come l’aspetto di maggiore importanza per la buona riuscita del progetto sia la coesione del fronte d’azione formato da architetti e urbanisti uniti.1La registrazione della trasmissione può essere ascoltata su INA.fr – Institut National Audiovisuel, disponibile presso http://boutique.ina.fr/audio/P13276317/le-corbusier-a-propos-de-la-reconstruction-d-agadir.fr.html (ultimo accesso febbraio 2017)

L’idea che fosse necessario pensare al progetto urbano e a quello architettonico come una cosa sola era stato preso ad assunto fondamentale durante l’ultimo decennio del protettorato dall’urbanista francese Michel Ecochard, direttore del Service de l’Urbanisme.

Sotto molti aspetti, la figura di Ecochard è fondamentale per la formazione e lo sviluppo del pensiero architettonico in Marocco. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, il Service de l’Urbanisme accoglie un considerevole numero di giovani architetti, marocchini e non, provenienti dagli studi in Europa – che in quegli anni si trovava ad affrontare una forte crisi economica – in cerca di esperienza, dando loro una formazione e un metodo (Cohen, 1992; Eleb, 2000; Chaouni, 2010).

Così facendo, con la fine del protettorato, il Marocco si trova ad avere a disposizione un consistente gruppo di pianificatori, urbanisti, paesaggisti e architetti esperti, nonostante la giovane età, accomunati dallo stesso modo di guardare al progetto grazie alle competenze maturate sotto il tetto del Service de l’Urbanisme, la cui direzione è ora affidata all’architetto Mourad Ben Embarek.2 La vicenda è descritta da Ben Embarek stesso in un intervista la cui visione è possibile su aMush.org presso http://www.amush.org/blog/55-videos/245-hommage-a-mourad-ben-embarek.html (ultimo accesso febbraio 2017). Lo stesso Ben Embarek si assume il compito di raccogliere e diffondere il pensiero di questo gruppo di progettisti attraverso la rivista a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, da lui ideata e della quale saranno pubblicati sei numeri tra il 1964 e il 1968.

Tuttavia, l’aspetto fondamentale che rende la realizzazione di Agadir un caso esemplare, risiede soprattutto nel fatto che, in questa occasione, l’idea progettuale di architetti e urbanisti trovi supporto nell’operato delle amministrazioni e degli organi di governo.

La fase di stesura del piano si svolge in controtendenza rispetto alla logica del pronto intervento, finalizzato al contenimento del danno. I terreni edificabili vengono espropriati sistematicamente, ignorando gli interessi fondiari privati dei singoli, così da rendere possibile la realizzazione di un disegno urbano articolato e unitario.

Il progetto è sviluppato partendo dai princìpi della Carta di Atene (Le Corbusier, 1943) di salubrità, esposizione e circolazione, ma nella sua configurazione spaziale dimostra una profonda lettura della tradizione insediativa locale. Questa non è vista come fondo dal quale attingere forme ed espedienti stilistici, ma come sorgente da cui dedurre le dinamiche a-temporali dell’abitare, da usare alla stregua dei materiali da costruzione, strumenti operativi per la realizzazione della nuova architettura. Tali dinamiche trovano la propria raison d’être nel rapporto bidirezionale con gli aspetti fisici e simbolici dell’ambiente naturale e del territorio.

Proprio a partire da questi presupposti, il disegno del Piano Regolatore è realizzato sotto la doppia supervisione dell’urbanista Pierre Mas, erede morale di Ecochard, e del paesaggista Jean Challet. Il progetto cerca, pertanto, di reinventare le tecniche canonizzate dell’urbanistica moderna tramite gli strumenti messi a disposizione dalla disciplina della progettazione del paesaggio che proprio in quegli anni inizia ad assumere importanza nel dibattito internazionale e a prendere le forme e le modalità che oggi conosciamo.

Pierre Mas con Haut commissariat à la reconstruction d’Agadir, Le parti: choix du site, répartition des activités, circulations principales, espaces libres, 1966. Disegno schematico del piano di ricostruzione di Agadir. A pagina 12 dell’articolo di P. Mas, “Plan directeur et plan d’aménagement”, in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, n.4, 1966, pp. 6-17.
Pierre Mas con Haut commissariat à la reconstruction d’Agadir, Le parti: choix du site, répartition des activités, circulations principales, espaces libres, 1966. Disegno schematico del piano di ricostruzione di Agadir. A pagina 12 dell’articolo di P. Mas, “Plan directeur et plan d’aménagement”, in a+u – Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, n.4, 1966, pp. 6-17.

Successivamente Challet pubblica nel terzo numero di a+u (1965) un articolo intitolato Urbanisme et paysage nel quale descrive il paesaggio come l’elemento capace di rendere possibile il rapporto tra il sito fisico e le sfere percettive e sentimentali dell’essere umano. Per il paesaggista il sito è «una porzione di spazio terrestre che offra un’unità geografica, biologica o umana» (p. 16).3Traduzione dell’Autore Questa unità è ciò che permette di riconoscere e riconoscersi e che, di conseguenza, consente la formazione di un’identità.

Per questo motivo, la logica fondativa di Agadir è concepita sulla presa di coscienza del fatto che, a differenza di quello europeo, lo spazio degli insediamenti marocchini non si forma su esigenze estetiche prospettiche: gli assi viari non determinano inquadrature forzate su elementi prestabiliti, ma le architetture sono disposte in modo che la vista vari in continuazione lungo il tragitto (Nadau, 1992).

Il progetto, dunque, integra in continuità pragmatismo e idealità. La costa, per esempio, è lasciata libera dalle costruzioni per due motivi: il primo, di natura poetica, al fine di lasciarne intatta l’immagine, così assiduamente presente nella memoria collettiva degli abitanti, nelle fotografie e nelle cartoline spedite per il mondo; il secondo di natura pratica, per mettere al sicuro le nuove abitazioni nell’evenienza che un nuovo terremoto, se sviluppato al largo della costa, avesse causato onde anomale.

Diversamente dal progetto di Raymond, nato con l’intento di dividere la città per tenere separata la popolazione, il nuovo progetto prevede di ordinare la città per settori con l’intento di favorire l’identificazione degli abitanti con il luogo, mantenendo, per ciascuna zona, caratteri specifici chiaramente riconoscibili, così da apparire domestici nonostante il linguaggio dell’architettura sia inequivocabilmente nuovo.

L’ambizione è di dimostrare falso l’assunto che “modernità” e “tradizione” siano termini antitetici, sostenendo, al contrario, che la modernità non sia altro che un momento di metamorfosi di un pensiero architettonico continuativo; ovvero che essa non fenomeni dalla tabula rasa di ciò che era venuto prima, ma anzi che da questo discenda.

La città si aggrega attorno a un core amministrativo cui rigore inconfutabilmente razionalista, pur rasentando il parossismo, dialoga con la natura domestica e introversa dei quartieri residenziali costruiti per aggregazione di unità abitative mono-familiari a corte, reinterpretando, in chiave contemporanea, la spazialità della medina tradizionale.

I percorsi all’interno della città sono pensati per un transito principalmente pedonale: le strade ad alta affluenza scaricano il traffico fuori dal centro, mentre l’andamento “a baionetta” di quelle urbane non permette alte velocità e facilita gli attraversamenti.

I “pezzi” così definiti sono ricomposti all’interno di un disegno urbano unitario da un sistema di parchi che si estendono, dalla costa all’entroterra, seguendo l’andamento dei wadi che, con il secolare alternarsi di piene e secche, hanno determinano l’orografia del terreno.

L’opera di “cucitura” delle zone urbane non avviene solo sul piano del paesaggio. Le macerie del terremoto sono utilizzate per colmare il letto del Wadi Tanaout, cui flusso stagionale viene canalizzato in acquedotto. Questo wadi aveva segnato, prima del terremoto, il confine tra il quartiere europeo e la zona industriale, dove risiedeva la popolazione operaia marocchina. La cancellazione di questo limite geografico ha, quindi, il sapore di una dichiarazione politica e simbolica che esprime tutta la volontà di lasciarsi alle spalle un’epoca per costruire una nazione unita.

La nuova Agadir. A sinistra, il core di Agadir a confronto con il quartiere residenziale “Nuovo Talborjt”; a destra, il progetto per Saint-Dié di Le Corbusier a sistema con un quartiere della medina di Fèz. Elaborazione dell’Autore.
La nuova Agadir. A sinistra, il core di Agadir a confronto con il quartiere residenziale “Nuovo Talborjt”; a destra, il progetto per Saint-Dié di Le Corbusier a sistema con un quartiere della medina di Fèz. Elaborazione dell’Autore.

Ad accentuare questa immagine, gli architetti Louis Riou e Henri Tastemain costruiscono una delle architetture più emblematiche di Agadir: l’immobile “A”. Edificio per abitazioni, parte dell’organismo del core della città, si colloca in modo da formare un ponte sul luogo esatto dove un tempo scorreva il Tanaout. La sua struttura su pilotis è pensata così che, alla sua base, si venga a formare un luogo coperto, adatto alle attività commerciali. In questo modo, urbanisti, paesaggisti e architetti assieme trasformano un luogo simbolo della segregazione in un vitale mercato cittadino.

Studiando i progetti, è evidente come la maggior parte delle risorse intellettuali di coloro che se ne sono occupati fossero indirizzate a ottenere principalmente una città in grado di funzionare e soddisfare le principali necessità degli abitanti, tuttavia le scelte che hanno condotto alla ricostruzione di Agadir hanno anche un valore simbolico che ci permette di vederle come operazioni di riscrittura del paesaggio, al fine di portare alla luce quegli aspetti che determinano lo spirito del luogo.

La nuova Agadir, 1966. Fotografia aerea della città ancora in fase di costruzione. È chiaramente riconoscibile l’immobile “A” (Louis Riou, Henri Tastemain) posto trasversalmente rispetto segno del sedime del Wadi Tanaout. Sullo sfondo, in nuovo Talborjt. Fotografia di Robert Papini.
La nuova Agadir, 1966. Fotografia aerea della città ancora in fase di costruzione. È chiaramente riconoscibile l’immobile “A” (Louis Riou, Henri Tastemain) posto trasversalmente rispetto segno del sedime del Wadi Tanaout. Sullo sfondo, in nuovo Talborjt. Fotografia di Robert Papini.

L’aspetto più rilevante che appare dallo studio di questo caso risiede nel suo essere concretizzazione, in un momento di grave emergenza, di un pensiero comune, declinato nei domìni delle diverse discipline in campo. Il suo insegnamento può fornire strumenti applicabili in svariati ambiti: dal governo del territorio, alla pianificazione urbana, alla progettazione architettonica; dimostrando che essi non vanno intesi come settori separati, ma possono collaborare alla costruzione di un unico disegno.

Dal punto di vista della composizione architettonica, si può trarre una valida lezione dal particolare modo di affrontare il problema del rapporto con la tradizione. Essa diventa vero e proprio strumento, atto a costruire quella base sulla quale si radicano le scelte che portano alla forma dell’architettura della città.

Originariamente pubblicato in:

Fabian, L., & Marzo, M. (a cura di). (2015). La ricerca che cambia. Atti del primo convegno nazionale dei dottorati italiani dell’architettura, della pianificazione e del design. Siracusa: Letteraventidue.

Bibliografia

Ben Embarek, M. (1965). Urbanisme et aménagement du territoire dans les pays sous-développés. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 3.

Challet, J. (1965) Urbanisme et paysage. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 3, 16.

Chaouni, A. (2010) Depolicizing Group Gamma: Contesting Modernism in Morocco. In D. Lu (a cura di), Third World Modernism; Architecture Developement and Identity (pp. 57-84). New York: Routeledge.

Cohen, J.-L. (1992). Il Gruppo degli Architetti Marocchini e “L’Habitat du plus grand nombre”. Rassegna, 52, 58-67.

Cohen, J.-L., & Eleb, M. (2004). Casablanca: mythes et figures d’une adventure urbaine. Parigi: Hazan.

Dartois, M. F. (2008). Agadir et le Sud marocain. À la recherche du temp passé. Des origines au tremblement de terre du 29 février 1960. Parigi: Courcelles Publishing.

Duffaud, F., Rothé, J. P., Debrach, J., Erimesco, P., Choubert, G. & Faure-Muret, A. (1962). Le séisme d’Agadir du 29 février 1960. Notes et mémories du Service Géologique, 154.

Ecochard, M. (1932). Les quartiers industriels des villes du Maroc. Urbanisme, 11-12.

Eleb, M. (2000). An alternative to Functionalist Universalism; Ecochard, Candilis, and ATBAT- Afrique. In S.W. Goldhagen & R. Legault (a cura di), Anxious modernism: experimentation in postwar architectural culture (pp. 55-73). Cambridge: MIT Press.

Falconer, B. H. (1996). Agadir, Morocco, reconstruction work six years after the earthquake of february 1960. New Zeland Society for Earthquake Engeneering Quarterly Buletin, 1(2), 72-91.

Le Corbusier. (1943). La Charte d’Athenes. Parigi: Plon.

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Raymond, J. Dans le Sous mystérieux, Agadir. La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, 3, 321-340.

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1. La registrazione della trasmissione può essere ascoltata su INA.fr – Institut National Audiovisuel, disponibile presso http://boutique.ina.fr/audio/P13276317/le-corbusier-a-propos-de-la-reconstruction-d-agadir.fr.html (ultimo accesso febbraio 2017)
2. La vicenda è descritta da Ben Embarek stesso in un intervista la cui visione è possibile su aMush.org presso http://www.amush.org/blog/55-videos/245-hommage-a-mourad-ben-embarek.html (ultimo accesso febbraio 2017).
3. Traduzione dell’Autore

Evolución de la ingeniería sísmica, presente y futuro: caso Colombia e Italia

Di Olimpia Niglio, William Valencia Mina

Desarrollo histórico de la ingeniería sísmica en Colombia

La curiosidad por los sismos y sus registros históricos es una actividad antigua; tanto así que existen registros escritos en China de más de 3000 años de antigüedad además de registros en Japón y Europa que datan de hace 1600 años aproximadamente. En América también, algunos códices Mayas y Aztecas se refieren a los sismos y, de manera un poco más formal, durante la época colonial se produjeron algunos escritos que con cierto grado de detalle narraban los efectos de algunos sismos en poblaciones de la América conquistada por España.

Como es común en muchas de las diferentes culturas de la antigüedad, los sismos fueron atribuidos a deidades u otro tipo de referencias míticas; en el territorio de lo que es hoy en día Colombia también sucedió así. En la época precolombina, la cultura más importante en lo que actualmente es Colombia fue la de los muiscas o chibchas. Ellos pensaban que los temblores ocurrían debido a un dios. Dice la mitología chibcha que Huitaca, diosa que representaba la lujuria, para vengarse del dios Bochica, se encargó de difundir malas enseñanzas entre los Chibchas, quienes entonces iniciaron una vida de pecado. Por esta razón, ellos fueron luego castigados por el dios Chibchacum quien se valió de un diluvio que arrasó con gran parte de la población. Los Chibchas imploraron tanto a Bochica, que él los redimió de su culpa. Bochica castigó entonces a Chibchacum haciéndolo cargar la tierra por la eternidad. Por lo tanto dice la mitología que los temblores ocurren cuando Chibchacum se cansa de cargar la tierra en un hombro y la pasa al otro (Cuayin & Gadel, 2005); similar a lo que sucedió con Atlas según la mitología griega (fig. 1).

Chibchakun
Fig. 1: Chibchacum, el que sostiene la tierra sobre sus hombros (óleo sobre lienzo) – Luis Alberto Acuña Tapias

Durante la época de la colonia en Colombia y posteriormente hasta el siglo XIX hubo aportes importantes al estudio de los sismos y en particular a la sismología histórica de Colombia. Estos aportes se enfocaron en el estudio del fenómeno sísmico, en recopilación de información y descripción de terremotos ocurridos los cuales reflejaban la intensidad y los daños observados. De esta época no existen documentos técnicos con recomendaciones explícitas para la construcción de edificaciones resistentes a sismos. Sin embargo, En la época colonial, en algunas regiones entendieron que ciertos tipos de construcción y ciertos materiales no se comportaban adecuadamente ante terremotos, especialmente tras el sismo de 1785 en Santa Fe. El intento más interesante para construir edificaciones que se comportaran bien ante terremotos está en el “estilo temblorero”, estilo de construcción que se originó a partir de los sismos de 1878 en Manizales y que se extendió en todo el Viejo Caldas; en este estilo, el material primordial es el bahareque: pared de palos entretejidos con guadua – bambú – y barro (fig. 2-3).

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Fig. 2: Vivienda estilo temblorero sobre un talud – Foto de Omar Darío Cardona
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Fig. 3: Fachada de una vivienda en estilo temblorero – Foto de Omar Darío Cardona

Probablemente fue Alexander Von Humboldt (1769-1859) el primero en establecer una relación entre las fallas geológicas y los terremotos tanto en Colombia como en el mundo (fig. 4). Sin embargo, esta teoría no fue universalmente aceptada en ese entonces; (Nava, 1998). Von Humboldt viajó por la Nueva Granada y pudo sentir algunos temblores fuertes. Él estableció una relación entre los terremotos y los volcanes y propuso una relación directa entre los vapores acumulados en el interior de la tierra y los temblores.

 Fig. 4: Alexander Von Humboldt. Científico Alemán con grandes aportes al conocimiento en América
Fig. 4: Alexander Von Humboldt. Científico Alemán con grandes aportes al conocimiento en América

Una ventaja de Von Humboldt con respecto a otros científicos alemanes es que las experiencias directas que experimentó al sobrevivir a algunos terremotos en América Latina le daban una percepción directa del fenómeno. Por esta razón sus observaciones fueron distintas a las de su maestro Werner.

El primer evento sísmico del cual se tiene registro en Colombia es de 1541; no obstante, los primeros documentos que pueden clasificarse en Colombia como precursores de los estudios de sismicidad histórica datan del siglo XVIII y a ellos se añaden varios aportes en el siglo XIX. Entre estos documentos se destacan: el diario de don Luís Vargas Jurado (1703-1764), el catálogo de don Santiago Pérez Valencia (1785-1843), la crónica de don José María Caballero (1813-1819), la cronología sísmica de don Francisco Javier Vergara y Velazco (1898), el trabajo de don Arcesio Aragón publicado en 1926 y el trabajo de don Ramón Correa publicado en 1962 entre otras obras (A. Espinosa, 2001).

La Sismología en Colombia tuvo sus inicios formales cuando el padre Jesús Emilio Ramírez retornó al país en el año 1940 después de realizar sus estudios doctorales en la Universidad de Saint Louis en Estados Unidos. En su tesis doctoral estudió la naturaleza y origen de los microsismos mediante el uso de estaciones tripartitas. Poco después, el padre Ramírez decidió fundar el Instituto Geofísico de los Andes Colombianos, adscrito a la Universidad Javeriana y participó como colaborador en la organización del Año Geofísico Internacional en 1958.

En 1972, se llevó a cabo una reforma curricular para el posgrado en Ingeniería Civil de la Universidad de los Andes, en la cual se incluyeron los cursos de Dinámica de Estructuras, Dinámica de Suelos, Ingeniería Sísmica y Sismología Teórica; este posgrado iniciaría formalmente en 1974 (A. Sarria, 2005). Con esta reforma, se dictan por primera vez en una universidad colombiana cursos que abordan de manera explícita los terremotos y se aplica su conocimiento al análisis del comportamiento sísmico de la estructuras.

En 1973, en un evento organizado por la Universidad de los Andes, se invitó a los profesores Robert Withman del M.I.T., el profesor Nathan Newmark de la Universidad de Illinois, el Profesor Paul Jennings del CalTech y el profesor Joseph Penzien de la Universidad de California en Berkeley quienes entonces representaban verdaderas eminencias en el campo de la ingeniería sísmica y áreas afines. Este evento también se puede decir que sin duda contribuyo a fortalecer aún más la motivación por el desarrollo de la ingeniería sísmica en el país. Por lo tanto se puede decir que la ingeniería sísmica colombiana tuvo sus orígenes formales a comienzos de la década de los setenta. A pesar de esto, no se contaba con una reglamentación para el diseño y construcción sismo resistente de edificios en ese entonces.

En el año 1974, después de varios años de intentos, el ingeniero Alberto Sarria Molina junto a otros eminentes ingenieros del país lograron fundar en la Universidad de los Andes la Asociación Colombiana de Ingeniería Sísmica (AIS), que poco tiempo después dejó de pertenecer a la Universidad para ser un ente externo e independiente en 1975. Esta organización ha sido fundamental para el desarrollo de la ingeniería sísmica en Colombia y para la implementación de prácticas adecuadas en el diseño y construcción de edificaciones seguras ante los sismos.

Algunos de los aportes significativos de la AIS como institución pionera en el desarrollo de la ingeniería sísmica del país en sus inicios han sido la divulgación de temas relacionados con el diseño sismo resistente, el propiciar intercambio de experiencias mediante la integración con expertos mundiales en el área de ingeniería sísmica y sismología y la generación de normas técnicas de diseño y construcción de estructuras resistentes a sismos. Entre los aportes se puede mencionar la traducción en español y distribución, en Colombia, de normativas sismo resistentes de países como los Estados Unidos; particularmente el código de la SEAOC en 1976 y el código ATC-3-06 en 1979. Estos códigos fueron documentos base para la iniciación del diseño sismo resistente en Colombia (NSR-10, 2010).

A comienzos de los ochenta, la AIS publica la primera norma sísmica del país: Requisitos Sísmicos para Edificios, AIS-100-81. Esta publicación es una adaptación del código ATC-3-06 a la realidad nacional. Sin embargo, este documento no tenía carácter obligatorio para su aplicación. Poco después del terremoto de Popayán en 1983, surgió el Código Colombiano de Construcciones Sismo Resistentes, Decreto 1400 de 1984 a partir de algunas modificaciones de la norma AIS-100-83. De esta manera, por primera vez en Colombia se crea un código de diseño sísmico de estructuras de obligatorio cumplimiento por ser un decreto nacional.

Como consecuencia directa del sismo de Popayán también, un grupo de asesores del gobierno, conformado por miembros de distintas universidades propuso la conformación de la Red Sismológica Nacional con el apoyo de Ingeominas (actualmente Servicio Geológico Colombiano); esto contribuiría también de manera sustancial al desarrollo tanto de la sismología nacional como al desarrollo de la ingeniería sísmica en Colombia. Sin embargo, la Red Sismológica Nacional solo se puso en marcha en 1993 (NSR-10, 2010).

Entre los años 1984 y 1987 se realizó la microzonificación de Popayán, la cual fue la primera microzonificación del país. En este proyecto estuvieron involucrados Alberto Sarria, Augusto Espinosa, Aquiles Arrieta, Juan Carlos Puentes y Luis Yamin entre otros.

El Código Colombiano de Construcciones Sismo Resistentes (CCCSR-84), decreto 1400 de 1984, fue más tarde actualizado utilizando las facultades otorgadas por la ley 400 de 1997 mediante el decreto 33 de 1998 como Reglamento Colombiano de Construcción Sismo Resistente (NSR-98). Este nuevo decreto, más exigente que el anterior, presentó cambios sustanciales en cuanto al detallado de las estructuras de concreto reforzado e incorporó una zonificación sísmica mejor fundamentada.

A partir del año 2008, la AIS fue encargada para llevar a cabo la actualización del reglamento NSR-98 y mediante la implementación en la nueva reglamentación de la norma AIS 100-09 como el componente técnico de la versión más reciente del Reglamento Colombiano de Construcción Sismo Resistente, NSR-10.

Esta nueva versión del reglamento colombiano (NSR-10) incluyó aspectos importantes que no estaban definidos en la versión anterior; algunos de estos cambios importantes especifican los parámetros y requisitos para el uso de aisladores y amortiguadores sísmicos, se especifica el espectro de diseño que podría usarse para la adecuación de estructuras declaradas como patrimonio histórico y se incluye en un apéndice la posibilidad de realizar análisis pushover (procedimiento no-lineal estático de plastificación progresiva) con base a los requisitos del NEHRP 2006.

De acuerdo al más reciente estudio de amenaza sísmica, incorporado en la NSR-10, quedó definido que aproximadamente el 39.7% de la población nacional se encuentra localizado en zonas que presentan amenaza sísmica alta, 47.3% en zonas de amenaza intermedia y solo el 13% se encuentra localizado en zona de amenaza sísmica baja. Presentado de otra forma, esto quiere decir que de los 1126 municipios que tiene el país 553 están clasificados como de alta amenaza sísmica, 431 de amenaza sísmica intermedia y solo 139 de amenaza sísmica baja. Las cifras mostradas dan cuenta de la importancia que tiene la ingeniería sísmica en Colombia por el alto riesgo que puede presentar un evento sísmico dada la gran proporción del país que puede experimentar sismos fuertes y la concentración de población en estas zonas.

Desarrollo histórico de la ingeniería sísmica en Italia

Esta primera parte de la discusión describe el desarrollo histórico de la Ingeniería Sísmica italiana y las relativamente nuevas normas de diseño generadas mediante la aprobación de las últimas disposiciones de ley del 2008.

Las primeras leyes que abordaron el problema sísmico fueron proclamadas antes de la unificación nacional, durante la dominación de los Borbones, siglo XVIII. Estas leyes reglamentaron la reparación de los daños provocados por dos fuertes temblores: Val di Noto (Sicilia, 1693) y Calabria Ulteriore (1783) (INGV). Las noticias históricas describen daños muy graves. El terremoto del 1783 ocurrió durante el período de la Ilustración que inició a finales del siglo XVII, cuando toda Europa vivió en una intensa atmósfera de renovación cultural (De Sanctis, 1986). Durante esta época se empezó a entender que los problemas del conocimiento debían ser afrontados con la lógica y la razón, abandonando interpretaciones teológicas y fantasiosas; “sapere aude” fue la inscripción que el filósofo alemán Immanuel Kant escribió para conceptualizar la finalidad de este movimiento cultural. El desarrollo de la prensa, con la invención de Gutemberg en Alemania y sobre todo con las oficinas en las ciudades italianas de Venecia y Florencia, contribuyó a la difusión de los conocimientos. Comenzaron así a difundirse las primeras ideas concretas relacionadas al estudio de sistemas constructivos capaces de resistir temblores.

Con el terremoto de Lisboa (1755), fueron propuestas nuevas técnicas para las edificaciones en zonas sísmicas. Circularon así varias publicaciones sobre la seguridad de las construcciones y sobre los sistemas estructurales sismo-resistentes (Barucci, 1990; Parducci, 2009a). También se difundieron las primeras ideas para afrontar con nuevos enfoques el problema del comportamiento sísmico de las edificaciones y sus sistemas resistentes. Después de los terremotos de Lisboa y de Calabria Ulteriore la propuesta más interesante fue la de utilizar estructuras de madera y mampostería compuesta con ladrillos de tierra (Vivenzio, 1783); la técnica llamó mucho la atención, sobre todo el comportamiento conjunto de la construcción. Estos sistemas también tendieron a favorecer un efecto de interacción madera-mampostería (Parducci, 2012). Los esquemas estructurales de la casa a gajola portuguesa y de la casa baraccata italiana (fig. 5) constituyeron un primer ejemplo de construcción sismo-resistente, cuando aún no se realizaban cálculos numéricos para la verificación del comportamiento estructural (Masciari Genovese, 1915).

casa-baraccata
Fig. 5: Casa baraccata (1783), proyecto del arquitecto Vincenzo Ferraresi (Fuente: Vivenzio, 1783)

La casa baraccata, propuesta por el arquitecto Vincenzo Ferraresi, fue concebida como un complejo unitario con armaduras de madera distribuidas por toda la altura del edificio y comprendían elementos diagonales capaces de proporcionar una resistencia horizontal adecuada, además de generar un efecto de arriostramiento de la totalidad de la construcción (Niglio, 2011).

De esta manera fue posible construir edificios dotados de un comportamiento sísmico eficiente con materiales económicos y de fácil consecución en las regiones. Las formas básicas correspondían las utilizadas en las estructuras de madera ya comúnmente construidas en la zona norte de Europa desde la Edad Media como el fachwerkbau alemán y el balloon frame anglosajón.

Estas primeras experiencias constructivas fueron olvidadas pronto, como lo demuestran dos fuertes temblores que entre 1905 y 1908 sacudieron de nuevo Calabria Ulteriore (ciudad de Reggio Calabria) y Sicilia Oriental (ciudad de Messina) (Parducci, 2009a; Tobriner, 1997).

Poco después de estos últimos temblores, el estado italiano proclamó dos decretos en 1907 y 1909, dotados con interesantes instrucciones técnicas. Es interesante notar que en aquellos mismos años fueron concedidas algunas patentes cuyas bases científicas corresponden a las mismas técnicas de los aisladores sísmicos utilizados en la Ingeniería Sísmica actual, pero no encontraron aplicaciones en ese tiempo ni la comunidad académica se interesó en desarrollar estas ideas novedosas. La misma situación también ocurrió con patentes concernientes el empleo de mampostería armada (fig. 6 y 7).

Fig. 6: A. Patente n. 10044 aislador sísmico Archivo ACS, Ministerio AIC, UCB, (Italia) 1909, autor Mario Viscardin de Genoa. B. Fricion Pendulum, sistema de aislamiento en la base utilizado en la obra de reconstrucción de la ciudad de La Aquila después el temblor del 2009 (L’AQUILA: Il Progetto C.A.S.E., IUSS Press, 2010)
Fig. 7: A. Patente n. 100432. Mampostería armada. ACS, Ministerio AIC, UCB, (Italia), 1909, autor Battista Foresti Gio de Bolonia. B: Construcción en mampostería armada, sistema actualmente utilizado en Italia para las construcciones en zona sísmicas.
Fig. 7: A. Patente n. 100432. Mampostería armada. ACS, Ministerio AIC, UCB, (Italia), 1909, autor Battista Foresti Gio de Bolonia. B: Construcción en mampostería armada, sistema actualmente utilizado en Italia para las construcciones en zona sísmicas.

Después de estas experiencias aparecieron las primeras aplicaciones del hormigón armado. Los criterios generales del 1909 casi que permanecieron inalterados hasta el nuevo decreto del 1939 [Parducci, 2009a]. En este período se definió una primera ampliación de las zonas expuestas a riesgo sísmico, hasta a llegar a aproximadamente el 25% del territorio nacional. Estas últimas normas fueron basadas directamente sobre la Teoría de la elasticidad y sobre el método de los esfuerzos admisibles.

Todas estas disposiciones permanecieron vigentes hasta los años 70 del siglo XX cuando fue promulgado un nuevo sistema legislativo actual (leyes n. 1086 del 1971 y n.64 del1974), para trasladar las competencias técnicas al Ministerio de las Obras Públicas. Fue tan extensa la zonificación sísmica, que esta cubrió cerca del 45% del territorio nacional y fue introducido el método del espectro de respuesta para definir la intensidad de diseño como función del período de oscilación de las construcciones. De este modo se hicieron algunas actualizaciones normativas con las que se propuso la implementación de los métodos de diseño basados en los Estados Límite, siguiendo los lineamientos de los Eurocódigos. Aunque en Italia el concepto de Estado Limite fue introducido en las normas en los años ‘70 del siglo XX, este solo se incorporó de manera efectiva en la práctica constructiva unos años más tarde, en el 2009 después del terremoto del la ciudad de La Aquila con la ordenanza número 3274 del 2003.

En detalle los Eurocódigos que se desarrollaron durante cierto tiempo, necesitaron actualizaciones posteriores. De esta manera surgió una situación de conflicto de competencias que para poder solucionarlas fue necesario promulgar dos Ordenanzas: n. 3274 del 2003 y n. 3431 del 2005. Estos nuevos instrumentos normativos modificaron sustancialmente las concepciones de diseño además de los correspondientes métodos de análisis. Los objetivos se volvieron más ambiciosos y las modalidades de diseño más complejas.

La principal finalidad fue la prevención de los colapsos que pueden provocar la pérdida de vidas humanas. Por consiguiente el proyecto de las construcciones sismo-resistentes tuvo que basarse sobre el control de los potenciales mecanismos de colapso y sobre el respeto de los Estados Límite prescritos por los Eurocódigos.

Esta transformación suscitó en Italia una actitud de rechazo generalizado de parte de los ingenieros practicantes cuya formación profesional no fue actualizada adecuadamente. Para eso fue necesario conceder numerosas prorrogas que mantuvieron en vigentes las normas antiguas hasta el 2009, cuando el terremoto de La Áquila volvió insostenibles tales prorrogas.

Con el tiempo las normas promulgadas por las Ordenanzas fueron revisadas e integradas en el complejo normativo muy detallado del voluminoso Decreto Ministerial del 14 enero del 2008 hoy en vigor (Normas Técnicas para las Construcciones – http://www.cslp.it/cslp/). Con este decreto del 2008 la zonificación sísmica ya cubre casi el 80% del territorio nacional. El contenido de este último decreto corresponde a una norma sustancialmente parecido a la reciente normativa colombiana en muchos aspectos.

Finalmente es importante señalar que este las normas tecnica italianas, por cuánto concierne la protección sísmica de las construcciones de interés histórico y monumental, propone expresamente las Líneas Guía por la valoración y reducción del riesgo sísmico del patrimonio cultural, emanadas por el Ministerio por los Bienes y las Actividades Culturales. Estas Líneas Guia son armonizadas en efecto con los contenidos de la normativa oficial del 2008 (http://www.beniculturali.it).

Diseño sísmico basado en desempeño

El diseño sísmico, y por lo tanto, la Ingeniería Sísmica Basada en Desempeño es una filosofía para la concepción integral de las estructuras que ha tenido un auge significativo desde la década de los noventa; aunque el concepto viene de mucho antes.

Según las definiciones presentadas por algunas entidades se puede decir que la “Ingeniería Sísmica Basada en Desempeño busca maximizar la utilidad obtenida de una edificación mediante la minimización del costo total que incluye el costo a corto plazo de su uso y el valor esperado de las pérdidas debidas a sismos futuros (en términos de víctimas, costos de reparación o remplazo, interrupción de la actividad, etc.) Idealmente debería considerar todos los posibles eventos símicos y sus probabilidades anuales de ocurrencia” (Fardis M. N, 2010). Sin embargo, apelando a una definición más sencilla se podría decir que la Ingeniería Sísmica Basada en Desempeño está enmarcada por las actividades que involucran el Análisis, Diseño, Construcción y Mantenimiento de estructuras de comportamiento “predecible” para distintos niveles de amenaza.

En esta filosofía de diseño el propietario, el ingeniero y el arquitecto de manera conjunta definen los objetivos de desempeño para la edificación. Con la ayuda de la matriz de desempeño se selecciona los comportamientos esperados de la estructura para distintos niveles de amenaza sísmica.

Los distintos niveles de desempeño se pueden especificar de manera cualitativa como completamente operacional, operacional, nivel de seguridad de vidas y cerca al colapso. También se pueden representar de manera cuantitativa con derivas de entrepiso de 0.5%, 1.0%, 2.0% y 2.5% o de manera alternativa como un índice de relación entre el desplazamiento máximo experimentado y la capacidad máxima de desplazamiento (IDDR).

Los distintos niveles de amenaza sísmica se pueden especificar de manera cualitativa como sismo frecuente, sismo ocasional, sismo raro y sismo excepcional. De manera cuantitativa, esta amenaza se puede representar como el periodo de retorno del sismo especificado, 43, 72, 475, y 970 años o de manera alternativa como probabilidades de excedencia del 70%, 50%, 10% y 5% en un periodo de 50 años. En la figura 8 se muestra un esquema para la selección del nivel de desempeño. Las combinaciones de amenaza sísmica y nivel de desempeño que aparecen en color rojo, no deben seleccionarse; las combinaciones que aparecen en color azul claro representan los objetivos mínimos requeridos y las que aparecen en color verde representan objetivos de desempeño superior o mejorado.

Fig. 8: Matriz de desempeño para el diseño sísmico basado en desempeño
Fig. 8: Matriz de desempeño para el diseño sísmico basado en desempeño

Algunas similitudes y diferencias entre la normativa colombiana y la italiana

En cuanto al diseño sísmico basado desempeño, en particular en Italia, no existen normas previas que directamente aborden este concepto; las normas anteriores generalmente se basaron en métodos empíricos y no científicos. Las primeras normas técnicas en Italia datan del final del siglo XVIII con Giovanni Vivenzio e Vincenzo Ferrareri; a pesar de ser normas técnicas estas fueron normas descriptivas y no científicas. Las primeras normas de carácter científico son las del 1909, Decreto Regio n. 193 del año 1909. Con estas normas, por primera vez fue introducida la modelación cualitativa de las fuerzas sísmicas representadas por fuerzas horizontales en los pisos y estas fuerzas fueron expresadas como función de las cargas verticales.

Por el contrario en Colombia, a pesar de existir cierta noción en algunos sitios de las configuraciones que favorecían el comportamiento sísmico de las estructuras en los siglos XVIII y XIX, las normas técnicas son relativamente recientes, 1984. Aunque en algunos casos se realizaban diseños sísmicos antes de 1984, estos se realizaban con base a normativas extranjeras, principalmente estadounidenses. En este tiempo ya se expresaban las fuerzas horizontales como función del periodo de la estructura.

Las normas sísmicas italianas más recientes (2008) se basan en una noción probabilista del riesgo, concepto que no excluye que el evento temido no ocurra, pero establece una probabilidad suficientemente pequeña de ocurrencia para este. Partiendo de esta filosofía, estas normas consideran diferentes Estados Límites (EL) definiéndolos según criterios de desempeño. Dos de estos involucran, de modo preciso, el diseño en zona sísmica, ellos son: Estado Límite Ultimo (ELU) y Estado Límite de Daño (ELD). En particular, la norma italiana para el caso sísmico denomina también el ELU como Estado Límite de Salvaguardia de la Vida (ELV).

En este aspecto existen similitudes entre el código Italiano y el Colombiano, que también incluye la noción probabilista del riesgo y el concepto de los estados límites mediante la verificación del desempeño de la estructura usando el espectro de diseño estándar y el espectro para movimiento sísmico correspondiente al umbral de daño (inicio del daño).

Para cada Estado Límite (EL) las normas asignan una determinada probabilidad de excedencia de la intensidad sísmica de diseño PR, la cual es igual al 10% para el ELV y al 63% para el ELD en el caso Italiano; para el caso Colombiano estos valores son del 10% y del 80% respectivamente.

Para ser consistentes con los lineamientos de los Eurocódigos, las normas italianas relacionan los niveles de seguridad con los usos que se les dará a las edificaciones. Para mantener el criterio de riesgo uniforme, este código asigna las probabilidades correspondientes a los distintos periodos de referencia; en las normas colombianas este periodo de referencia es constante e igual a 50 años, con respecto al cual se establecen las distintas tasas de excedencia del movimiento sísmico.

El período de referencia parte de una valoración convencional del intervalo de tiempo en el cual una estructura, sometida a un mantenimiento ordinario, tiene que poder ser usada por el objetivo para la cual ha sido destinada. Aún así es fundamental considerar el uso de la edificación. Por ejemplo, en Italia, a cada uso de una edificación se le asigna un valor del período de referencia: 50 años para construcciones ordinarias (viviendas, oficinas, etc.), 75 años para construcciones muy concurridas (escuelas, estadios, etc.), 100 años para construcciones estratégicas (hospitales, estaciones de bomberos, defensa civil, etc.). De este modo, basándose en un modelo probabilista poissoniano que supone la independencia en la ocurrencia de los distintos eventos sísmicos, se pueden calcular los períodos de retorno de los eventos a tener en cuenta en el proyecto para cada uno de los Estados Límite considerados. Los valores de periodo de retorno se muestran en las columnas (c), (d) y (e) de la Tabla 1. Esta es una presentación de la norma técnica italiana que es muy útil para la intervención de edificaciones que representen patrimonio histórico o en general edificaciones existentes (aunque también se acomoda muy bien para ser usado en la arquitectura moderna y contemporánea).

Este formato de la norma italiana no modifica las probabilidades asignadas a cada estado límite pero si cambia el período de referencia al que estas probabilidades están relacionadas. Este sistema permite valorar, como en el ejemplo siguiente, el tiempo mínimo de intervención dentro del que se debe llevar a cabo la adecuación sísmica de una construcción existente que no posee los requisitos de seguridad exigidos por la norma según sus requerimientos actuales.

Tabla 1: Relación entre el periodo de retorno y la probabilidad de excedencia con los estados límites
Tabla 1: Relación entre el periodo de retorno y
la probabilidad de excedencia con los estados límites

En particular para las construcciones existentes e históricas pueden existir razones por las cuales no es posible cuantificar el valor que a ellas se atribuye de manera arbitraria. Para la protección de los valores históricos y artísticos las normas italianas introducen un Estado Límite de Bienes Artísticos (ELA), que se tiene en cuenta cuando tales valores históricos, artísticos, de uso, etc. están presentes en la construcción. En general las verificaciones solicitadas para un ELA se refieren a modelos análogos a aquellos del ELD. Por ejemplo, el daño puede corresponder a la pérdida de valor de un fresco debido a las grietas. En otros casos, por ejemplo para la conservación de elementos decorativos, el daño también puede ocurrir en ausencia de daño estructural. Las instituciones competentes locales tienen que establecer los criterios según los cuales se definen los diferentes ELA.

Otro concepto muy importante es del tiempo mínimo de intervención. Haber asociado el riesgo sísmico a un período de referencia VR permite utilizar el procedimiento ilustrado para tomar decisiones relacionadas con la programación de las tareas de restauración, que de otra manera serían difíciles de ponderar. Una situación muy común en la conservación del patrimonio cultural consiste en el hecho que cuando haya sido identificada una edificación que no satisface los requisitos de seguridad deseados, se puede determinar el tiempo máximo que debe transcurrir antes del cual se deben ejecutar las actividades de intervención para mejorar su seguridad. Si se acepta esta concepción probabilista, es posible entonces calcular, como información de apoyo, el intervalo de tiempo reducido en el cual la construcción, con su capacidad resistente actual, puede sobrevivir con el mismo nivel de seguridad que tendría con las intervenciones o mejoras planeadas, inclusive antes de realizarlas. Por ejemplo, si por el ELV la capacidad estructural de una construcción existente en sus condiciones actuales permite soportar el evento que en el sitio tiene un período de retorno de 47 años, las intervenciones deberían ser realizadas dentro de los próximos 5 años. Eso porque la probabilidad de excedencia del evento de diseño, inclusive teniendo una intensidad menor, debe ser igual a aquel correspondiente al período de referencia solicitado por las normas. Este criterio supone la ocurrencia de sismos como eventos independientes entre sí; es decir, la ocurrencia de sismo no afecta la probabilidad de ocurrencia de otro sismo (modelo “poissoniano” o de Poisson). Este modelo puede ser considerado válido en general, pero no en un tiempo próximo a aquel en que se ha producido un temblor, pues en el corto plazo son esperadas las réplicas de “ajuste”. Este criterio también permite, con elaboraciones numéricas apropiadas, programar varias estrategias de intervenciones sucesivas.

Este formato no es usado de ni presentado de manera explícita en el código colombiano puesto que para estructuras nuevas se utiliza un espectro con un periodo de retorno correspondiente a 475 años, y en el caso de estructuras especiales, adicionalmente, se debe verificar el comportamiento de la misma usando un espectro con un periodo de retorno de 30años (espectro de umbral de daño). No existe por lo tanto la posibilidad de realizar diseño de estructuras con periodos de retorno distintos a estos dos. Como se expresó anteriormente, existe un espectro de seguridad limitada (adicional a los dos ya mencionados) que puede ser usado para edificaciones que representen patrimonio histórico.

Conclusiones

La evolución de la ingeniería sísmica en Colombia y en Italia ha sido distinta. En Italia, las reglamentaciones –formalmente establecidas – con propósitos de generar edificaciones resistentes a sismos viene de mucho tiempo atrás. El desarrollo de técnicas y dispositivos patentados para estos fines datan de inicios del siglo pasado. Por el contrario en Colombia estas reglamentaciones solo han sido implementadas en el último cuarto del siglo pasado. A pesar de esta diferencia, ambas formas de implementar la Ingeniería Sísmica han llegado a grados de madurez similares.

Una diferencia sustancial existente entre el código italiano y el colombiano es la definición de estados límites y la representación flexible del espectro para diversos periodos de retorno, diferentes periodos de referencia y diferentes probabilidades de excedencia. En Italia las normas del 2008 ha introducido el concepto de Estado Límite de los bienes Artísticos. Es importante destacar el formato con el cual las normas italianas representan de manera explícita los estados límites y el concepto de mínimo tiempo de intervención, lo cual permite determinar de manera racional la prioridad a la hora de intervenir edificaciones que representen patrimonio histórico y la premura con la cual esta intervención se debe llevar a cabo.

Para el caso de Colombia, no solo se debe proveer un nivel de seguridad aceptable a las estructuras que representan patrimonio histórico mediante el uso del espectro de seguridad limitada a la hora de intervenirlas sino también establecer claramente el comportamiento esperado para estas edificaciones.

Agradecimientos

Un especial agradecimiento al Profesor Alberto Parducci de la Universidad de Perugia (Italia) y profesor en la Escuela Internacional de Verano de la Universidad de Ibagué por su colaboración científica y sus importantes sugerencias en la redacción de este documento.

También agradecemos al profesor Armando Espinosa Baquero de la Universidad del Quindío y miembro correspondiente de la Academia Colombiana de Ciencias Exactas, Físicas y Naturales por su colaboración al suministrar datos históricos relevantes y por sus sugerencias para incluir en el texto final.

Originariamente pubblicato in:

El presente artículo hace parte de las memorias del VI Congreso Nacional de Ingeniería Sísmica, organizado por la Universidad Industrial de Santander (UIS), UPB Seccional Bucaramanga y la Asociación de Colombiana de Ingeniería Sísmica. Bucaramanga , 29 al 31 de mayo de 2013.

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Masciari Genovese, F. (1915). Trattato di costruzioni antisismiche, preceduto da un corso di sismologia. Milano: Hoepli.

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Vivenzio, G. (1783). Istoria e teoria de’ tremuoti in generale ed in particolare di quelli della Calabria, e di Messina del 1783. Napoli: Stamperia Regale.

Innovazione di processo. I processi edilizi sostenibili

Di Maria Antonia Barucco
Il processo che consente la realizzazione di un edificio è un susseguirsi di scelte e azioni complesse. Tale processo, oggi, deve trovare un sempre maggiore livello d’accordo con il sistema naturale, al fine di ridurre l’impatto che il costruito ha sull’ambiente non solo durante la fase d’uso degli edifici ma anche nelle fasi a monte e a valle dell’arco di tempo detto di “vita utile”. L’utilità del costruito va ben oltre all’essere un riparo, analogamente la definizione di sostenibilità del processo edilizio non è riducibile alla contabilizzazione degli input e degli output necessari al funzionamento della macchina-edificio. Testi di storici, di biologi e di economisti tratteggiano una linea di studi e ricerche utile anche in edilizia e legata alla circolarità del processo distinta tra consumo dei prodotti di origine naturale e uso dei prodotti della tecnica; si prospetta che il progetto d’architettura troverà vantaggi dal riconoscere la circolarità del processo, in coerente relazione con la complessità del mondo di domani, che oggi stiamo costruendo.

Immagine elaborata a partire dal lavoro di Francesco De Comite
Immagine elaborata a partire dal lavoro di Francesco De Comite

La valutazione di un edificio in funzione del suo ciclo di vita può essere assimilata alla lettura del percorso di un fiume. In una schematizzazione di questo tipo l’acqua che giunge alla foce può rappresentare la somma totale dei carichi ambientali necessari alla realizzazione dell’edificio. L’acqua alla foce è il risultato dell’apporto di diversi affluenti, ciascuno giunto alla meta attraverso percorsi differenti e apportando delle quantità d’acqua variabili anche in funzione delle stagioni e degli accidenti che ne segnano la storia, ciò analogamente a come possono variare produzioni, sistemi produttivi e organizzazioni che offrono i semilavorati e i componenti messi in opera nella costruzione.

Nella moltitudine di vie percorse dall’acqua nella sua trasformazione da input ad output possiamo riconoscere le attività di uso, manutenzione, gestione e trasformazione dell’edificio. Il percorso del fiume è il suo ciclo di vita e la quantità di acqua che finisce in mare corrisponde al suo impatto ambientale.

Questo approccio è certamente riduttivo, complesso da calcolare, controverso, … ma il problema principale è che la simulazione proposta si fonda su di un errore: l’acqua non ‘finisce’ in mare. L’acqua segue un ciclo che, oggi, gli edifici non seguono perché al momento siamo in grado di reimpiegare solo pochi del materiali impiegati nella costruzione in nuove costruzioni o produzioni.

Non è un problema legato solo all’industria edilizia, è una questione aperta ed è l’oggetto di avanzate sperimentazioni in molte attività produttive. Essersi accorti di questo errore significa non ritenere più sufficienti le valutazioni di sostenibilità come descritte dagli standard internazionali e andare oltre una visione della sostenibilità edilizia limitata unicamente alla riduzione dei consumi e all’innalzamento della qualità degli immobili (Barucco, 2011).

La complessità del gioco

Il tempo lungo del processo costruttivo storico che innovava attraverso l’iterazione dell’esperienza e delle competenze tramandate si è trasformato nel tempo delle emergenze abitative e nella frenesia delle bolle speculative. Il processo di produzione dei materiali edili e il cantiere descrivono la trasformazione dei tempi e dei modi di pensare al costruito e offrono indicazioni sulla relazione tra l’utente dell’edificio e il contesto con cui questo si relaziona.

Gli edifici simbolo e gli edifici ‘minori’ di un epoca con i loro cantieri testimoniano ciò. Di Venezia, ad esempio, si conoscono le tecniche di approvvigionamento delle materie prime per il cantiere, dal laterizio al legno, alle pietre più pregiate. Si conoscono le leggi che regolamentarono le dimensioni dei travi in funzione delle esigenze commerciali e belliche e della conseguente necessità di legname per l’industria navale. Nelle volte delle chiese si leggono le tracce chiarissime del trasferimento tecnologico ad opera dei maestri d’ascia dell’Arsenale, le cupole rimandano agli influssi culturali dell’oriente, nel territorio permane il ricordo di toponimi legati ai luoghi dell’approvvigionamento. Tutto ciò concorre alla descrizione delle esigenze cui gli edifici dovevano assolvere, funzioni legate al contesto economico, politico ed ambientale che hanno definito la storia di una civiltà oltre che gli edifici di una città.

È possibile guardare in modo analogo anche all’edilizia più recente ricordando che l’industria edilizia ha dovuto, in luoghi e in tempi specifici, rispondere a esigenze diverse riconosciute come ‘onde’ dell’innovazione (Sinopoli, 2002): all’emergenza abitativa della ricostruzione postbellica, segue l’onda della qualità, quella della manutenzione e del controllo dei costi d’esercizio degli immobili, arrivando a riconoscere (oggi) la richiesta di edifici sostenibili. Onde che il CRESME1Il Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio sviluppa annualmente un Rapporto Congiunturale e Previsionale che monitora l’andamento dei diversi mercati delle costruzioni, offrendo dati per analizzare gli aspetti produttivi e di mercato, gli assetti e le trasformazioni territoriali oltre alle tematiche amministrative degli organismi pubblici. registra sempre più frequenti e che arricchiscono il processo edilizio di nuove competenze e di nuove figure professionali, articolando relazioni tra fabbrica e cantiere, tra computer e disegno architettonico, tra tecnici specializzati ed architetto, etc.

Per Mumford la complessità crescente della tecnica può essere paragonata ad un gioco: “mentre il primitivo mondo meccanico poteva essere rappresentato dal gioco della dama, nel quale tutta una serie di movimenti simili è originata da pezzi identici, qualitativamente simili, il mondo nuovo dovrà essere raffigurato quel gioco degli scacchi, nel quale ogni ordine di pezzi ha un grado differente, differente valore, una differente funzione; un gioco più lento e più esatto” (Mumford, 1980). Oggi tale gioco si fa ancor più complesso di quanto non potesse prevedere Mumford e il processo edilizio si fa ‘circolare’, identificandosi idealmente non più con un processo meccanico ma con uno organico (o ecosistemico).

02
Evoluzione del processo costruttivo in uno schema pubblicato dal CIB nell’Agenda 21 on Sustainable Construction

Questa evoluzione del processo costruttivo è descritta in uno schema pubblicato dal CIB2CIB è l’acronimo del nome francese Conseil International du Bâtiment, nel 1998 questo nome fu cambiato in International Council for Research and Innovation in Building and Construction. Il CIB è un’associazione fondata nel 1953 allo scopo di stimolare e facilitare la cooperazione e lo scambio internazionale delle informazioni tra istituti di ricerca governativi operanti nel settore dell’edilizia, in particolare si rivolse agli istituti impegnati nella ricerca dell’innovazione tecnologica. nell’Agenda 21 on Sustainable Construction: le tradizionali variabili per la valutazione dei costi e dei benefici di ciascuna delle attività umane si ampliano quando è presa in considerazione la domanda di sostenibilità ambientale. Il CIB mostra infatti come il triangolo ‘tempi-costi-qualità’ (che misura la competitività nei processi edilizi tradizionali) venga nel tempo recente integrato in uno più grande e complesso, un nuovo paradigma basato sulla relazione tra la valutazione delle risorse ambientali non rinnovabili, la riduzione delle emissioni in atmosfera e la tutela della biodiversità. è lecito e corretto pensare che, di progetto in progetto, alcuni dei vertici dei triangoli abbiano più rilevanza rispetto agli altri; rimane comunque fondamentale la relazione tra i vertici, tra le esigenze individuate sin dalla fase di ideazione del progetto.

La terza parte dello schema CIB mostra che il riferimento al contesto globale introduce tre nuove questioni: l’equità sociale (come componente culturale del progetto), i vincoli economici e la qualità ambientale. Quasi una riproposizione in termini olistici della prima terna di fattori: in periodi di emergenza abitativa l’efficacia del progetto viene misurata sulla rapidità d’esecuzione in cantiere, attraverso la componente temporale del progetto, mentre nell’era della comunicazione la componente caratterizzante l’efficacia del progetto diviene la comunicazione del processo edilizio. Vale a dire che l’efficacia del processo edilizio non è più identificata con la rapidità della risposta ad una domanda diffusa (case per chi non ha un tetto) ma è direttamente proporzionale alla condivisione dei contenuti del progetto (la condivisione del processo edilizio).

Guardare al processo edilizio come all’articolazione di questioni comprensibili, comunicabili e interpretabili dal più ampio numero possibile di portatori d’interesse vuol dire considerare che ogni intervento edilizio incide su un ecosistema che appartiene a tutti, e che su questo processo di trasformazione chiunque può porre delle domande o chiedere delle garanzie. Le voci relative ai costi e alla qualità del costruito rimangono pressoché invariate, se non per l’ampliamento del contesto di riferimento: l’edificio non viene più ‘misurato’ all’interno del suo perimetro ma in relazione con il contesto economico ed ambientale.

Questa terza parte dello schema proposto dal CIB deve oggi essere letta in modo dinamico, circolare, facendo dei tre temi chiave del contesto globale i motori di un di miglioramento continuo del processo edilizio, che parte dall’ideazione del progetto e prosegue oltre il fine vita (la demolizione) dell’edificio. Grazie al movimento da un vertice all’altro del triangolo il processo che parte dall’ideazione del progetto ne amplia le prospettive: equità sociale, vincoli economici e qualità ambientale divengono i temi per l’analisi di ogni progetto, rifiutando gli estremismi che confinano il lavoro del progettista in uno solo dei vertici.

Questo moto produrrà la prossima onda e caratterizzerà, oltre che la domanda di sostenibilità del costruito, anche il mercato edilizio (già ne si trova riscontro in alcuni mercati e in alcune delle richieste contenute nei bandi di progetto e nelle gare d’appalto). Il riferimento alla componente economica di tale ‘moto ondoso’ non è casuale ma è registrato nei documenti Cresme per il contesto italiano e dall’andamento dello S&P/Case-Shiller Home Price Indices per il panorama americano.3Lo Standard & Poor’s Case–Shiller Home Price Indices registra i prezzi di vendita delle case in America raccogliendo dati su 10 o su 20 aree metropolitane tra le più popolose. Portata, ampiezza e forza di quello che può essere un accadimento o uno sconvolgimento nella storia economica delle attività produttive non sono oggi del tutto note mentre appaiono visibili segnali di orientamento tecnologico e su ipotetici scenari per concretizzare i quali oggi abbiamo solo prototipi, ed è al fine di costruire questi nuovi scenari per il processo edilizio e per l’individuazione di tecnologie innovative vale la pena di accettare la sfida della prefigurazione della prossima onda che, ipotizzo, possa essere tesa all’organizzazione della circolarità del processo e su un più stretto legame tra progettazione architettonica, produzione e ciclo edilizio. La nuova onda porrà al centro dell’attenzione proprio il processo edilizio, con ricadute anche su altri comparti produttivi che oggi hanno poco nulla a che fare con il settore delle costruzioni.

Cowboy o astronauti

Un nuovo termine è emerso per descrivere l’epoca che stiamo vivendo: Antropocene, termine utilizzato per la prima volta da Eugene Stoermer: un biologo che, nei primi anni ’80, studiando le alghe nei laghi del nord America trovò chiare tracce dell’impatto delle attività umane sulla Terra. La parola Antropocene, per Stoermer, serviva a indicare un’epoca segnata dagli effetti dell’attrito tra i cicli produttivi dell’uomo e i cicli biologici del nostro pianeta. La componente culturale dell’Antropocene viene invece sottolineata dal lavoro congiunto di Stoermer e Paul Crutzen (2000), premio Nobel per la chimica: egli lesse il frutto dell’attrito tra mondo naturale e mondo della tecnica negli effetti macroscopici sulla formazione e la decomposizione dell’ozono in atmosfera. Dirk Sijmons, architetto del paesaggio, legge Crutzen e racconta (2013) che il mondo è cambiato molto negli ultimi secoli, tanto che “ci siamo persino lasciati alle spalle il buon vecchio Olocene e siamo entrati in una nuova era, nella quale l’umanità sta aggredendo la terra come una forza della natura. Egli la chiama l’era degli umani l’Antropocene”. L’Antropocene è inizialmente un concetto scientifico, poi un ragionamento culturale e, ancora successivamente (oggi) è giusto che diventi un messaggio provocatorio, per ricordare che abbiamo le capacità per modificare sostanzialmente il nostro ecosistema. “Le nuove tecnologie, combinate al numero di individui, ci hanno reso una forza della natura” (Gore, 2006).

Un’economia che estrae risorse ad un ritmo sempre più incalzante, senza tenere in considerazione l’ambiente in cui opera, non può continuare a svilupparsi all’infinito. Ma la soluzione ai danni ambientali che sono in corso non è l’inversione di tendenza, il ritorno del mito del ‘buon selvaggio’ in cui l’uomo, animale buono e pacifico, è stato corrotto dalla società e dal progresso. La soluzione può essere trovata a partire dalla consapevolezza che i cicli delle attività umane devono essere ri-progettati per ridurne al minimo l’attrito con i cicli biologici.

Un modo per figurarsi la dimensione di tale attrito è provare a pensare a quanti edifici si costruiscono. All’inizio del diciannovesimo secolo il nostro pianeta contava un miliardo di esseri umani e oggi ne accoglie sette: questa esplosione demografica è stata accompagnata da un esodo di massa dalle campagne verso le città e se nel 1800 la popolazione urbanizzata era il 3 per cento di quella mondiale, nel 2000 è arrivata quasi al 50 per cento e dal 2007 è la maggioranza (McKinsey Institute, 2012).

Si prenda ad esempio la città di Lagos, in Nigeria: è la prima mega-city dell’Africa sub-sahariana, è la casa di 9 o 17 milioni di persone, a seconda di come si disegnano i confini del perimetro urbano. La popolazione di Lagos aumenta di 3.000 nuovi abitanti ogni giorno e ne fa, in assoluto, la città che cresce più velocemente al mondo. Stimando nuclei familiari di 6 persone si deduce un’esigenza abitativa di 500 nuovi alloggi al giorno (circa 200.000 alloggi all’anno) che vanno ad aggravare una pregressa emergenza abitativa che in Nigeria è stimata per 17 milioni di unità abitative (dati del 2013). Questo è solo uno dei possibili esempi per descrivere una questione più ampia, che fa di Lagos solo una delle parti che compongono un nuovo sistema urbano: il mondo sta organizzando gli insediamenti umani in mega-città e in meta-città, grandemente estese e fortemente connesse.4Dati e riflessioni sul tema sono contenuti nel report State of the World’s Cities che descrive come le città del futuro non saranno singole entità politiche ma si espanderanno oltre i confini geografici di regioni e nazioni. Altri riferimenti sono contenuti nel blog VOD – Value of Differences gestito dal prof. Longhi al sito www.vodblogsite.org che contiene anche un testo esplicativo del termine ‘Antropocene’ [maggio 2014].

Ibadan-Lagos-Accra, Bangkok, Hong Kong-Shenzhen-Guangzhou, Mumbai-Delhi sono solo alcune delle realtà urbane in forte trasformazione e in tutte è presente una comunità ‘abusiva’ in espansione, in cui risiede un’ampia porzione della popolazione (e dell’economia) della città. Le comunità abusive e le baraccopoli sono ora la casa di 800 milioni di persone, con un tasso di crescita previsto di 16.000 nuove unità ogni giorno. è l’immagine di un pianeta andato in tilt? Quale sarà la qualità della vita in questi insediamenti ad alta densità e dalle infrastrutture scarse? Come sarà possibile gestire le risorse materiali, definire lo sviluppo o il rispetto per l’ambiente naturale?

Alla luce della definizione di ‘Antropocene’ non è facilmente accettabile che l’unica soluzione di tale tendenza sia l’applicazione della teoria del buon selvaggio precedentemente citata. Il futuro sarà determinato in funzione di quanto seriamente questi enormi agglomerati urbani prenderanno in considerazione la democrazia, che forse avrà nuove definizioni, sempre più ampie e in linea con quanto descritto nella terza parte dello schema dell’Agenda 21 del CIB.
Le descrizioni dei nuovi insediamenti urbani illustrano una confusione incontenibile, una rete di dare-avere iper-imprenditoriale, una frenesia incessante di parole e commercio che diviene colla, che tiene assieme la città. Le descrizioni della narrativa africana5a rivista Granta 92: The View from Africa e i libri di Binyavanga Wainaina, in particolare Un giorno scriverò di questo posto, edito in lingua italiana da 66thand2nd, 2013.nd, 2013. sono sconcertanti, esilaranti, terrificanti ma raccontano sempre di cose molto umane. E, se Lagos è l’embrione delle meta-città del futuro, se queste non devono diventare cancerose e metastatiche, è necessario progettare nuovi processi, anche nuovi processi edilizi, che abbiano al centro l’uomo, nella sua definizione più ampia.

Per ampliare la definizione delle responsabilità dell’uomo (in relazione ai processi che lo eleggono il protagonista dell’Antropocene) è utile la parabola che, nel 1960, venne illustrata dall’economista Kenneth Boulding: il cowboy e l’astronauta spiegano le conseguenze dell’attrito tra tecnica e natura. Il cowboy si sposta a cavallo verso il West e non si interessa di quanto suolo calpesta, di quanto mangia e di quanti rifiuti lascia dietro di se perché sa che non tornerà più in quei luoghi. Invece l’astronauta può disporre solo di una quantità limitata di input e l’astronave ha una limitata capacità di trasportare rifiuti, perché è un ‘sistema chiuso’ che deve rimanere in equilibrio affinché il viaggio possa continuare (Boulding, 1968).

Boulding sostiene che la misura correntemente adottata per definire il successo di una società (il PIL) deriva dall’obiettivo di massimizzazione del consumo, che è compatibile con l’economia del cowboy ma non con l’economia della nave spaziale. Le grandi città sottolineano i problemi dell’approvvigionamento di risorse ma mostrano anche che l’economia ‘informale’ (e l’edilizia informale), quella non censita e difficile da misurare, creerà molti nuovi posti di lavoro del futuro, non conteggiati nelle statistiche ufficiali sull’occupazione. Secondo le stime de The Organisation for Economic Co-operation and Development il numero di persone che vivono ‘informalmente’ crescerà sino a costituire i due terzi della forza lavoro mondiale entro il 2020. Questo nuovo mondo urbano sarà dominato da imponenti mercatini fai-da-te e quartieri auto-costruiti e dovrà fondare la propria democrazia in considerazione dell’attrito tra tecnica e natura, in un sistema chiuso (McKinsey Institute, 2011).

03
Lo schema dell’ecosistema Terra elaborato da Odum

In riferimento e discutendo la logica del ‘sistema chiuso’, tra gli anni settanta e ottanta, Howard ed Eugene Odum svilupparono un ragionamento per contabilizzare ogni attività, umana e naturale, in un unico sistema o, meglio, in un unico eco-sistema nel quale interagiscono forze di tipo ecologico, energetico ed economico (1995). Lo schema proposto dall’Agenda 21 del CIB ripropone queste componenti (ecologia, energia ed economia) arricchendole della questione culturale che non è esplicita nell’eco-sistema degli Odum (ma che ne consente la formulazione). I fratelli Odum elaborarono queste teorie perché convinti dell’esistenza di un attrito che inceppa il buon funzionamento dei cicli dell’ecosistema Terra, un errore che caratterizza l’Antropocene: diamo un alto valore all’ambiente naturale ma diamo un valore ridotto a ciò che la natura produce, soprattutto al confronto con il valore che diamo ai beni prodotti dall’uomo.

Per correggere questa errata stima del valore di prodotti, elementi e processi gli Odum introducono il concetto di eMergia (emergy, crasi della parola embodied con la parola energy): la quantità di energia solare utilizzata nel processo che genera ogni prodotto o servizio. Secondo Odum, scegliere cosa e come produrre considerando l’eMergia delle attività lavorative potrebbe portare alla riduzione degli attriti tra uomo e natura. Oggi il costo ambientale può contribuire alla definizione del valore dell’immobile, gli strumenti per contabilizzare questo valore sono diversi: l’eMergia, misurata in solar-Joule come nella formula proposta da Odum, la stima dell’impronta ecologica oppure l’embodied energy, secondo le indicazioni delle ISO 14000 (che riprendono molti delle considerazioni di Odum ma semplificano le operazioni di calcolo). Queste valutazioni, dedicate principalmente alla misurazione dell’efficienza delle produzioni industriali, si sono arricchite di analoghi ragionamenti frutto della comprensione dei danni legati alla concentrazione di CO2 in atmosfera. Si parla infatti di embodied carbon, che misura la quantità di anidride carbonica emessa nei processi6Qui di seguito la definizione che il database ICE fornisce per embodied energy ed embodied carbon: “The embodied energy (carbon) of a building material can be taken as the total primary energy consumed (carbon released) over its life cycle. The would normally include (at least) extraction, manufacturing and transportation. Ideally the boundaries would be set from the extraction of raw materials (inc. flues) until the end of the products lifetime (including energy from manufacturing, transport, energy to manufacture capital equipment, heating & lighting of factory, maintenance, disposal, … etc), known as ‘cradle to grave’. It has become common practice to specify the embodied energy as ‘cradle to gate’, which includes all energy (in primary form) until the product leaves the factory gate. The final boundary condition is ‘cradle to site’, which includes all of the energy consumed until the product has reached the point of use (i.e. building site).” ed imputabili ad ogni servizio o prodotto realizzato. L’embodied energy e l’embodied carbon servono a considerare gli input e gli output solitamente ‘esterni’ al sistema economico e sono strumenti utili a correggere la logica del cowboy, che pensa solo al bene commerciabile che (direttamente o indirettamente) deriva dalla natura e non considera il servizio che la natura ha reso nel produrre tale bene.

Questo ragionamento soggiace alla seconda legge della termodinamica che, in modo molto semplificato, può essere riassunta con la considerazione che certi processi si muovono in una sola direzione e non possono essere ripetuti (o riciclati) senza ‘costo’: è in atto un processo di aumento del disordine del sistema nel quale viviamo. Si consideri ad esempio che quando si producono dei pilastri o delle travi in acciaio dal minerale di ferro e carbone si ottiene un materiale ad un più elevato grado di ordine (a più bassa entropia) rispetto al minerale di ferro e carbone; ciò avviene a spese dell’energia e dei materiali disponibili ed è possibile perché la produzione avviene in un sistema aperto, in cui la legge dell’entropia non trova applicazione. Lo schema dell’ecosistema Terra elaborato da Odum mostra questo e sottolinea come il sistema Terra sia debitore del Sole per un’enorme frazione dell’energia che lo rifornisce: si tratta cioè di un’eco-sistema aperto. Al contrario Le nostre attività produttive dipendono in buona sostanza da fonti di energia fossile, limitate e difficilmente rinnovabili, quindi costituenti un sistema chiuso.

È la conversione di energia a permettere la lavorazione di materiali grezzi, il trasporto dei prodotti e il loro consumo. Per Mumford “Nulla potrà chiamarsi veramente ‘progresso’ […] finché non fornirà l’uomo più energia di quanta gliene sia indispensabile per sopravvivere finché quest’eccedenza di energie non si trasformerà in prodotti più duraturi, l’arte, scienza, la filosofia, libri, costruzioni, i simboli. Il primo passo […] è l’utilizzazione dell’energia solare e la trasformazione di questa in forme utili all’agricoltura e alla tecnica; termine ultimo dello stesso processo è la trasformazione dei prodotti intermedi e preparatori in forme umane di sussistenza e di cultura, che si trasmettono agli uomini di generazione in generazione” (1961).

Energia e materia

Il costo energetico per la produzione di un chilo di acciaio del tipo comunemente impiegato nel settore edile è stimato, in media, attorno ai 24,4 MJ; questa stima è fatta in considerazione del fatto che solitamente il 42,7% dell’acciaio di cui sono costituite le barre d’armatura ma anche le travi e le putrelle è acciaio di riciclo. Se il 100% dell’acciaio impiegato in edilizia provenisse da fonti ‘prime seconde’7Costituite da scarti di lavorazione oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio. e non dalle cave il valore della sua energia incorporata scenderebbe sino a 9,5 MJ. Il primato del costo energetico spetta invece all’acciaio inossidabile per produrre un chilo del quale sono necessari 56,7 MJ di energia. Questi valori sono dati medi di calcoli effettuati secondo un’analisi di processo come definita dagli standard internazionali ISO della serie 14000.

I dati disponibili in merito ai consumi energetici delle singole produzioni realizzate nell’area europea sono stati raccolti e organizzati in un foglio di calcolo dall’università di Bath. Questi dati sono disponibili gratuitamente e contribuiscono alla consapevole comprensione dei costi ambientali dei prodotti impiegati in edilizia. Non sono disponibili solo i costi in termini di input nella produzione (i MJ di energia necessaria per realizzare un chilo di materiale o prodotto) ma sono noti anche i costi in termini di output di emissioni nocive in atmosfera, misurati in chili di anidride carbonica per chilo di prodotto. Si potrebbe dunque sostenere che ogni chilo di acciaio in realtà pesa di più di un chilo: un chilo di acciaio comunemente impiegato in edilizia pesa 1kg + 1,77 kg di CO2, un chilo di acciaio riciclato al 100% aumenta il proprio peso solo di 0,43 kgCO2 mentre l’acciaio inossidabile ‘pesa’ sull’atmosfera più di sei volte ciò che comunemente si ritiene, con un’emissione di CO2 pari a 6,15 Kg.8I dati qui riportati sono estratti dal database ICE redatto dall’Università di Bath. http://www.circularecology.com/ice-database.html [aprile 2014].

La UNI EN ISO 14040 spiega come vada applicato l’approccio life cycle nell’analisi delle produzioni, anche edili. Viene chiamata Life Cycle Impact Assessment (LCIA) quella valutazione che, considerato il ciclo di vita di un prodotto (da costruzione), dalla cava alla sua dismissione, ne definisce una fase del ciclo di vita attraverso la descrizione di un confine coincidente con il sistema di produzione. Un confine che, al suo interno, può essere suddiviso in fasi più piccole, interconnesse e concorrenti alla realizzazione di un elemento (che prosegue il suo ciclo di vita attraverso le fasi d’uso) o di un prodotto (che viene avviato verso altri sistemi di produzione). Ogni unità di produzione, sia interna al sistema di produzione considerato o esterna (antecedente o successiva a questo), è caratterizzata da un flusso di input in entrata e di output in uscita, questi input ed output sono materiali, energia e prodotti. I dati utili alla certificazione dell’energia incorporata nei prodotti da costruzione seguono questo approccio e analizzano input ed output del sistema di produzione che, nel caso dell’acciaio, seguono il materiale ferroso dalla cava (from cradle) sino all’uscita dallo stabilimento di produzione (to gate) in forma di profilati, sagomati, bulloneria, minuteria, piatti o lamiere.

Il settore edile è un ambito complesso per l’applicazione delle valutazioni di embodied energy ed embodied carbon in quanto nessun altro processo produttivo coniuga tanto strettamente la produzione industriale (quella della catena di montaggio, from cradle to gate) con la componente artigianale, dalla quale non si può prescindere nell’esecuzione delle opere in cantiere (che siano di effettiva realizzazione in opera o di montaggio di componenti complessi pre-assemblati in fabbrica). Entrambe queste fasi (prima e durante il cantiere) contribuiscono ad aumentare il quantitativo di energia e di anidride carbonica, rispettivamente input ed output ‘nascosti’ nell’edificato. Inoltre anche il ciclo di vita, di qualunque edificio, è articolato e complesso perché segue le alterne vicende dell’utenza ma anche determina ed è influenzato da un sistema urbano e territoriale difficile da confinare all’interno di definizioni dal valore universale.

Queste difficoltà però non devono rallentare la ricerca di un processo edilizio in considerazione di un più ampio sistema (eco-sistema). Organizzazioni come la New Cities Foundation collegano le città per condividere conoscenze in merito alla sostenibilità, alla creazione di ricchezza, alla gestione delle infrastrutture, dei servizi igienico-sanitari, delle reti intelligenti e dell’assistenza sanitaria. Poiché la popolazione mondiale cresce le città diventano i nodi del nostro cervello globale; la gestione delle enormi quantità di energia, anidride carbonica e materiali indispensabili per costruire case per tutti deve essere uno dei pensieri che attraversano questi nodi, in un discorso condiviso e circolare, che collega astronavi-meta-città e risorse, con l’obiettivo della riduzione degli attriti e della generazione di presupposti per la crescita dell’efficienza del sistema.

In definitiva, la presa in conto dell’embodied energy all’interno dei criteri di definizione del valore (e dunque del prezzo) di un immobile punta all’obiettivo di innescare un miglioramento progressivo, ottenibile attraverso l’innalzamento del livello di qualità dei prodotti e la riduzione degli sfridi nel processo edilizio.

La circolarità del processo

“Credere che la problematica suscitata dalla macchina possa essere risolta solo inventando nuove macchine è […] indice di un pensiero immaturo e semplicistico che quasi sconfina nella disonestà” (Mumford, 1980). Analogamente il meccanismo di mercato non può proteggere il genere umano dalle crisi ecologiche del futuro: il costruito può essere considerato un capitale fisso, in quanto deposito fisico di materia ed energia9Su questo argomento si veda anche Barucco M. A. , Fabian L., Embodied energy du territoire et cartes énergétiques, in Énergie et Recyclage, 2014. Rapporto pre-finale, equipe coordinata da P. Viganò e composta da Università Iuav, Venezia (Paola Viganò, Bernardo Secchi, Lorenzo Fabian, Chiara Cavalieri, Maria Antonia Barucco, Emanuel Giannotti); Studio 012 (Bernardo Secchi et Paola Viganò, Marine Durand, Roberto Sega); Tribu Energie, Paris (Bernard Sesolis, Laure Jarrige, Rofia Lehtihet); SUPSI, Lugano (Davide Fornari); Università Ca’ Foscari, Venezia (Valentina Bonifacio); Programma interdisciplinare di ricerca Ignis Mutat Res Penser l’architecture, la ville et les paysages au prisme de l’énergie finanziato da Ministère de la Culture et de la Communication, Bureau de la Recherche Architecturale, Urbaine et Paysagère (Francia). e considerando che il riciclaggio completo è impossibile e d’altra parte che i materiali a basso costo sono disponibili in quantità decrescente, non rimane che la possibilità di lavorare alla minimizzazione degli sfridi nel ciclo di vita del costruito, alla riduzione degli attriti tra il ciclo della natura e il ciclo della tecnica. La verità, anche se spiacevole, è che al massimo si può impedire il consumo non necessario delle risorse e il deterioramento non necessario dell’ambiente, senza però pretendere di conoscere compiutamente il significato di ‘non necessario’ in questo contesto” (Georgescu-Roegen, 1982).

Lo schema ideale a cui tendere appare è il miglioramento degli scambi di materiali ed energia che avvengono nell’intero ciclo di vita dell’edilizio, sino a far coincidere il più possibile input ed output con quanto prodotto dall’ecosistema nel suo continuo ciclo di rigenerazione. Il ciclo edilizio è dunque da considerarsi come un ciclo aperto all’interno di un’altro, più grande, sistema termodinamico aperto solo per quanto riguarda lo scambio di energia. Considerando questo ciclo ideale, il bilancio dell’ecosistema può tendere all’equilibrio e, nella consapevolezza che sarà difficile raggiungere questo ideale, l’impegno dell’innovazione del processo edilizio deve tendere, attraverso cicli di miglioramento continuo (Ciribini, 1984), ad avvicinarsi al modello ideale attraverso aggiustamenti progressivi. In quest’ottica esiste la possibilità di impiegare energie e materie prime seconde10Le materie prime seconde (SRM, Secondary Raw Materials) sono costituite da scarti di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti. e distinguere tra ri-ciclo e sub-ciclo, in quanto solo attraverso il primo tipo di processo si hanno trasformazioni di materiali senza il degrado della qualità del materiale, mentre il sub-ciclo reimpiega materia dedicandola ad altre funzioni, con evidente dispersione di energia.

Tra i primi esperimenti di progettazione e costruzione della circolarità del processo edilizio (all’insegna del riciclo, non del sub-ciclo) vi è la Paper Tube Structure (PTS) di Shigeru Ban. Frutto di sperimentazioni giovanili11La PTS è stata utilizzata da Shigeru Ban per la prima volta nel 1986 per l’allestimento di una mostra di mobili e vetri progettati da Alvar Aalto, tre anni dopo usa lo stesso modello di strutture leggere in tubi di carta all’interno di una galleria d’esposizioni dedicata ad Emilio Ambaz: ciò che rendeva la PTS la soluzione preferita da Shigeru Ban era la possibilità di smontare la e ricostruire struttura rapidamente, per seguire l’itinerario delle esposizioni. e dello sviluppo dell’ideale di costruire un’architettura a impatto ambientale zero, con un ciclo di vita analogo a quello dei materiali con cui è costruita. Quando Shigeru Ban lavorò con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) la PTS si è trasformata da insieme di componenti per allestimenti museali in un sistema costruttivo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

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Dettagli di alcuni progetti di Shigeru Ban: A – Library of a Poet (Sushi, Kanazawa, Giappone, 1991), B – Nomadic Museum (New York e poi Santa Monica, Stati Uniti, 2005), C – Paper Theater (Amsterdam e poi Utrecht, Olanda, 2003). I disegni sono stati elaborati da Diletta Zonzin per la sua tesi di laurea dal titolo Architettura di carta, 2013.

Il genocidio in Tanzania e Zimbabwe portò più di due milioni di persone a fuggire in Ruanda e, nel 2005, l’architetto progettò le prime tende d’emergenza in carta e plastica. Il progetto venne sviluppato negli anni successivi in collaborazione con l’azienda giapponese Sonoco, che spedì in Africa una macchina per la fabbricazione dei tubi di carta e che monitorò la progressione del progetto per quattro anni. Simili costruzioni per le emergenze sono state poi costruite in Giappone, Turchia e in India. La PTS è stata inoltre utilizzata per edifici religiosi, industriali, museali e d’esposizione, tra i quali il più conosciuto è il Japan Pavilion realizzato all’Expo di Hannover nel 2000. Questo spostalo nelle note Il Padiglione è un grande guscio a doppia curvatura di 25 x 75 m realizzato dall’intreccio di lunghi tubi di cartone rivestiti da una membrana traslucida di carta. Le fondazioni sono cassoni di legno riempiti di sabbia. La riduzione dei rifiuti è l’obiettivo alla base del progetto e riguarda l’intero ciclo di vita della struttura: i materiali sono originati da processi di riciclo e, alla fine del tempo d’utilizzo del padiglione, possono essere riciclati nuovamente per ottenere prodotti analoghi a quelli che sono stati messi in opera per l’Expo.

Nel 1991 Shigeru Ban ha realizzato la prima struttura permanente in PTS, la Library of a Poet (in Giappone). Grazie allo sviluppo del progetto, al preciso controllo della produzione industriale dei tubolari in cartone, alle analisi statiche e meccaniche del sistema e al monitoraggio della costruzione, gli standard Giapponesi hanno normato la PTS12Alla fine, nel 1993 i tubi di carta sono stati autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale utilizzabile anche per edifici permanenti, che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan. che dunque (in quel Paese) può essere considerata alla stregua di una qualunque altra tipologia costruttiva, in legno, acciaio, cemento o laterizio.13È il tema della durabilità del materiale ad aver creato i maggiori problemi alla produzione e commercializzazione dei tubi di carta come materiale da costruzione, soprattutto in relazione a tassi di umidità variabile. Posti all’esterno i tubi di carta durano circa 10 anni o più, tuttavia come molti altri materiali da costruzione i tubi vanno in qualche modo protetti dalle intemperie e manutenuti: come capita per le costruzioni in legno, nel caso una parte della struttura venisse danneggiata questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le parti nell’architettura con facilità. Da invenzione e sperimentazione tecnologica la PTS è diventata tecnologia normata.

Era lo stesso piano dell’Expo di Hannover a richiedere di progettare il ciclo di vita degli edifici in modo circolare. A tutti i progettisti coinvolti veniva fornito un testo programmatico: The Hannover Principles. Design for sustainability, una sorta di manuale dell’architetto scritto da William McDonough, già noto per aver pubblicato (con Michael Braungart) From cradle to cradle (2003) e per aver fondato la McDonough Braungart Design Chemistry, società di consulenza per il miglioramento dei processi produttivi (attraverso l’innovazione, la semplificazione della produzione, il progetto del fine vita e il monitoraggio del prodotto o del processo). Il testo programmatico pubblicato per l’Expo insiste perché venga progettata l’interdipendenza del processo edilizio con il mondo naturale attraverso l’eliminazione del concetto di rifiuto e sfruttando con consapevolezza le energie rinnovabili. In questo modo, attraverso il progetto, vengono giustificati e valorizzati i costi in termini ambientali ed economici e il valore dell’edificio può essere messo in relazione al suo costo nel breve e nel lungo termine.

Questo esempio mostra che identificare la ‘salvezza ecologica’ in uno stato stazionario (della tecnologia, dell’economia, …) è sbagliato. In un ambiente finito la crescita, lo stato di crescita zero ed anche la decrescita non possono esistere indefinitamente. Abbiamo a disposizione ‘fondi’ (materia, appartenente ad un sistema chiuso) e ‘flussi’ (energia, sistema aperto) e la tecnologia avrà un ruolo importante nel progetto dei prodotti in modo da lasciare il processo lineare dell’economia take–make–dispose (prendi, usa e getta), che spreca le grandi quantità di materiali di energia e di lavoro che sono incorporati nei prodotti. Si tratta però di non passare dal Buon Selvaggio all’Apprendista Stregone di Johann Wolfgang von Goethe: e in questo ci può aiutare la tecnologia.

Il progetto del processo tecnologico è funzionale alla definizione di un economia basata essenzialmente sul flusso di energia solare che “eliminerà anche il monopolio della generazione presente sulle future. Questo non accadrà completamente, perché anche un’economia del genere dovrà attingere al patrimonio terrestre, soprattutto per quanto riguarda i materiali: si tratta di rendere minore possibile il consumo di risorse critiche” (Georgescu-Roegen, 1982). In questo modo però la definizione di sviluppo sostenibile si amplia e ci porta a chiederci cosa possiamo fare per le generazioni future o, meglio, per consentire a tutte le parti della natura di soddisfare i propri bisogni, ora e in futuro. Nel progetto di un processo circolare, l’obiettivo per tutto ciò che è realizzato con materiali durevoli (come i metalli e la maggior parte delle plastiche) deve essere quello del riuso e della riqualificazione per l’adattamento a nuove possibili applicazioni, per il maggior numero possibile di cicli di vita.

Questo approccio contrasta nettamente con la mentalità incorporata nella maggior parte delle produzioni industrializzate di oggi. Anche la terminologia delle filiere produttive (catena di valore, catena di approvvigionamento, utente finale – value chain, supply chain, end user) esprime una visione ‘usa e getta’, di tipo lineare. Il progetto di un processo circolare invece mira a sradicare i rifiuti non solo dai processi di produzione (gestione snella, lean management) ma in modo sistematico, nel corso dei cicli di vita e degli usi dei prodotti e dei loro componenti. La terza era dell’energia (Toffler, 1987), in linea con i principi dell’ecocompatibilità, considera le esternalità che ricadono su tutti gli uomini e sull’ecosistema Terra ciò perché si usano ancora energie esauribili e mentre si ricercano energie rinnovabili ampiamente disponibili.

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Cambio di paradigma

Un processo tecnologico fondato sulla circolarità della materia ricostruisce o rigenera attraverso l’invenzione e il progetto. Sostituisce il concetto di fine vita con quello di ricostruzione, si sposta verso l’impiego dell’energia rinnovabile, non impiega prodotti chimici tossici che danneggiano il ciclo di riuso e reinserimento dei prodotti nella biosfera, e tende all’eliminazione dei rifiuti attraverso un attento progetto iniziale dei materiali, prodotti, sistemi e modelli economici. Pochi semplici principi guidano questo tipo di processo. Prima di tutto, un concetto fondamentale, il tentativo di progettare i rifiuti. I rifiuti non esistono: i prodotti sono progettati e migliorati per un ciclo di vita che prevede il disassemblaggio e il riuso. Questo stretto legame tra il ciclo dei prodotti e il ciclo dei componenti definisce il processo circolare e lo distingue dal processo che include la discarica o prevede i consueti processi di riciclo che, in realtà, si è visto, sono processi di sub-ciclo: in queste lavorazioni (discarica e sub-ciclo) vengono infatti perdute quantità consistenti di energia incorporata e lavoro. In secondo luogo, la circolarità del processo introduce una netta differenziazione tra componenti consumabili e componenti durevoli di un prodotto. A differenza di ciò che accade oggi, i componenti consumabili coinvolti in un processo circolare devono essere in buona parte realizzati con ingredienti di origine naturale, anche detti ‘nutrienti’, non tossici e, qualora possibile, con benefici per la biosfera nella quale verranno rilasciati a fine uso o dopo una sequenza di successivi impieghi.

A loro volta I beni dalla lunga durata, come possono essere i prodotti dell’ingegneria realizzati con ‘nutrienti tecnici’ sono inadeguati per il reinserimento nella biosfera. Questi vanno sono progettati sin dall’inizio per il riuso e i prodotti soggetti ad un rapido avanzamento tecnologico vanno sono progettati per il miglioramento (non per la sostituzione). Come terza questione si pone l’energia necessaria per alimentare il ciclo che deve provenire da fonti rinnovabili e naturali, per ridurre la dipendenza della risorse esauribili e migliorare la resilienza dei sistemi. Infine, nel processo circolare, la figura del consumatore dei ‘nutrienti tecnici’ viene sostituita con quella dell’utente. Questo richiede un nuovo tipo di ‘contratto’ tra chi offre un prodotto e chi lo utilizza, un tipo di rapporto basato sulle prestazioni del prodotto. A dispetto dell’attuale economia fondata su meccanismi del tipo ‘acquista e consuma’ i prodotti durevoli sono affittati, noleggiati e, qualora possibile, condivisi. Se vengono venduti la transazione è accompagnata da incentivi o accordi volti alla restituzione del prodotto, del componente o del materiale alla fine del periodo di impiego.

Attualmente i casi di progetto di processo circolare sono solitamente sviluppati prevalentemente da grandi firme (come Nike, Renault, Philips, …), questo perché è difficile progettare sistemi che siano economicamente praticabili e che offrano garanzia di un’alta trasparenza. I casi virtuosi di imprese che hanno fatto dell’economia circolare e dell’approccio cradle to cradle la base per il loro business offrono dati sufficienti alle prime stime: per le industrie europee, la Fondazione Ellen McArthur stima tra i 172 e i 275 miliardi di euro di risparmio considerando uno scenario di transizione verso il progetto del processo circolare e tra i 285 e i 457 miliardi di euro in uno scenario più avanzato (2012).

Il progetto di processi circolari è rintracciabile anche nel settore dei materiali da costruzione e dell’arredo. Lo scambio delle informazioni tra chi progetta ed attua processi circolari è agevolato dalla piattaforma europea Cradle 2 Cradle Network (C2CN) e la visibilità di chi offre prodotti coerenti con queste teorie è promossa attraverso la certificazione volontaria Cradle to Cradle.

Il principio del processo circolare è già applicato anche a livello di edificio. Nel suo Sustainability Report (pubblicato nel 2012) l’impresa di costruzioni giapponese Sekisui House Group mostra i primi risultati di quello che viene presentato come il nuovo sistema industriale orientato al riciclo degli edifici e alla realizzazione di abitazioni attraverso un più efficiente utilizzo delle risorse. L’impresa, a fronte dello sviluppo di un più complesso quadro di esigenze da parte degli utenti del costruito, attua la progettazione del processo edilizio distinguendo il ciclo dei ‘nutrimenti naturali’ e quello dei ‘nutrienti tecnici’ inserendovi non solo le nuove costruzioni ma anche gli interventi di riqualificazione. Un esempio ne è la gestione dei rifiuti di cantiere: questi vengono suddivisi in 27 categorie differenti e la chain of custody dei sacchi di rifiuti viene seguita attraverso un sistema computerizzato che consente, raggiunto il centro di riciclaggio,14Questo viene chiamato Resource Management Center, sostituendo anche nella terminologia l’idea di rifiuto con quella di risorsa. di suddividere ulteriormente i materiali in 80 categorie, la maggior parte delle quali viene reinserita in un processo produttivo per la realizzazione di materiali da costruzione. Questi processi di produzione di nuovi materiali edili non prevedono l’impiego di prodotti chimici tossici ma, preferibilmente, sfruttano ‘nutrimenti naturali’ o scarti di altre lavorazioni di come, ad esempio i gusci delle uova impiegate nel settore alimentare. Una scelta che, oltre a recuperare alcune lavorazioni dell’edilizia storica, introduce un’innovazione nel progetto del processo edilizio, innovazione che è stata riconosciuta attraverso certificazioni internazionali e premi da parte del governo giapponese.

Le innovazioni sono possibili non solo alla scala del prodotto, ma anche a quella dell’edificio. Sekisui, attraverso una campagna di acquisizioni immobiliari, è in grado di offrire in affitto o in vendita immobili certificati sostenibili, dalle alte prestazioni energetiche e inseriti in un processo ciclico. Se si desidera cambiare casa è possibile vendere la propria a Sekisui e sceglierne una nuova all’interno del parco abitazioni già inserito nel processo ciclico, questa opzione consente agli utenti dell’abitazione un margine di convenienza superiore nella vendita e un costo del nuovo immobile non differente dal costo medio di mercato, in quanto l’impresa gestisce i propri margini di guadagno anche attraverso il progetto del processo edilizio ciclico della ristrutturazione. L’utente inoltre ha la garanzia del ridotto costo di funzionamento dell’edificio (risparmio energetico) e anche di mantenimento, in quanto le abitazioni Sekisui inserite nel processo ciclico sono sottoposte a interventi di ispezioni e manutenzioni programmate, distribuite su un lungo arco temporale (manutenzione garantita per 20 anni, termine prorogabile sino a 60 anni).

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Processo circolare, schema elaborato a partire dai documenti della Ellen Macarthur Foundation e di McKinsey Global Institute.

Ideologia

“Forse il destino dell’uomo è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante piuttosto che un’esistenza lunga, monotona e vegetativa. Siano le altre specie – le amebe, per esempio – che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare la Terra ancora immersa in un oceano di luce solare” (Georgescu-Roegen, 1982). A partire da questa definizione parlare di processo circolare è fare ideologia,15Ideologia nel senso originario del termine, l’analisi delle idee che, prescindendo dallo studio dell’anima, si basa sull’analisi del sistema nervoso; ideologia che, a prescindere dal sensazionalismo allarmistico della crisi ambientale, cerca di sviluppare l’analisi del sistema produttivo. Ideologia nel senso marxista del termine, come credenza filosofica, religiosa e morale caratterizzante la nostra epoca, nella quale la difesa della natura è contemporaneamente comportamento e giustificazione di un interesse. Ideologia nel senso sociologico del termine, cioè l’insieme di opinioni e supposizioni che orientano un gruppo sociale, in espansione sulle reti della comunicazione. attività peraltro non disprezzabile ma che viene spesso come liquidata come cosa da sognatori… Al contrario il processo circolare può essere una praticabile ideologia nella misura in cui costituisce un nuovo orizzonte per la tecnica, oggi spesso asservita unicamente allo sviluppo economico, quello sviluppo che consente di sognare un’esistenza sempre più felice per la specie umana.16In tale contesto la tecnica è “l’applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria” (Severino, 2010) grazie alla quale, se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio. Il nuovo sogno può essere invece così riassunto: la salvaguardia della terra anziché l’incremento del capitale. Si rovescia la logica secondo la quale la tecnica è al servizio del capitale e si mette il capitale al servizio di questa, in quanto la questione non è utilizzare meno e ancora meno materiali e risorse (decrescita) o produrre di più (crescita) ma progettare un processo, un ciclo, che funzioni. Affrontare la progettazione del processo circolare significa assumere la consapevolezza che non è condivisibile l’auspicio di una crescita o una decrescita indefinita e una lineare gestione economico-politica della tecnica. Fondamentale per fare ciò è il ruolo della condivisione, della comunicazione e dell’approccio dialettico (Sen, 2010): economia ed ecologia trovano nuovi schemi di interrelazione (Loikkanen, 2011) e la tecnica lascia spazio alla tecnologia, in cui la tecnica non è sorda al pensiero umano (filosofico, sociologico, …) ma è tecnologia e fa dell’argomentazione di pensiero (logos) la componente fondamentale dell’arte e del mestiere fatti con e sulla rete delle comunicazioni.

Originariamente pubblicato in:

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1. Il Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio sviluppa annualmente un Rapporto Congiunturale e Previsionale che monitora l’andamento dei diversi mercati delle costruzioni, offrendo dati per analizzare gli aspetti produttivi e di mercato, gli assetti e le trasformazioni territoriali oltre alle tematiche amministrative degli organismi pubblici.
2. CIB è l’acronimo del nome francese Conseil International du Bâtiment, nel 1998 questo nome fu cambiato in International Council for Research and Innovation in Building and Construction. Il CIB è un’associazione fondata nel 1953 allo scopo di stimolare e facilitare la cooperazione e lo scambio internazionale delle informazioni tra istituti di ricerca governativi operanti nel settore dell’edilizia, in particolare si rivolse agli istituti impegnati nella ricerca dell’innovazione tecnologica.
3. Lo Standard & Poor’s Case–Shiller Home Price Indices registra i prezzi di vendita delle case in America raccogliendo dati su 10 o su 20 aree metropolitane tra le più popolose.
4. Dati e riflessioni sul tema sono contenuti nel report State of the World’s Cities che descrive come le città del futuro non saranno singole entità politiche ma si espanderanno oltre i confini geografici di regioni e nazioni. Altri riferimenti sono contenuti nel blog VOD – Value of Differences gestito dal prof. Longhi al sito www.vodblogsite.org che contiene anche un testo esplicativo del termine ‘Antropocene’ [maggio 2014].
5. a rivista Granta 92: The View from Africa e i libri di Binyavanga Wainaina, in particolare Un giorno scriverò di questo posto, edito in lingua italiana da 66thand2nd, 2013.nd, 2013.
6. Qui di seguito la definizione che il database ICE fornisce per embodied energy ed embodied carbon: “The embodied energy (carbon) of a building material can be taken as the total primary energy consumed (carbon released) over its life cycle. The would normally include (at least) extraction, manufacturing and transportation. Ideally the boundaries would be set from the extraction of raw materials (inc. flues) until the end of the products lifetime (including energy from manufacturing, transport, energy to manufacture capital equipment, heating & lighting of factory, maintenance, disposal, … etc), known as ‘cradle to grave’. It has become common practice to specify the embodied energy as ‘cradle to gate’, which includes all energy (in primary form) until the product leaves the factory gate. The final boundary condition is ‘cradle to site’, which includes all of the energy consumed until the product has reached the point of use (i.e. building site).”
7. Costituite da scarti di lavorazione oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio.
8. I dati qui riportati sono estratti dal database ICE redatto dall’Università di Bath. http://www.circularecology.com/ice-database.html [aprile 2014].
9. Su questo argomento si veda anche Barucco M. A. , Fabian L., Embodied energy du territoire et cartes énergétiques, in Énergie et Recyclage, 2014. Rapporto pre-finale, equipe coordinata da P. Viganò e composta da Università Iuav, Venezia (Paola Viganò, Bernardo Secchi, Lorenzo Fabian, Chiara Cavalieri, Maria Antonia Barucco, Emanuel Giannotti); Studio 012 (Bernardo Secchi et Paola Viganò, Marine Durand, Roberto Sega); Tribu Energie, Paris (Bernard Sesolis, Laure Jarrige, Rofia Lehtihet); SUPSI, Lugano (Davide Fornari); Università Ca’ Foscari, Venezia (Valentina Bonifacio); Programma interdisciplinare di ricerca Ignis Mutat Res Penser l’architecture, la ville et les paysages au prisme de l’énergie finanziato da Ministère de la Culture et de la Communication, Bureau de la Recherche Architecturale, Urbaine et Paysagère (Francia).
10. Le materie prime seconde (SRM, Secondary Raw Materials) sono costituite da scarti di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti.
11. La PTS è stata utilizzata da Shigeru Ban per la prima volta nel 1986 per l’allestimento di una mostra di mobili e vetri progettati da Alvar Aalto, tre anni dopo usa lo stesso modello di strutture leggere in tubi di carta all’interno di una galleria d’esposizioni dedicata ad Emilio Ambaz: ciò che rendeva la PTS la soluzione preferita da Shigeru Ban era la possibilità di smontare la e ricostruire struttura rapidamente, per seguire l’itinerario delle esposizioni.
12. Alla fine, nel 1993 i tubi di carta sono stati autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale utilizzabile anche per edifici permanenti, che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan.
13. È il tema della durabilità del materiale ad aver creato i maggiori problemi alla produzione e commercializzazione dei tubi di carta come materiale da costruzione, soprattutto in relazione a tassi di umidità variabile. Posti all’esterno i tubi di carta durano circa 10 anni o più, tuttavia come molti altri materiali da costruzione i tubi vanno in qualche modo protetti dalle intemperie e manutenuti: come capita per le costruzioni in legno, nel caso una parte della struttura venisse danneggiata questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le parti nell’architettura con facilità.
14. Questo viene chiamato Resource Management Center, sostituendo anche nella terminologia l’idea di rifiuto con quella di risorsa.
15. Ideologia nel senso originario del termine, l’analisi delle idee che, prescindendo dallo studio dell’anima, si basa sull’analisi del sistema nervoso; ideologia che, a prescindere dal sensazionalismo allarmistico della crisi ambientale, cerca di sviluppare l’analisi del sistema produttivo. Ideologia nel senso marxista del termine, come credenza filosofica, religiosa e morale caratterizzante la nostra epoca, nella quale la difesa della natura è contemporaneamente comportamento e giustificazione di un interesse. Ideologia nel senso sociologico del termine, cioè l’insieme di opinioni e supposizioni che orientano un gruppo sociale, in espansione sulle reti della comunicazione.
16. In tale contesto la tecnica è “l’applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria” (Severino, 2010) grazie alla quale, se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio.

Il recycle come opzione e come necessità

Di Ezio Micelli
Alla luce dell’attuale scenario economico, l’autore individua nella pratica del riciclo una delle principali agende della cultura architettonica del futuro, proponendo un insieme di linee guida utili a indirizzare il progetto entro condizioni favorevoli perché l’azione di riciclo possa tradursi anche in vantaggio economico, produttivo e culturale.

0. Introduzione

La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile pensare e promuovere gli interventi nelle città.

Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sosteniblità, consenso e sviluppo.

Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate quando non del tutto infondate.

Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock – di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare nella città del prossimo futuro.

1. Il new normal dell’economia e delle città italiane

L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%).

L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da parte delle amministrazioni a tutti i livelli 1Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.
– e sui mercati immobiliari delle nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori.

Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte: Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte: Ance e Banca d’Italia).

Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione.

La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012).

Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta.

Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infra- strutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più precisamente, dei “sistemi territoriali locali” (Calafati, 2009) in cui le città si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati.

2. Valore, forme, energia

La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città.

Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione.

La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012).

Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori nei confronti della trasformazione dell’esistente.

3. La selezione necessaria

Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate.

In un recente saggio (2013), Marini sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni – si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale, da quelle prive di un simile potenziale.

Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale.

Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile, perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni esito del riciclo stesso.

4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente

Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione possibile.

Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa seguito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali.

In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area.

Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi.

Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di va- lore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente.

Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella & Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente.

Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea massimizzazione di rendite e profitti.

5. Quando il recycle è l’unica opzione

Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città.

I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non proprio marginali.

In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate al Piano Casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente.

A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che è stata definita la “rottamazione” della città del dopoguerra in vista di futuri investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a “concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti” (Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento dovranno dedicarsi con rinnovato impegno.

6. Una necessaria estetica del riuso

La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evi- denti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile.

Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli interventi, costituisce un problema di non poco conto.

La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della “città dei ricchi e la città dei poveri”, esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie – in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Ciorra & Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza.

Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata.

Originariamente pubblicato in:

Marini, S., & Roselli, S. (a cura di). (2014). Re-Cycle Op.Positions I. Roma: Aracne. Disponibile presso: http://recycleitaly.net/quaderno/05-re-cycle-op-positions-i/

Bibliografia

Calafati, A. (2007). Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia. Roma: Donzelli.

Camagni, R. (marzo 2012). La città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione. Eyesreg – Giornale di Scienze Regionali, 2(2), pp. 60-63.

Catella, M., & Doninelli, L. (2013). Milano si alza. Porta nuova, un progetto per l’Italia. Milano: Feltrinelli.

Ciorra, P. (2011). Senza architettura. Le ragioni di una crisi. Bari: Laterza.

Ciorra, P., & Marini, S. (a cura di). (2012). Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta. Milano: Electa.

Coppola, A. (2012). Apocalyse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana. Bari: Laterza.

Marini, S. (2013). Post-produzioni o del problema della scelta. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland (pp. 13-17). Roma: Aracne.

Owen, D. (2009). Green Metropolis. Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys to Sustainability. New York: Riverhead Books.

Secchi, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari: Laterza.

Viganò, P. (2012). Elements for a Theory of the City as Renwable Resource. In L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (a cura di), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion (pp. 12-13). Pordenone 2012: Giavedoni.

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1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.

Futuro “chiavi in mano”

Di Vincenza Santangelo
Sostanziata dallo studio di materiali d’archivio, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa occasione per rileggere agli occhi della contemporaneità il peculiare modello organizzativo alla base di un laboratorio creativo dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Alle soglie della terza rivoluzione industriale si prefigura un futuro in cui saremo chiamati a confrontarci con la post-produzione e l’evanescenza della produzione materiale (Sassen, 2004), ereditando nuove terre con cui fare i conti (Marini, 2011). Il processo di migrazione della produzione di beni e servizi verso nuovi paradisi economici sta innescando un processo di ritrazione delle aziende dal territorio italiano (Moretti, 2013), producendo inevitabilmente degli scarti. Scarti materiali come lo svuotamento, anche di senso, degli stabilimenti delle aziende italiane: uno scenario di oltre 9.000 ettari di aree inutilizzate, che fisicamente si concretizza in un vasto ed articolato patrimonio materiale dismesso, dai nodi delle grandi piattaforme industriali alle minute costellazioni di capannoni medio-piccoli. Scarti immateriali come la dissolvenza delle competenze specifiche maturate nelle aziende nel corso dei decenni, tra cui l’attività progettuale svolta nel XX secolo – a cavallo fra gli anni Trenta e Settanta – all’interno delle grandi aziende italiane dagli Uffici Tecnici. Segmento del periodo d’oro delle imprese italiane rimasto nell’ombra, sono stati laboratori di anonimi disegnatori, capi progetto, direttori dei dipartimenti, tecnici, architetti, ingegneri, geometri che hanno esplorato contesti e situazioni differenti, ibridando i saperi e contribuendo alla trasformazione del territorio italiano e oltreconfine, disegnando luci e ombre di un’idea di mondo-azienda (Marini & Santangelo, 2014).

Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973 Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

La ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine – sostanziata dallo studio di materiali d’archivio e dal dialogo con la Fondazione Dalmine – diventa occasione per esplorare l’attività progettuale e costruttiva di questi laboratori dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Il futuro oltreoceano. Il ponte con gli Stati Uniti

Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

A partire dalla seconda rivoluzione industriale si innesca un processo di industrializzazione in Europa e negli Stati Uniti che nel giro di pochissimi anni conduce alla creazione di grandi aziende in determinati settori come la petrolchimica, l’energia, la siderurgia, i trasporti e la grande edilizia industriale (Cariati, Cavallone, Maraini & Zamagni, 2013). Il salto di scala produttivo determina sempre più spesso l’ampliamento fisico degli spazi del lavoro dell’azienda, facendo sì che negli Stati Uniti, già verso la fine dell’800, si iniziano ad introdurre nelle principali aziende industriali degli Uffici Tecnici, interni quindi alle case madri, destinati a gestire l’ampliamento organizzativo e fisico degli stabilimenti.

Nel 1906 l’azienda tedesca Mannesmann, specializzata nella produzione di tubi in acciaio senza saldatura, fonda un nuovo stabilimento nell’area rurale bergamasca denominata Dalmine. Al sorgere dello stabilimento si affiancano ben presto le infrastrutture di base che segneranno le premesse per la fondazione e lo sviluppo di una vera e propria company town: realizzazione delle case per i dirigenti e gli operai secondo diverse tipologie residenziali; introduzione di servizi come la scuola elementare, la caserma dei carabinieri, il refettorio, il garage, gli uffici postali; introduzione di standard minimi per gli spazi verdi e le strutture igieniche, in linea con i primi esempi di città-giardino di quegli anni. Nel frattempo il conflitto mondiale e l’entrata in guerra contro la Germania segnano il definitivo distacco dell’azienda italiana dall’azienda madre tedesca, con la successiva creazione di una nuova società tutta italiana (Dalla Valentina, 2006).

Gli anni Venti rappresentano l’inizio della fase di grande espansione dell’azienda in diversi mercati: tubi per condotte, impianti termici, conduzione di gas e trivellazioni, tralicci. Ciò evidenzia l’esigenza di rinnovare sia gli stabilimenti aziendali ma anche i principi organizzativi, che cominciano ad essere obsoleti. Inizia in tal senso a manifestarsi l’interesse della Dalmine, ma anche di molte altre aziende italiane come Olivetti e Fiat, ad esplorare la cultura aziendale e tecnica oltre l’Atlantico, dove le grandi aziende nordamericane con i loro Uffici Tecnici sono assunti come modello per mettere in atto i piani di espansione e modernizzazione (Banham, 1990; Castronovo, 1977; Olivetti, 1968).

A partire dal 1926 Agostino Rocca, direttore dei laminatoi e consulente della Dalmine, si reca negli Stati Uniti per delle “missioni tecniche e viaggi” (Lussana, 1998), visitando aziende come la National Tube Company, la Pittsburgh Steel Products, la United States Steel Corporation, la Ford e la Westinghouse Electriced entrando in contatto con i relativi Uffici Tecnici, dove tutte le competenze tecniche, le varie fasi e azioni e le relazioni che vi intercorrono sono rigidamente organizzate e sorvegliate dalla figura centrale del project engineer. All’interno del settore Engineering design & drafting si lavora affinché si riesca ad ottenere un tipo di progettazione spinta al dettaglio: dal collocamento sul sito di tutte le apparecchiature necessarie ai dettagliatissimi computi metrici dell’intero materiale occorrente (Rase & Barrow, 1957), cominciando ad adottare la strategia simile al just in time. L’iter progettuale è suddiviso per specialità (processo, civili, strumenti, ispezioni, supervisione ai montaggi ecc.) e ogni progetto è coordinato da un project manager, a cui viene affidato non solo il potere decisionale, ma soprattutto la responsabilità assoluta sulla riuscita del progetto. Viene introdotta la funzione “controllo del progetto” che dal punto di vista operativo consente di verificare l’andamento e la previsione dei costi e dei tempi di esecuzione del progetto, con dettagliate analisi di valutazione dei rischi, mentre la coordination procedure organizza per ogni progetto i ruoli, le competenze, le informazioni, i disegni e le loro revisioni attraverso un articolato processo di uniformazione delle modalità di trasmissione.

Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltreoceano: i viaggi di Agostino Rocca negli Stati Uniti, con l’assorbimento dei principi del taylorismo e il confronto con gli Uffici Tecnici nordamericani, diventano la molla per creare anche all’interno della Dalmine un Ufficio Tecnico con lo sguardo rivolto al modello nordamericano. I saperi, le informazioni, gli incontri di Rocca fatti durante i suoi molteplici viaggi diventano il punto di partenza per introdurre un Ufficio Tecnico che sostituisse quello ormai obsoleto e insufficiente creato alla fondazione dell’azienda stessa.

Il futuro oltre l’azienda. L’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine
Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

La disamina degli ordini di servizio della Dalmine e dei verbali dei Consigli degli organi dell’azienda è il punto di partenza per la ricostruzione puntuale dell’evoluzione della struttura dell’Ufficio Tecnico della Dalmine, evidenziando come nel 1926 1All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”., a partire dalla reinvenzione dell’ufficio preesistente ormai obsoleto, si avvia una sorta di smembramento in gruppi e divisioni sempre più specializzati, per fronteggiare la crescente complessità dei progetti affrontati e per ampliare il campo di intervento dell’azienda stessa. Si passa dalla struttura dell’Ufficio Tecnico destinato alla manutenzione degli impianti esistenti e alla progettazione e studio di nuove strutture, alla creazione di diversi Uffici Tecnici specializzati: l’IMA-Gruppo manutenzione ed esecuzione impianti, incentrato sulle operazioni di controllo del corretto funzionamento degli impianti esistenti e alla sorveglianza dei cantieri di quelli in costruzione; il TEI-Gruppo Tecnico Impianti, destinato a gestire l’apparato amministrativo e tecnico inerente costruzioni meccaniche, carpenterie e gru sia delle macchine che delle costruzioni edili; il PAS-Servizio Partecipazioni, Soci e Immobili che comprendeva sia la parte amministrativa degli immobili dell’impresa che la parte progettuale e di manutenzione dei medesimi immobili; il CAT-Centro Carpenteria Tubolare orientato nella sperimentazione, progettazione e realizzazione di strutture in tubolari come coperture, padiglioni espositivi, palificazioni e ponti.

Negli anni Venti l’Ufficio Tecnico è impegnato con l’esigenza di una riconfigurazione e ristrutturazione aziendale per essere competitiva a livello europeo. Ciò determina la modernizzazione dell’azienda dal punto di vista produttivo espandendosi soprattutto nel mercato dei pali elettrici e tralicci per le imprese ferroviarie, consolidando il rapporto con le Ferrovie dello Stato. Al consolidamento nel mercato si affianca anche quello dell’omonima company town che nel frattempo cominciava ad ampliarsi, affidando la progettazione delle infrastrutture, delle abitazioni destinate ai dipendenti e degli edifici pubblici all’architetto milanese Giovanni Greppi, delineando così un processo di urbanizzazione che sarà sancito con la nascita dal punto di vista amministrativo del comune di Dalmine nel 1927.

Giovanni Greppi, Quartiere operai, planimetria, Dalmine, anni Venti – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere operaio, planimetria, Dalmine, anni Venti. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Negli anni Trenta, con l’entrata in guerra, la Dalmine sposta la produzione verso materiali bellici, facendo sì che l’Ufficio Tecnico si confronti con una committenza militare ma anche nel completamento del centro di Dalmine con piazze ed edifici pubblici, sempre su progetto di Greppi, e nella realizzazione del nuovo stabilimento ad Apuania, che comprenderà anche la realizzazione di un complesso residenziale e attività commerciali, a cui seguiranno poi gli stabilimenti di Sabbio Bergamasco, Costa Volpino e Torre Annunziata.

Alla fine degli anni Quaranta, con la conclusione del secondo conflitto mondiale e l’inizio della modernizzazione del territorio italiano, l’Ufficio Tecnico comincia a mettere a frutto le conoscenze maturate, soprattutto le innovazioni riguardanti le strutture tubolari, per affiancare lo Stato nella progettazione e realizzazione di autostrade, gasdotti, oleodotti, elettrodotti, ponti tubolari, come ad esempio l’impianto NATO di La Spezia, il terminale per l’oleodotto a Falconara Marittima e l’acquedotto per l’approvvigionamento idrico di Ischia e Procida che vince il premio ANIAI 1958.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta il boom del settore petrolifero porta l’Ufficio Tecnico a confrontarsi con dei progetti oltre i confini nazionali, in quelli che all’epoca venivano definiti paesi emergenti, come la piattaforma di attracco delle petroliere nel Mar Rosso e la raffineria del Canale di Suez, che si configuravano come piccole isole artificiali di acciaio al largo delle coste totalmente autosufficienti, dotate di ogni comfort per gli addetti e collegate alla terraferma attraverso tubazioni sottomarine.

Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma del CAT-Centro Carpenteria Tubolare, 1958
Ricostruzione dell’organigramma del CAT- Centro Carpenteria Tubolare, 1958

Negli anni Sessanta esplode il boom economico e vengono introdotti i Piani Casa. Si concretizzano degli accordi con l’InaCasa che portano all’acquisto di alcuni lotti di case a Milano, a cui seguiranno investimenti per case popolari a Bergamo e nei comuni limitrofi a Dalmine, e la partecipazione al programma Gestione Case Lavoratori per la realizzazione di abitazioni a Milano e Roma (Lussana, 2014).

Publifoto, Fiera campionaria. Stand Dalmine, Milano 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Publifoto, Fiera campionaria, stand Dalmine, Milano 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltre i confini dell’azienda: l’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine dagli anni Venti agli anni Sessanta diventa cartina al tornasole della sfida di andare sempre oltre, di affrontare progetti sempre più complessi e di coinvolgere ed integrare competenze sempre più diversificate. L’azienda non è più solo il luogo fisico della produzione materiale, ma dove alle competenze progettuali si affianca una forte visione d’insieme dell’economia e della società. L’articolazione dettagliata e specializzata dell’Ufficio Tecnico consente alla Dalmine di valicare i “perimetri” aziendali, avviando e consolidando un esteso processo di progettazione degli spazi del lavoro e delle relative infrastrutture di servizio, ma anche di modernizzazione del territorio, configurando la Dalmine come dispositivo di progetto e strutturazione di paesaggi nazionali e internazionali.

Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro oltre la crisi. La Fondazione Dalmine

A partire dagli anni Settanta il ciclo degli Uffici Tecnici inizia un graduale esaurimento con l’affermarsi della società post-industriale e l’affiorante obsolescenza della piattaforma industriale italiana. Nel caso della Dalmine, l’acquisizione di nuovi stabilimenti da altre imprese pubbliche porta all’esaurimento del ruolo dell’Ufficio Tecnico nelle sue diverse declinazioni implicando una dismissione del sapere tecnico accumulato nei decenni precedenti. Si dissolve la capacità di prefigurazione del mondo, vengono a mancare visioni di futuro per i territori ed il ruolo del lavoro come elemento fondativo della città e dello spazio, l’anonimato cede il passo al protagonismo degli imprenditori, si affievolisce il dialogo fra pubblico e privato nel disegno dello spazio. Si dismette l’impegno progettuale delle aziende sul territorio e nel disegno degli spazi del lavoro, per cedere il passo a società di ingegneria con orientamenti fortemente tecnicisti e finanziari, ma spesso aride di nuove visioni di futuro. Nel quadro complessivo della delicata congiuntura di crisi economica e di dislocazione della produzione verso i paesi emergenti, si intravede tuttavia dei primi germi del progressivo innesco di un ciclo di inversione della delocalizzazione del Made in Italy e di ritorno al territorio italiano in termini di investimenti, per riconquistare e riconfigurare la sua piattaforma industriale (Bertagna, Gastaldi & Marini, 2012), puntando sulla nuova generazione di lavoratori e sul passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza (Florida, 2003).

La Dalmine, attraverso la creazione dell’omonima Fondazione, prova a reinventare l’azienda come luogo di formazione, insegnamento, rilancio. La sua storia e i suoi saperi maturati nel corso dei decenni, testimoniati dai ricchi materiali d’archivio in fase di sistematizzazione e valorizzazione, sono l’eredità culturale da cui partire.

Il futuro è oltre la crisi: in un momento in cui si riciclano materiali, ma anche idee, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa cartina al tornasole per leggere la trasformazione fisica e strutturale delle aziende nel territorio italiano, ma anche le possibili future traiettorie progettuali degli spazi del lavoro. Una vicenda entro cui rintracciare le mo­dalità di strutturazione di un laboratorio culturale ed architettonico per ripensare l’impegno progettuale delle aziende sul territorio italiano, il ruolo dell’architettura nel disegno degli spazi del lavoro, sviluppare riflessioni sul modello industriale di progetto dei territori, ritornare ad un possibile futuro “chiavi in mano” che consenta di andare oltre la crisi, il tecnicismo imperante, la dismissione materiale e immateriale, recuperandone i fattori competitivi e riaffermando l’azienda che torna a progettare il territorio, superando l’attuale scollamento e mettendo in gioco nuovi cicli che vanno oltre l’evanescenza della produzione.

Questo contributo prende le mosse dalla ricerca “Dalla Fabbrica al mondo. Gli Uffici Tecnici delle grandi aziende italiane” svolta all’interno dell’Assegno di Ricerca di Ateneo coordinato dalla Prof.ssa Sara Marini, Dipartimento di Culture del Progetto, Università IUAV di Venezia, Gennaio 2013 – Gennaio 2014.

Bibliografia

Banham, R. (1990). L’Atlantide di cemento. Edifici industriali americani e architettura moderna europea 1900-1925. Roma: Laterza.

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1. All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”.

Re-Cycle Veneto

Di Lorenzo Fabian e Stefano Munarin
La pubblicazione Re-Cycle Veneto riassume gli esiti del lavoro svolto da alcuni docenti, assegnisti di ricerca e studenti della laurea magistrale dell’università Iuav di Venezia che, nell’ambito della più vasta ricerca Recycle Italy, si sono organizzati in dieci “tavoli di lavoro” per indagare le possibilità di riciclo del territorio veneto. Le sperimentazioni progettuali e le mosse di ricerca illustrate esplorano da angolazioni differenti i concetti base e condivisi della ricerca, ossia l’avvio di nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture esistenti, dismesse o obsolete, entro strategie di progettazione che intervengano in particolare sui temi ambientali, energetici e della mobilità. Il territorio veneto è qui inteso quale elemento in continuo divenire, mai fisso ma neanche mai morto: supporto e “patria artificiale”, che offre resistenze ma al tempo stesso è plasmabile e adattabile agli orizzonti di senso che le esplorazioni progettuali individuano.

Il volume Re-Cycle Veneto, in corso di pubblicazione nella collana dei Quaderni del PRIN Re-Cycle Italy, riassume gli esiti del lavoro svolto da alcuni docenti, assegnisti di ricerca e studenti della laurea magistrale dell’Università Iuav di Venezia che, nell’ambito della più vasta ricerca Recycle Italy, si sono organizzati in dieci “tavoli di lavoro” per indagare le possibilità di riciclo del territorio Veneto e, al contempo, utilizzare questo contesto per indagare alcune possibile articolazioni dell’idea di riciclo. Le ricerche e le sperimentazioni progettuali che illustrati esplorano da angolazioni differenti i concetti base e condivisi della ricerca, ossia la possibilità di avviare nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture esistenti, dismesse o obsolete, entro strategie di progettazione che si interrogano su diversi temi, che vanno dalle questioni ambientali, energetici e della mobilità alla percezione e fruizione di alcuni specifici paesaggi o alla riflessione intorno al concetto di patrimonio.

Questo specifico progetto, della durata di un anno e intitolato Re-Cycle Veneto Lab,1 Recycle Veneto Lab (TURISMO, TERRITORIO, RICICLO: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza “lenta” nell’area veneta, Università Iuav di Venezia, marzo 2014 – marzo 2015), è un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, con i finanziamenti erogati dal Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma operativo 2007- 2013 della Regione. Le ricerche del Recycle Veneto Lab si fondano sulla trasformazione dell’offerta turistica nel territorio veneto, in rapporto ad un’idea di riciclo come pratica virtuosa: sia in considerazione della presenza di infrastrutture ed edifici dismessi sia rispetto a una idea di turismo compatibile e di sostenibilità ambientale. si è concluso con il workshop di progettazione Ve.Net,2Il workshop di progettazione Ve.Net, (3 -12 ottobre 2014, Venezia, Pieve di Soligo) organizzato dall’Università Iuav di Venezia con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, ha coinvolto tredici aziende Venete, dieci docenti, 15 assegnisti di ricerca e 85 studenti della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università Iuav di Venezia. Il programma del workshop ha in particolare previsto un seminario inaugurale a Pieve di Soligo cui sono stati invitati i rappresentanti di tutte le aziende coinvolte, cinque giorni di lavoro collettivo a Venezia nella sede Iuav dell’Ex-Cotonificio Veneziano, e infine un seminario di illustrazione degli esiti e di dibattito generale con la partecipazione di ricercatori della rete nazionale Recycle Italy, di esperti, associazioni e amministratori locali. tenutosi nell’ottobre 2014 all’Università Iuav di Venezia e presso la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo. Al progetto hanno partecipato, insieme ai docenti, studenti e ricercatori dell’Università Iuav i rappresentanti di associazioni di categoria, amministrazioni, aziende e imprese, coinvolti in una comune riflessione volta ad esplorare le possibili ricadute economiche e strategiche di un’ipotesi di radicale trasformazione del territorio veneto. Nel workshop, come nella pubblicazione, i dieci tavoli sono stati suddivisi in tre parti, cui corrispondono anche differenti ambiti tematici e geografici.

La prima parte, Riciclare i territori del Piave e del pedemonte, fa riferimento agli ambiti compresi fra le Alpi e l’alta pianura asciutta, territori dinamici, oggi interessati dai cambiamenti indotti dalla realizzazione dell’autostrada pedemontana e alla ricerca di una nuova e più chiara definizione. La seconda parte, Riciclare i territori dei fiumi e delle infrastrutture, fa riferimento al deposito di acque, strade e ferrovie regionali che hanno strutturato la pianura e la città diffusa veneta, al loro necessario ripensamento alla luce dell’emergere di nuovi temi ambientali, del welfare e della valorizzazione del paesaggio. La terza parte, Riciclare i territori della produzione, fa riferimento alla conclusione di un lungo ciclo economico-produttivo e al necessario ripensamento, anche concettuale, dei suoi spazi. Infine un’ultima parte, cui corrisponde anche un ultimo tavolo di lavoro, è dedicata, fra storytelling e processo, alla narrazione del territorio come possibile forma del progetto.

Un nuovo ciclo di trasformazione

Anche in Veneto, come in altri territori contemporanei, è sempre più chiara la percezione che un lungo ciclo di costruzione della città si stia chiudendo. Nel rapporto sul mercato delle costruzioni del centro studi CRESME (2011) tale percezione si rende manifesta in un grafico che illustra il susseguirsi dei cicli del mercato immobiliare in Italia dal 1950 ad oggi. Il grafico, che mostra l’alternarsi dei momenti di espansione e di contrazione del mercato, si conclude con un ultimo grande ciclo edilizio – il sesto in ordine di tempo – iniziato a metà degli anni novanta del XX secolo e che oggi è in fase conclusiva e di intensa deflazione. Caratterizzato dalla dirompente crescita dei volumi edilizi e del suolo urbanizzato, esso fa luce su una strategia di trasformazione che, nei quindici anni a cavallo dei due millenni, ha applicato al territorio le tipiche dinamiche del mercato di consumo: una trasformazione senza riciclo, avvenuta perché ciò che esisteva non sembrava più adeguato a rispondere alle esigenze di una società in rapido e profondo cambiamento o al fine di alimentare artificialmente la crescita “squilibrata” di un mercato delle costruzioni ormai saturo.

Naturalmente il processo non è stato senza conseguenze. L’ultimo ciclo edilizio, oltre ad aver consumato nuove consistenti porzioni di territorio sottraendole all’agricoltura, ha depositato sul suolo scarti di forma e dimensioni differenti che oggi, anche alla luce dei rischi ambientali e della crisi economica, rendono evidente le fragilità del territorio e introducono ad alcuni possibili slittamenti di senso dei temi del progetto.

Ricicli

Anche alla luce di questi problemi, recentemente, e in particolare a partire dalla crisi del 2007, si è cominciato a guardare anche al territorio Veneto mettendone in evidenza i processi di abbandono e dismissione edilizia. Se si prova però a rilevare il fenomeno, a costruire delle mappe dell’abbandono ci si trova nella necessità di articolare le categorie analitiche, riconoscendo che se si cerca ciò che è completamente e univocamente abbandonato si trova poco mentre diventa assai più interessante segnare ciò che è solo parzialmente utilizzato, ciò che è momentaneamente vuoto, sottoutilizzato o sta cambiando destinazione, ciò che è in attesa di diventare altro, ecc. La dismissione, la chiusura e l’abbandono cioè, qui nel Veneto, appaiono come fenomeno articolato, sia spazialmente (con situazioni economiche ed insediative che reggono, altre che si trasformano ma continuano e altre ancora che soffrono e chiudono) sia nelle forme e nei processi.

Se si cammina nelle zone industriali del Veneto osservando i processi di dismissione ci si trova spesso di fronte a situazioni spurie, dove accanto a pochi eclatanti ed univoci abbandoni si ritrovano tante altre situazione intermedie. Se si osserva l’area di Bassano, la valle del Chiampo o la grande zona industriale di Vittorio Veneto si nota che il capannone e la zona industriale cambiano, si evolvono, diventano altro, ma assai più raramente vengono semplicemente abbandonati. La dismissione qui appare fenomeno opaco, micro, frammentato, richiedendo sguardi più attenti e progetti e politiche più articolati e mirati.

Un ingente patrimonio immobiliare sottoutilizzato o dismesso si scopre invece se si osserva l’edilizia residenziale. I due idealtipi prevalenti – la casa isolata e la piccola palazzina – che pervadono il territorio veneto costituendo quasi la nota di base, oggi sembrano improvvisamente subire un precoce invecchiamento, appaiono obsoleti e non più congrui rispetto alle nuove domande sociali. Obsoleto, male utilizzato o abbandonato appare spesso anche quel vasto supporto costituito dalle reti di acque, strade e ferrovie minori che nel tempo lungo ha reso estensivamente abitabile il territorio, permettendo di attraversarlo e stabilirsi praticamente ovunque. I canali, i fossi e le scoline che, come i fossati di cui ci parla Richard Mabey, sembrano “vocaboli superstiti dell’antico idioma della terra… e anche se l’antico tracciato è interrotto in più punti […], sembrano criptiche trincee scavate in ere remote per assolvere a molteplici funzioni […]. Di sicuro, un fossato non è mai un fossile, una cosa inerte, ma è l’elemento di una narrazione della terra, tenace e adattabile come una buona storia tramandata da generazioni” (2010, pp. 105-106).

Allo stesso modo, le ferrovie minori e le piccole stazioni, le strade bianche, le carrarecce, le rive dei fiumi, i “trosi”, appaiono come tante piccole opere che, come ci ricorda Robert Macfarlane parlando in modo particolare dei sentieri, costituiscono una sorta di “labirinti di libertà, supporto mondano nel senso migliore del termine perché appartengono al mondo, sono aperti a tutti», e come i sentieri, spesso, sono «tracce di esperienze collettive [che] senza manutenzione collettiva e collettivo impiego spariscono” (2013, pp. 17-20).

Questo elenco aperto di infrastrutture, edifici e attrezzature ci invita ad andare a fondo sul concetto di “crisi”, dismissione e possibili scenari di “riciclo”, ricordandoci subito che diventa interessante e necessario riconoscere vari gradi di dismissione, che l’idea di riciclo se applicata ai sistemi insediativi rinvia all’idea di “ciclo di vita” (Viganò 2011). Ai processi di continuo cambiamento che attraversano la città e il territorio, al grado di disponibilità alla trasformazione che i diversi materiali urbani consentono, alla malleabilità del patrimonio esistente, che se vogliamo continui ad essere veramente patrimonio dobbiamo continuamente reinventare e riadattare e quindi alla possibilità di prospettare nuove interessanti visioni di cambiamento senza utilizzare ulteriore suolo libero, senza “urbanizzare” nuovo suolo agricolo ma facendo diventare diversamente abitabile ciò che abbiamo fin qui già edificato. Tra l’altro, ricordando che proprio attraverso un continuo processo di riciclo dell’esistente nei secoli scorsi abbiamo prodotto i centri antichi che ora tanto ci affascinano.

Più in generale le trasformazioni in atto nel territorio veneto ci segnalano che il sesto ciclo edilizio ha qui prodotto una competizione non solo tra attività produttive e tendenze speculative, ma anche tra le parti di territorio che richiedono operazioni di recupero e quelle dove sono ancora possibili nuove urbanizzazioni di suolo agricolo: se nel prossimo futuro lasceremo che le nuove energie economiche e sociali (gli investimenti e le idee imprenditoriali) producano nuovi edifici in territori agricoli (operazioni facili) difficilmente troveremo altre energie in grado di rilavorare l’enorme quantità di edifici e spazi che hanno concluso un loro primo ciclo di vita e richiedono l’avvio di nuovi processi d’uso e attribuzione di senso.

Muovendo dal presupposto che il sistema insediativo contemporaneo non rappresenta lo stato conclusivo di un lungo processo di modificazione e stratificazione ma solamente una sua fase, appare evidente come proprio a partire dalla “crisi” che stiamo vivendo si possa avviare un nuovo sforzo di immaginazione volto a definire futuri assetti territoriali. Nuovi assetti che devono certamente rispondere a criteri di sostenibilità (anche economica) ma dimostrarsi al contempo maggiormente inclusivi, garantire sicurezza idraulica ed ambientale, essere capaci di rispondere alle domande espresse da nuove popolazioni (immigrate e non) immaginando un nuovo ruolo sia per gli innumerevoli edifici e spazi dismessi sia per il patrimonio costituito dagli spazi del welfare, elementi che nell’insieme possono diventare nuovi assi portanti dell’assetto territoriale complessivo.

Occorre domandarsi quindi come un vasto insieme di manufatti e spazi costruiti nel corso di più di mezzo secolo possano costituire oggi il punto di partenza per una grande trasformazione del territorio veneto, per l’avvio di nuovi cicli di vita basati sulla reinterpretazione e riconcettualizzazione dell’esistente, sulla logica delle tre “R” (“riduci”, “riusa”, “ricicla”).

Osservando il territorio veneto ci troviamo di fronte ad un sistema insediativo dinamico, che certamente sta attraversando e deve affrontare sfide assai rilevanti: è un territorio nel quale il tumultuoso processo di sviluppo economico dei decenni passati ha lasciato un ingente patrimonio di spazi in disuso o comunque potenzialmente riusabili; è un territorio che si scopre sempre più spesso a rischio idraulico, nel quale occorre tornare ad osservare attentamente lo spazio occupato dall’acqua e il suo ruolo nella formazione del paesaggio sotto molteplici forme (dal grande fiume fino al più piccolo fosso, dalle aree depresse e umide agli ambiti di risorgiva, ecc.); è un territorio non sempre e non da tutti facile da abitare, nel quale la mobilità è privilegio degli adulti in possesso dell’automobile; è un territorio che si deve confrontare con l’arrivo di nuove e diverse popolazioni con il relativo sviluppo di tensioni e innovazioni sociali; è un territorio in cui si assiste all’incessante processo di trasformazione della sua base economica e produttiva, con i distretti in continuo mutamento, spesso capaci di ripresentarsi sotto forme nuove, sorprendenti, proprio mentre se ne sta studiando la presunta fine.

Un territorio abitato, caratterizzato dalla compresenza di diversi sistemi insediativi, certo non immune da difetti e limiti ma dinamico, che appare ai nostri occhi dotato di una buona resilienza, capacità di mutare, “adattarsi” al cambiamento, un sistema insediativo “intrigante” proprio perché difficile da ridurre entro un’unica immagine riassuntiva (positiva o negativa che sia). Un sistema insediativo interessante perché formato da diversi “modelli urbani” posti vicino l’uno all’altro e che consentono stili di vita diversi: dalla città antica, che ha in Venezia l’esempio esemplare, all’abitare nella rada “città inversa” che si è sviluppata lungo le strade della centuriazione romana; dai quartieri di edilizia residenziale pubblica, troppo spesso criticati sulla base di pregiudizi mentre invece con la loro ricca dotazione di servizi costituiscono una sorta di “isole del welfare” cui fanno riferimento anche gli abitanti delle lottizzazioni private di case su lotto spesso prive dei servizi elementari, alle parti di città compatta costruite a partire dal secondo dopoguerra attorno ai nuclei antichi, parti che grazie alla loro relativa alta densità permettono lo sviluppo di “strade corridoio” con i negozi al piano terra e servite dal trasporto pubblico. Un sistema insediativo nel quale diventa interessante prestare attenzione al contempo agli spazi, ai diversi materiali che vi si sono depositati e alle pratiche, ai soggetti e ai processi sociali che li attraversano reinterpretandoli.

Osservare gli spazi riflettendo sul concetto di “capacità”, sulle possibilità che questi offrono, misurando il benessere sulla base di ciò che gli individui possono fare ed essere, piuttosto che su ciò che possiedono. Pensando che anche di fronte ai problemi e alle crisi del territorio, sia utile cercare di ridurre le forme di ingiustizia (che limita ciò che possiamo fare ed essere) piuttosto che puntare alla realizzazione di un mondo perfettamente giusto (finendo con il riflettere più sulle forme istituzionali che sulla concreta giustizia). Un atteggiamento pragmatico ed incrementale forse, che si alimenta anche di più suggestive ed ampie immagini utopiche ma che ci sembra interessante perché non parte dalla condanna preventiva di ciò che stiamo osservando (cioè modi di abitare il mondo, qui ed ora).

Interpretando il deposito materiale realizzato e più volte riscritto nel corso del tempo come lascito imprescindibile, “supporto” fisico a partire dal quale è possibile sviluppare nuove immagini e idee, nuovi “modi di stare al mondo” che non devono necessariamente fare riferimento all’idea tradizionale di città o di campagna, ma ad inediti spazi di civitas che consentano lo sviluppo di forme di “democrazia sostanziale”.

Le conseguenze del nuovo ciclo di trasformazione dell’esistente, 3Il CRESME indica il ciclo che si sta aprendo e che caratterizzerà il mercato della costruzione dei prossimi anni come una nascente fase di “trasformazione dell’esistente”, di essa nel rapporto si intuiscono i temi prevalenti – la ristrutturazione del patrimonio edificato, la manutenzione del territorio, l’adeguamento infrastrutturale ed edilizio al rischio sismico e idrogeologico – ma non ancora l’intensità o la durata. se applicate al territorio veneto, implicheranno una revisione radicale dei modi d’uso dello spazio, degli stili di vita, delle forme della mobilità, dei sistemi di produzione delle merci, delle principali razionalità energetiche. E’ anche su queste sfide, sulla necessità di immaginare un prossimo ciclo futuro del territorio basato sulla radicale riconcettualizzazione dell’esistente, che può essere interpretata la domanda di progetto che è implicita nelle esplorazioni progettuali documentate nel Quaderno.

Recycle Veneto

Pochi dei temi esplorati in questa pubblicazione sono inediti per i gruppi veneziani coinvolti nella ricerca. Molti di essi precedono la ricerca Recycle Italy e, probabilmente, proseguiranno anche oltre ad essa. In questo senso, le numerose ricerche condotte sul territorio Veneto e che in queste pagine sono sintetizzate, con le loro differenti angolazioni, ambiscono attraverso le ipotesi e le esplorazioni progettuali a produrre nuova conoscenza sul tema della “trasformazione dell’esistente” declinando in diverse forme e prospettive il tema generale del riciclo.

Le ricerche indagano il territorio Veneto e, attraverso il concetto di riciclo, ne osservano i materiali costitutivi, il suo deposito e le attrezzature. Parafrasando Max Black (1983, pp. 87-88), possiamo dire che, attraverso il paradigma del riciclo, i progetti illustrati consentono di “versare nuovo contenuto in vecchie bottiglie”. Grazie al riciclo è infatti possibile traguardare alcuni temi e luoghi già esplorati producendo nuova conoscenza per il territorio veneto e la città diffusa e, contemporaneamente, proprio grazie al lavoro sui casi studio il concetto di riciclo può assumere nuovi significati e legittimità. Considerando che “una metafora efficace ha il potere di mettere due domini separati in relazione cognitiva ed emotiva usando il linguaggio direttamente appropriato all’uno come una lente per vedere l’altro; le implicazioni, le associazioni, i valori costitutivi intrecciati nell’uso letterale dell’espressione metaforica ci permettono di vedere un nuovo argomento in un nuovo modo”, agendo sul territorio come una metafora radicale il riciclo ci permette di vedere cose nuove. Il riciclo è così una metafora che consente di illuminare il territorio alla ricerca di cicli di vita in fase di conclusione e di ipotizzare per essi una nuova e radicale concettualizzazione.

Prese singolarmente le ipotesi di ricerca e le esplorazioni progettuali avanzate dai dieci tavoli di lavoro, rilevano dei tanti modi attraverso cui il riciclo diventa una metafora radicale, capace di parlare della trasformazione dell’esistente e delle sue tante prospettive progettuali.

Il riciclo può, ad esempio, diventare un modo per attribuire valore ai tanti oggetti ordinari che compongono il paesaggio della città diffusa veneta: case, fabbriche, campi coltivati, l’immenso armamentario di elementi che attraversano il territorio veneto sono in questa prospettiva, un deposito di fatiche e energia grigia, risorse rinnovabili di una urbs in horto che idealizza lo spazio del quotidiano ed aspira ad un riciclo completo delle sue parti. Spostando parzialmente il punto di vista nello spazio e nel tempo, adottando lo sguardo del militare e osservando il deposito delle tante rovine e macerie con cui la Grande Guerra ha inciso le montagne, il riciclo diventa anche una modalità di reinvenzione del paesaggio veneto. Lo sguardo strategico in questo caso, da un lato, proiettivamente, prova ad avviare un nuovo ciclo per i teatri della Grande guerra e, da un altro lato, retrospettivamente, consente di imparare dalla tattica del militare: un albero e un campanile possono diventare punti di vista per l’esplorazione del paesaggio, le corrugazioni della terra possono diventare punti di attestamento, i fiumi un ostacolo all’avanzata delle truppe, le colline i possibili presidi. Se invece oggetto della ricerca sono i temi energetici, il riciclo diventa lente per il radicale ripensamento delle infrastrutture che innervano la regione, un tempo supporto alla diffusione insediativa e oggi emblema di un modello energetico e della mobilità inadatto a rispondere agli obiettivi di riduzione delle emissioni e alla realizzazione di eque politiche economiche e di accessibilità. Riciclo in questo senso può significare un nuovo ciclo della mobilità della città diffusa che, attraverso la valorizzazione dei tessuti reticolari di strade bianche e ferrovie, può offrire attraverso l’uso integrato della bicicletta e del treno una valida alternativa all’auto di proprietà. Può anche essere la reinvenzione dei paesaggi di alcuni grandi fiumi, come il Piave, profondamenti manomessi nei decenni passati e che oggi appaiono mondi sospesi, in attesa di un nuovo ciclo e di nuove prospettive. Oppure riciclo può essere il ripensamento di alcune ferrovie ormai dismesse, come nel caso dell’Ostiglia, un tempo supporto della prima modernizzazione della Regione e oggi infrastruttura ciclabile di scala territoriale.

Traslando ancora poco lo sguardo, mettendo a fuoco i temi ambientali e delle tante fragilità che attraversano la Regione, riciclo diventa reinvenzione di un deposito spugnoso e capillare di acque, grandi fiumi, fossi e scoline che oggi, oscillando fra abbondanza e carenza, appare inadeguato o insufficiente a fare fronte alle sfide poste da una efficiente gestione della risorsa idrica, dalle mutazioni del clima e dal crescente dissesto idrogeologico. Un supporto che, alla luce di questi elementi può essere riciclato, come nei casi qui indagati del Marzenego o del Piave, attraverso nuovi processi e prospettive capaci di valorizzare nello stesso quadro sinottico, la condizione di risorsa e di rischio, la domanda di nuovi spazi del welfare, la dimensione di trama pubblica e di paesaggio fluviale in produzione. La metafora del riciclo può infine essere ulteriormente deformata per essere connessa a quella degli archivi dello scarto: ciò che rimane dell’isola storica di Venezia o degli spazi del tessile pedemontano, la discrasia che esiste fra i tanti edifici abbandonati e le poche risorse a disposizione, una strategia per tornare a progettare patrimoni.

L’esperienza della comune ricerca e del workshop hanno tuttavia permesso di aggiungere qualcosa di più che non il semplice accostamento di ipotesi. L’accostamento, a volte la sovrapposizione di temi ed esplorazioni progettuali, ha infatti permesso di individuare alcune grandi cornici di senso che ambiscono ad aggiungere conoscenza alle singole ricerche.

Una prima è legata ad un’idea di progetto inteso come processo di natura incrementale. Il riciclo suggerisce infatti che la politica territoriale non si faccia solo attraverso la realizzazione di alcune grandi opere infrastrutturali il cui progetto e realizzazione è affidata a pochi soggetti e operatori. Il progetto di radicale riciclo del Veneto si può realizzare invece anche attraverso un diffuso, minuto e continuo e processo di trasformazione dell’esistente, affidato a una moltitudine di soggetti le cui istanze sono spesso differenti, a volte confliggenti. La realizzazione di un grande plastico comune ai dieci gruppi è stato in questo senso una sorta di terreno condiviso di esplorazione di un immenso progetto di riciclo immaginato come processo incrementale, additivo, frutto della somma di tante piccole mosse discrete. Attraverso il grande plastico i temi del riciclo hanno mostrato come questo elenco aperto di infrastrutture, attrezzature e paesaggi antropizzati, nel tempo lungo supporto fondamentale dello sviluppo regionale, possano essere oggi ripensati entro progetti integrati e non settoriali, capaci di assorbire entro la stessa cornice di senso i temi sociali, ambientali, energetici e di rivalutazione, anche spaziale, del paesaggio veneto. Il riciclo consente di rendere visibili alcuni fenomeni, come l’abbandono, i disuso e il sottoutilizzo di parti di territorio e di inquadrarle entro una nuova prospettiva progettuale capace di attraversare le scale del progetto.

Più in generale, forse diversamente da quanto avvenuto in altre unità di ricerca, i diversi casi studio qui illustrati intendono il progetto di riciclo entro una prospettiva che intende il territorio come palinsesto, deposito di fatiche e razionalità di elementi che non necessariamente sono abbandonati ma che devono essere radicalmente ripensati. Il territorio è così inteso quale elemento in continuo divenire, mai fisso, nel quale sono sempre compresenti e occorre intrecciare parti e materiali che stanno attraversando diverse fasi di vita, dove si tratta di lavorare non solo con ciò che è completamente dismesso, vuoto, abbandonato, ma con tutto ciò che è sottoutilizzato, marginale, inadeguato, obsoleto, dimenticato. Interpretando il territorio come supporto e “patria artificiale”, che offre resistenze ma al tempo stesso è plasmabile e adattabile ai nuovi cicli e agli orizzonti di senso che le esplorazioni progettuali attuate indicano. 


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Viganò, P. (2011). Re-cycling Cities. In P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Milano: Mondadori-Electa.

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1. Recycle Veneto Lab (TURISMO, TERRITORIO, RICICLO: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza “lenta” nell’area veneta, Università Iuav di Venezia, marzo 2014 – marzo 2015), è un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, con i finanziamenti erogati dal Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma operativo 2007- 2013 della Regione. Le ricerche del Recycle Veneto Lab si fondano sulla trasformazione dell’offerta turistica nel territorio veneto, in rapporto ad un’idea di riciclo come pratica virtuosa: sia in considerazione della presenza di infrastrutture ed edifici dismessi sia rispetto a una idea di turismo compatibile e di sostenibilità ambientale.
2. Il workshop di progettazione Ve.Net, (3 -12 ottobre 2014, Venezia, Pieve di Soligo) organizzato dall’Università Iuav di Venezia con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, ha coinvolto tredici aziende Venete, dieci docenti, 15 assegnisti di ricerca e 85 studenti della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università Iuav di Venezia. Il programma del workshop ha in particolare previsto un seminario inaugurale a Pieve di Soligo cui sono stati invitati i rappresentanti di tutte le aziende coinvolte, cinque giorni di lavoro collettivo a Venezia nella sede Iuav dell’Ex-Cotonificio Veneziano, e infine un seminario di illustrazione degli esiti e di dibattito generale con la partecipazione di ricercatori della rete nazionale Recycle Italy, di esperti, associazioni e amministratori locali.
3. Il CRESME indica il ciclo che si sta aprendo e che caratterizzerà il mercato della costruzione dei prossimi anni come una nascente fase di “trasformazione dell’esistente”, di essa nel rapporto si intuiscono i temi prevalenti – la ristrutturazione del patrimonio edificato, la manutenzione del territorio, l’adeguamento infrastrutturale ed edilizio al rischio sismico e idrogeologico – ma non ancora l’intensità o la durata.

Infrastrutture della memoria.

Di Andrea Iorio e Claudia Pirina
L’approssimarsi della ricorrenza del Centenario della Grande guerra costituisce un appuntamento decisamente importante per la molteplicità di interessi coinvolti, ma che pone una serie di questioni legate al rapporto tra trasmissione della memoria, ancora molto vivida, e le dinamiche di trasformazione del territorio, che al contrario hanno visto la progressiva dismissione di molti dei segni lasciati dall’evento storico e il loro versare in una condizione di fragile e muta quiescenza. L’ipotesi sviluppata è quella di intersecare nuove o diverse modalità di fruizione del territorio, in parte già presenti, come quelle legate al turismo o all’escursionismo sportivo, con sistemi di visita costruiti attraverso il recupero di manufatti infrastrutturali di origine bellica. Le infrastrutture di guerra, in quest’ottica, costituiscono al contempo oggetto di nuovi itinerari di visita e strumento per condurla attraverso le stratificazioni del paesaggio.

Scendemmo per una montagna frantumata di macerie, dalla cima alle falde, ma che conservava ancora, come rughe sulla fronte, le sagome di trincee che avevano seguito i suoi contorni.

(Rudyard Kipling, La guerra nelle montagne. Impressioni del fronte italiano, 1917)

Nella notte tra il 23 e il 24 maggio si celebrerà il centenario dell’ingresso in guerra dell’Italia. Da qualche anno le Regioni che furono coinvolte nel conflitto si interrogano sulla necessità di commemorare l’evento, ma soprattutto sulla qualità delle possibili iniziative culturali. Se da un lato si definisce con chiarezza il carattere retorico delle celebrazioni ufficiali, dall’altro ci sembra sempre più evidente la necessità di rileggere quegli eventi in chiave differente. La Grande guerra ha profondamente influito per dimensioni fisiche, economiche, sociali e culturali sui luoghi teatro delle battaglie ed è stata al contempo momento di costruzione dell’intero territorio circostante. Il paesaggio di oggi contiene al proprio interno frammenti di una vicenda che nonostante abbia costituito per i luoghi solamente un brevissimo spazio temporale, ha lasciato impresse impronte e memorie. Queste tracce si confondono oggi con la geografia, e i segni parzialmente cancellati dal tempo risultano spesso difficili da leggere e interpretare perché privati di quelle relazioni che costituivano il senso della loro collocazione. È interessante quindi riflettere sul ruolo che queste rovine possono ricoprire nella conformazione futura del paesaggio e al contempo sulla possibile costruzione di una rete di rapporti a distanza che permetta di mettere in relazione i luoghi con gli eventi che vi si sono svolti.

Grande guerra e piani per il centenario: il caso Veneto

L’approssimarsi del centenario della Grande guerra offre l’occasione per riattivare l’attenzione sui territori coinvolti, ma è importante riflettere su quali possano essere gli strumenti e le azioni in grado di rimettere in circolo le memorie. Il rischio del proliferare di eventi e attività non strutturate o controllate o ancora tra loro simili sembra chiaro alle amministrazioni locali e alle strutture statali che hanno predisposto apposite strutture nel tentativo di mettere ordine e di selezionare. Non sempre le buone intenzioni hanno prodotto risultati soddisfacenti e in taluni casi il ritardo sulla programmazione rischia di non centrare gli obiettivi prefissati. Da un lato la struttura di Missione statale, attraverso l’emanazione di alcuni bandi dovrebbe mettere a disposizione i fondi stanziati, dall’altro le singole Regioni hanno ricevuto un certo grado di autonomia grazie allo stanziamento di fondi appositi.

In molti casi la speciale condizione di ricorrenza di quegli eventi ha permesso di predisporre la sistemazione e messa in sicurezza di numerosi manufatti bellici, da trincee a forti, ma questo cumulo di frammenti – seppur riqualificati – non rendono spesso riconoscibile o rintracciabile l’aspetto originario dei luoghi e il loro significato più profondo. Al contempo la comprensibile scelta di sfruttare l’occasione favorendo le piccole comunità locali e le associazioni in questa particolare congiuntura economica non sempre è in grado di garantire profondità di contenuti; d’altro lato le ricerche scientifiche sono spesso lontane dalle realtà locali e dal favore di un pubblico non specializzato al quale in generale si intende rivolgersi.

La macchina bellica investì a diverso titolo molteplici regioni, sia dal punto di vista dell’intensificazione dello sforzo produttivo che, in un momento di profonda crisi economica quale quello appena precedente il conflitto, garantì lo sviluppo di numerose aziende, sia dal punto di vista dello spostamento di enormi masse di popolazione che andarono a formare non solo l’esercito, ma anche la grande schiera degli “operai borghesi”. Territori scarsamente popolati e quasi per nulla infrastrutturati in pochissimi anni necessitarono di ingenti sforzi per adeguare i luoghi alle mutate necessità di trasporto di uomini, merci, artiglierie, ecc. e “in breve tempo ‘costruire’ e alimentare il fronte divenne un’importante attività che movimentava ingenti risorse finanziarie, materiali e umane” (Ermacora, 2005, p. 8). Se da un lato l’intera nazione venne coinvolta dal conflitto, dall’altro furono Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia che offrirono i propri territori come teatro per sanguinose battaglie e proprio queste tre sono le regioni che, secondo modalità e tempistiche differenti, si preparano alla celebrazione degli eventi.

Il Comitato esecutivo per le celebrazioni del centenario della Grande guerra del Veneto nel 2013 ha predisposto un documento programmatico, il Masterplan centenario Grande guerra del Veneto, per la “realizzazione del Museo diffuso della Grande guerra in Veneto” con l’intento di “raccontare i segni” che la guerra ha lasciato, “i vuoti che ha generato” e “le ricostruzioni che sono sopravvenute, aggiungendo uno strato in più al testo paesaggistico” (Regione del Veneto, 2013, p. 3). Le linee guida contenute all’interno del Masterplan costituiscono la base per la selezione dei progetti ai quali assegnare fondi nei prossimi anni. Sapere scientifico e saperi locali dovrebbero convergere a formalizzare proposte appetibili per lo più al turista, ma la pluralità di interlocutori a cui rivolgere l’attenzione non rende sempre facile il compito: studenti, turisti in genere, turisti “di guerra”, ricercatori, …

Le infrastrutture di guerra: un tema di ricerca e un punto di vista

Provando a considerare le trasformazioni che la Grande guerra ha lasciato impresse sul suolo, in particolare nel territorio veneto, oltre ai resti di strutture di fortificazione – trincee, bunker, caverne – e oltre alle vaste distruzioni, l’eredità probabilmente più consistente per estensione fisica e per durata del suo utilizzo nel tempo è costituita da una vasta rete di linee infrastrutturali, che hanno profondamente e per sempre modificato le dinamiche di attraversamento e di fruizione del territorio. Tale trasformazione vide la sua origine nella grande quantità di materiali di generi diversi che vennero movimentati negli anni precedenti e durante il conflitto. Tonnellate di calcestruzzo, ferro e legno servirono a costruire forti, baraccamenti, strutture di comando e sanitarie: opere spesso particolarmente difficili da realizzare, che soltanto in parte furono completate, in una corsa contro il tempo, a pochi mesi dall’ingresso in guerra e che in grande parte vennero invece costruite durante lo svolgimento dei combattimenti, secondo le evoluzioni degli assetti e delle tattiche. Lunghi treni trasportavano con ritmo serrato i soldati al fronte, per dare il cambio alle prime linee o più spesso per reintegrare i morti, ma anche per spostare le truppe tra i diversi settori, arrivando a due milioni e mezzo di soldati mobilitati contemporaneamente sul fronte italiano nel 1917. Fucili, cannoni e immensi quantitativi di munizioni venivano regolarmente spediti al fronte per sferrare attacchi potenti quanto dispendiosi, le cosiddette “spallate” di Cadorna. Ma soprattutto ingenti quantitativi di materiali ordinari – alimenti, vestiti, equipaggiamenti – si resero presto necessari: lo scoppio del conflitto, infatti, vide in tempi rapidissimi l’occupazione del fronte da parte di migliaia di uomini, 1A riguardo si vedano Gibelli (1998) e Duménil (2007). una sorta di processo di “urbanizzazione” dei fronti che assumeva cifre spesso analoghe a quelle di una grande città dell’epoca. E la stabilizzazione della guerra di posizione, d’altra parte, innescò un meccanismo perverso e imprevisto che costrinse a mobilitare un esercito parallelo e altrettanto numeroso, quello dei civili, impegnato nella produzione dei materiali di consumo necessari all’approvvigionamento del fronte, ma soprattutto nella costruzione e nella manutenzione di chilometri di infrastrutture per raggiungerlo. 2Il numero di civili reclutati nei lavori di infrastrutturazione bellica viene stimato di poco inferiore al milione di unità. Per uno studio approfondito sul coinvolgimento dei civili nelle costruzioni delle infrastrutture belliche si veda Ermacora (2005). In montagna e sugli altipiani vennero dismesse le vecchie vie, i pascoli, gli alpeggi, e al loro posto sorsero mulattiere, strade e ferrovie: circa 5000 sono i chilometri stimati di nuove rotabili, il doppio quelli già esistenti nelle retrovie, ma oggetto di manutenzioni, 1200 quelli di nuove linee ferroviarie tradizionali o decauville (su una rete totale che nell’Italia del 1914 non superava i 19.000 chilometri), oltre alle gallerie e ai viadotti resi necessari dalla corrugata orografia dei territori di confine. E poi linee telefoniche, condotte d’acqua, teleferiche, baraccamenti simili a piccoli centri urbani.

Paesaggio contemporaneo e memoria: il Piave.
Paesaggio contemporaneo e memoria: il Piave.

Questo forzato processo di antropizzazione cambiò radicalmente – e per sempre – il volto del territorio, interessando un’area ben più ampia della sola fascia di confine ed entrando in profondità anche nelle retrovie. Una rete piuttosto fitta, che legava i comandi di stanza tra Vicenza e Padova ai punti salienti del fronte, venne sovrapposta al territorio del Triveneto, determinandone una trasformazione che ebbe notevole influenza sul suo sviluppo nel dopoguerra: una volta concluso il conflitto, infatti, quelle vie che avevano supportato il passaggio di munizioni, artiglierie e soldati si rivelarono perfettamente adeguate anche per i trasporti civili e commerciali che andavano rianimandosi. E in maniera improvvisa territori che fino a pochi anni prima erano ancora prevalentemente rurali si trovarono intessuti da una maglia viaria e ferroviaria che favorì uno sfruttamento del territorio da un punto di vista sia industriale che turistico, secondo una diffusione capillare che non aveva precedenti. Basti ricordare come i 1500 chilometri di strade costruite in meno di quattro anni sull’Altopiano di Asiago, su un’estensione di circa 900 chilometri quadrati, abbiano reso quel territorio, che per secoli era rimasto sostanzialmente isolato, il luogo con la più alta densità di strade al mondo.

Nel corso dei cento anni successivi quei sistemi hanno subito diversi tipi di alterazione: in alcuni casi sono stati implementati, diventando il sedime su cui realizzare vie di maggiore portata o maggiore velocità, con una netta prevalenza delle trasformazioni in strade carrabili (dovuta al progressivo imporsi del trasporto su gomma); altrove, soprattutto alle quote più alte, molte mulattiere di arroccamento sono oggi i sentieri lungo cui escursionisti spesso inconsapevoli attraversano le montagne per diletto o per sport; molti segni, infine, hanno più semplicemente visto esaurirsi col tempo il loro utilizzo, senza che emergessero tangibili prospettive di trasformazione.

Punti di vista negati: vegetazione spontanea cresciuta di fronte a un bunker italiano sul Montello.
Punti di vista negati: vegetazione spontanea cresciuta di fronte a un bunker italiano sul Montello.

Proprio questi chilometri di vie, che in parte furono dismessi e spesso versano in stato di abbandono o comunque di sottoutilizzo, costituiscono in realtà una straordinaria risorsa materiale. Si tratta di una vasta rete di percorsi che si rende disponibile a un processo di riciclo basato su nuove modalità di frequentazione del territorio e che presenta almeno due caratteristiche peculiari: una capillare estensione che, soprattutto nelle aree alpine o prealpine, permette di attraversare e raggiungere con relativa facilità luoghi toccati solo marginalmente dal recente sviluppo di un’urbanità diffusa, dove altresì è ancora abbastanza preservata una condizione di rurale naturalità; la frequenza con cui queste infrastrutture nate per esigenze belliche spesso contingenti non solo attraversano aree di notevole bellezza paesaggistica, ma anche ricalcano o si relazionano a collocazioni che nel corso della storia avevano già dimostrato il proprio valore strategico nei confronti del territorio, secondo analoghe modalità di controllo a distanza. In questo senso, rileggere i modi attraverso cui la Grande guerra si è insediata nel territorio e a sua volta ha contribuito a costruirlo significa percorrere itinerari, fisici e narrativi, che attraversano la storia dei luoghi, penetrando la ricchezza della stratificazione avvenuta.

Il turismo come occasione

Recenti modalità di fruizione del territorio propongono innumerevoli itinerari, che toccano alcuni luoghi simbolo della Grande guerra, senza tuttavia chiarire il senso della percorrenza in quei luoghi o il loro significato. Numerosi infatti sono gli itinerari esistenti nelle località che furono teatro dei combattimenti, meno conosciuta è la storia delle trasformazioni fisiche del paesaggio, delle attività economiche e delle comunità.

L’evento bellico investì territori contraddistinti da caratteristiche paesaggistiche, ma anche da condizioni culturali e di sviluppo assai diversificate: dalla pianura e gli alvei fluviali, agli altopiani, alla montagna. Se alcune località, principalmente montane, erano caratterizzate già dalla fine dell’800 dalla presenza abbastanza consueta del turismo italiano, ma soprattutto inglese e tedesco, altri devono la propria “fortuna” alle vicende belliche. D’altro canto a differenti caratteristiche morfologiche del terreno corrisposero differenti tecniche e tecnologie costruttive, ma anche differenti necessità, che forniscono altrettante chiavi di lettura per le nostre storie. Il turismo si offre quindi come occasione per il futuro utilizzo di aree che non sempre sono in grado di competere con la proliferazione di variegate proposte di viaggio o mete esotiche.

Itinerario degli sguardi e dei punti di vista: il nuovo accesso all’Osservatorio del Re.
Itinerario degli sguardi e dei punti di vista: il nuovo accesso all’Osservatorio del Re.

Il tema del confine precedente all’inizio della guerra, ad esempio, racconta e chiarifica la cultura di alcuni territori di confine caratterizzati dall’incantevole bellezza del paesaggio, ma al contempo da frequenti guerre e lotte di potere. La presenza di numerose infrastrutture belliche mostra quanto fosse mutevole la condizione dei territori vicini al fronte. Un chiaro esempio è quello costituito dalla Strada delle Dolomiti, voluta e costruita per scopi strategici dall’amministrazione austriaca tra XIX e XX secolo e abbandonata dall’esercito austriaco perché ritenuta poco difendibile subito dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria: quella strada oggi costituisce un importante percorso turistico che, attraversando i magnifici paesaggi dolomitici, eletti nel 2009 dall’UNESCO Patrimonio naturale dell’umanità, ripercorre la linea del fronte italo-austriaco durante la Grande guerra. La strada fu pensata e voluta da Theodor Cristomannos nell’intento di valorizzare l’area dolomitica, portando benessere agli abitanti del luogo grazie allo sviluppo turistico, ma costituì un’importante arteria di comunicazione anche nel periodo bellico, a partire dalla quale una fitta rete di strade, mulattiere e teleferiche si inerpicava sui fianchi delle montagne fino a raggiungerne le vette.

La costruzione di un complesso sistema logistico e di infrastrutture testimonia l’asprezza della guerra in territori impervi e caratterizzati dalla rigidezza del clima e dalla povertà di mezzi di comunicazione, che rendono il racconto della guerra in alta quota di particolare interesse anche per un pubblico non in grado di visitare direttamente quei luoghi. Ripercorrere il sedime di quei sentieri al contempo permette forse di provare la fatica del soldato, nonostante immersi in un’atmosfera totalmente pacificata e lontana dalle memorie di quegli eventi.

Itinerario degli sguardi e dei punti di vista: il belvedere verso l’osservatorio austriaco al villino della Guizza.
Itinerario degli sguardi e dei punti di vista: il belvedere verso l’osservatorio austriaco al villino della Guizza.

Lo sviluppo di tecniche e tecnologie avanzate proprio in questi territori, spesso quasi inaccessibili, si rese particolarmente indispensabile, tanto da arrivare anche alla radicale modifica delle creste delle montagne attraverso la realizzazione di complessi sistemi di gallerie e cunicoli che penetravano fino alle viscere o alla trasformazione della sagoma stessa dei monti a causa dello scoppio di mine. Alcune tracce di questi eventi sono ancor oggi impresse nei suoli, ma la sola fruizione di frammenti difficilmente è in grado di farsi testimone della complessa rete che rendeva possibile la vita quotidiana per un numero considerevole di persone. Risulta quindi necessario osservare il paesaggio esistente con occhi differenti, tentando di recuperare molteplici sguardi: lo sguardo del turista precedente alla guerra, lo sguardo del soldato o dei comandi, lo sguardo dei reduci che tornavano nei luoghi della loro sventura o ancora lo sguardo costruito negli anni subito a ridosso degli eventi nelle prime guide pubblicate dal Touring club italiano sul finire degli anni venti (Sui campi di battaglia, 1925-1931).

L’obiettivo dovrebbe essere di sviluppare la capacità di leggere la stratificazione degli eventi per poter disvelare ed educare a vedere: in tal senso l’individuazione di punti di osservazione strategici rispetto ai luoghi e alla comprensione di tracce e frammenti si costituisce come passo fondamentale per la ri-costruzione delle nostre storie. Non è sufficiente occuparsi solamente della riqualificazione di grandi manufatti, siano essi forti, trincee o gallerie, ma della messa in rete di un sistema anche attraverso la costruzione di piccoli luoghi di sosta e di un sistema informativo capace di rendere manifesti e comprensibili questi frammenti.

Itinerario degli sguardi e dei punti di vista: la discesa al fiume e lo “sguardo del soldato”
Itinerario degli sguardi e dei punti di vista: la discesa al fiume e lo “sguardo del soldato”.

Alla spettacolarità dei luoghi montani si contrappone l’ordinarietà fisica di alcune località oggi ricordate prevalentemente per le cruente vicende belliche che si svolsero sulle loro cime e che permisero la difesa dal nemico, luoghi simbolo che accolgono sacrari realizzati per celebrare le vittime del sacrificio. Il Monte Grappa, così come l’Altopiano di Asiago, prima della Grande guerra erano massicci montuosi prevalentemente utilizzati per condurre le mandrie al pascolo nella stagione primaverile ed estiva, che vennero sconvolti e martoriati dagli eventi che vi si svolsero. Alla panoramicità di alcune strade che costeggiano le zone di retrovia del fronte, si contrappone la condizione di difesa e protezione offerta da profonde valli che penetrano le pendici rocciose e che accoglievano complessi sistemi di risalita costituiti da mulattiere e teleferiche. Recuperare lo sguardo del soldati può significare allora scegliere il luogo, la corretta esposizione, il miglior punto di vista per guardare ed essere, o meno, visti e permette di elaborare progetti che costruiscano sottili relazioni con la complessa conformazione dei suoli.

Il progetto come rilettura: il caso della ferrovia dismessa Montebelluna-Susegana

Le riflessioni finora condotte hanno trovato la possibilità di un confronto con una dimensione effettivamente progettuale attraverso la partecipazione al seminario Ve.Net organizzato nell’ottobre 2014 dall’Università Iuav di Venezia e Recycle Veneto Lab in collaborazione con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, dove un tavolo di lavoro è stato dedicato a infrastrutture della Grande guerra e paesaggi della memoria, sulla base delle ricerche in merito condotte fino a quel momento dagli autori del presente articolo.3 Il Recycle Veneto Lab è l’organo di sede che l’Università Iuav di Venezia ha fondato relativamente alla partecipazione come capogruppo a un PRIN (Progetto di ricerca di interesse nazionale) dal titolo Re-Cycle Italy. La Fondazione Francesco Fabbri di Pieve di Soligo è un’istituzione dedicata allo sviluppo di programmi in ambito culturale, socio-economico e ambientale, con particolare riferimento all’osservazione delle trasformazioni in atto nel territorio veneto. Le ricerche cui si fa riferimento sono in parte quelle condotte all’interno dell’unità di ricerca Architettura, archeologia, paesaggi: teatri di guerra dell’Università Iuav di Venezia, coordinata dalla prof. Fernanda De Maio, in parte quelle raccolte all’interno di due assegni di ricerca svolti presso il medesimo istituto, responsabile scientifico prof. Alberto Ferlenga: Andrea Iorio, Riciclare paesaggi, interpretare memorie. Esperienze di riciclo strategico (2013-14) assegno parte del PRIN Re-Cycle Italy; Claudia Pirina, Turismo sostenibile, comunicazione e valorizzazione del territorio, progettazione e gestione di offerte turistiche tematizzate su temi storici e culturali e del relativo marketing territoriale (2014-15), assegno finanziato dal Fondo Sociale Europeo e che prevedeva il partenariato con PR Consulting di Padova, azienda dedicata alla promozione di attività turistiche.

Il tema proposto, che consisteva nel ripensamento delle dinamiche di trasformazione del territorio veneto contemporaneo a partire da pratiche di recupero e riuso di manufatti dismessi, veniva declinato attraverso due operazioni fondamentali: da un lato l’individuazione, all’interno del vasto numero di infrastrutture legate alla Grande guerra oggi abbandonate, della ex linea ferroviaria Montebelluna-Susegana e di una serie di manufatti ad essa connessi quali punti fissi per ripensare le modalità di attraversamento o di visita del territorio attorno al Montello, un contesto assai particolare per le stratificazioni di memorie storiche e di usi contemporanei soprattutto legati a turismo ed escursionismo sportivo; dall’altro la mappatura e la successiva riorganizzazione dei principali luoghi storici o della memoria presenti in quel territorio, al fine di costruire un sistema di visita coerente, ma allo stesso tempo diversificato secondo molteplici temi narrativi.

Il progetto si proponeva di far reagire due concetti di natura diversa – l’una immateriale, l’altra fisica – quali memoria e tracce, a partire da una costatazione piuttosto evidente: da un lato, la memoria della Grande guerra ha spesso assunto un carattere sostanzialmente atopico, astratto, anche in luoghi dove i racconti e le immagini delle vicende passate sono estremamente vividi, ma sono difficilmente “ricollocabili” nel mutato scenario contemporaneo; dall’altro, la semplice presenza di tracce materiali, anche numerose, non è di per sé sufficiente a testimoniare la storia di cui sono portatrici, dimostrando al contrario tutta la fragilità di fronte alle recenti dinamiche di trasformazione del territorio.

Infrastrutture belliche e attuali modalità di visita del territorio: la linea ferroviaria dismessa Montebelluna-Susegana come itinerario ciclo-turistico
Infrastrutture belliche e attuali modalità di visita del territorio: la linea ferroviaria dismessa Montebelluna-Susegana come itinerario ciclo-turistico.

Il tratto infrastrutturale preso in considerazione è costituito da una linea ferroviaria oggi dismessa che, tra campi abbandonati e proprietà recintate, corre parallelamente al versante meridionale della collina, tra Ponte della Priula e Montebelluna. Lunga poco meno di 21 km, questa ferrovia fu costruita nelle fasi precedenti la Prima guerra mondiale come itinerario in grado di portare i treni provenienti dalle varie parti del Regno verso la linea di confine orientale. A seguito della rotta di Caporetto e dell’attestamento del fronte sul Piave, la linea, che si trovava in posizione riparata dal Montello, si rivelò un’infrastruttura fondamentale per la movimentazione e l’approvvigionamento delle truppe. Il rapporto tra retrovie e prime linee si basava fondamentalmente sulla struttura viaria esistente, fatta di 21 “strade di presa”, una serie di strade parallele in senso nord-sud, che suddividevano la collina in settori regolari: si trattava di una rete che affondava le sue origini nel tradizionale sfruttamento del Montello come riserva boschiva per la Serenissima, ma la cui finale configurazione si era definita soltanto nel 1892 con la ripartizione stabilita dalla legge Bertolini. Coinvolta e danneggiata pesantemente dalla guerra, fu riaperta soltanto nel 1920; un progressivo smantellamento di numerose sue parti, tuttavia, condusse alla dismissione nel 1966, fatta eccezione per alcuni brevi tratti rimasti a servizio di un deposito militare e di un’industria locale e ufficialmente soppressi nel 1984.

Il progetto muove dal recupero del sedime ferroviario, riconvertito in pista ciclabile o metropolitana leggera di superficie: oltre a costituire un’infrastruttura per modalità differenti di attraversamento di quel territorio, la definizione di questa nuova spina offre l’occasione per attestare una serie di itinerari di visita del territorio, in particolare legati alla memoria della Grande guerra. Costruiti selezionando sezioni ideali che ripercorrono le vie di merci e uomini dalle retrovie alle trincee di prima linea fino al Piave, quattro nuovi itinerari di progetto raccontano le relazioni tra fronte e territorio circostante. Questi nuovi percorsi, disegnati a partire dal riutilizzo di alcuni ex caselli, stazioni e case cantoniere in posizione strategica e dalla loro trasformazione in piccoli luoghi espositivi, ma anche di ristoro e bike sharing, promuovono la creazione di una sorta di “museo diffuso” lineare, ma anche la ridefinizione di spazi adibiti alla fruizione delle comunità locali. Inoltre, a conferma di un’idea di messa a sistema delle diverse iniziative legate alle celebrazioni del Centenario della Grande guerra, essi vengono progettati in collegamento con gli itinerari turistici da poco inaugurati sul lato del fronte austriaco.

Itinerario sulle trasformazioni del paesaggio: il nuovo recinto all’area sacra della Valle dei morti.
Itinerario sulle trasformazioni del paesaggio: il nuovo recinto all’area sacra della Valle dei morti

Gli itinerari di visita sul Montello ricalcano il sedime storico delle strade che, fin dai tempi della Serenissima e dei lavori di manutenzione e gestione del territorio ottocenteschi, ne hanno costituito il sistema infrastrutturale e sono stati identificati attraverso un principio narrativo, organizzato per temi, individuando lungo il percorso piccoli luoghi strategici in grado di rendere particolarmente manifesto il tema proposto. I temi attorno a cui si condensano i quattro itinerari sono: la questione dello sguardo, dei punti di vista e delle tecniche di osservazione; le trasformazioni del territorio, sia per le distruzioni belliche, che per le pratiche agricole; il tema delle infrastrutture costruite per la guerra; infine, il tema della stratificazione del territorio, confermato dal frequente riuso di collocazioni strategiche nel corso della storia.

Itinerario delle infrastrutture di guerra: passerelle sul greto del Piave
Itinerario delle infrastrutture di guerra: passerelle sul greto del Piave.

Costruiti secondo una direzione trasversale che collega linea ferroviaria e fiume, i quattro percorsi permettono di seguire integralmente, ma secondo punti di vista ogni volta differenti, la completa articolazione del fronte italiano: una sorta di sezione ideale che incrocia i campi di battaglia, identificabili nelle vaste isole di ghiaia che caratterizzano il corso del Piave tra Vidor e Falzè, la sequenza delle principali linee fortificate concentrate soprattutto nella parte settentrionale del colle, e, oltrepassato il crinale, le zone di retrovia che costituivano una sorta di filtro complesso e caotico tra la fascia delle operazioni belliche e il territorio civile retrostante.

Itinerario delle stratificazioni della Storia: punti di vista bellici e punti di riferimento antichi
Itinerario delle stratificazioni della Storia: punti di vista bellici e punti di riferimento antichi.

Nell’intento di modificare il meno possibile i luoghi, considerando che i manufatti bellici, siano essi edifici o infrastrutture, hanno ormai perso la loro funzione, constatando molto spesso l’impossibilità di immaginare per loro una nuova funzione e riconoscendo la capacità che la loro condizione di rovina ha di evocare tragici eventi, la proposta è stata di lavorare attraverso piccoli dispositivi di avvicinamento ai luoghi che, focalizzando l’attenzione su alcuni frammenti, marcando la distanza o costruendo diaframmi, possano attivare nuovi sguardi.

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Itinerario delle stratificazioni della Storia: le rovine dell’Abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa della Battaglia, bombardata durante la Grande guerra.
Prospettive

L’imminente ricorrenza del Centenario offre l’occasione alle amministrazioni per il “recupero e valorizzazione dei luoghi rilevanti di memoria militare e delle tracce presenti [in un] ambiente in cui la guerra ha fatto irruzione all’improvviso, sconvolgendo ordinamenti sociali e spaziali sedimentatisi in tempi lunghi e soprattutto lenti […] al fine di garantire la trasmissione della conoscenza storica alle nuove generazioni”(Regione del Veneto, 2013, p. 3).

Alcuni amministratori rivalutano oggi il ruolo di alcune infrastrutture dismesse, tentandone faticosamente il recupero a fini turistici, ma anche di nuovo sviluppo per le popolazioni locali. Nello specifico la linea ferroviaria dismessa Montebelluna-Susegana, nonostante la dismissione in atto da parecchi anni, presenta un tracciato ancora riconoscibile in molte sue parti e manufatti – ponti, stazioni, case cantoniere, binari e traversine – ancora in relativamente buono stato di conservazione. A fronte di una certa incertezza riguardo le modalità e le funzioni legate a un loro recupero, è ormai da diversi anni che la convergenza degli interessi dei comuni attraversati da questo tracciato si è fatta sempre più chiara, al punto che l’intero sedime è stato inserito nel P.T.R.C. come collegamento sovracomunale da tutelare e riconvertire ed è in atto l’accordo per verificare la fattibilità dell’acquisto delle aree per la trasformazione in percorso ciclo-pedonale. Ad un buon esempio di collaborazione e dialogo si affiancano tuttavia casi in cui la riconversione di questi tracciati infrastrutturali è via via più difficoltosa per impedimenti burocratici o inutili rivalità.

L’auspicio è che, in un momento in cui la rivalutazione e la promozione del territorio è di fondamentale importanza per il futuro di questi luoghi prevalgano logiche di collaborazione e di dialogo, capaci di attivare sinergie positive.

Bibliografia

Sui campi di battaglia. (1925-1931). Milano: Touring club italiano.

Duménil, A. (2007). I combattenti. In S. Adouin Rouzeau & J.-J. Becker (a cura di), La Prima guerra mondiale (pp. 199-216). Torino: Einaudi (Pubblicato originariamente nel 2004. Paris: Bayard. Edizione italiana a cura di A. Gibelli).

Ermacora, M. (2005). Cantieri di guerra. Bologna: Il Mulino.

Gibelli, A. (1998). La Grande guerra degli italiani. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli.

Kipling, R. (1988). La guerra nelle montagne. (A. Pasolini Rasponi, Trad.). Firenze: Passigli. (Pubblicato originariamente nel 1917).

Regione del Veneto. (2012). Proposta di Masterplan del centenario della Grande guerra. Disponibile presso http://www.regione.veneto.it/web/cultura/
masterplan
[28 aprile 2015].

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1. A riguardo si vedano Gibelli (1998) e Duménil (2007).
2. Il numero di civili reclutati nei lavori di infrastrutturazione bellica viene stimato di poco inferiore al milione di unità. Per uno studio approfondito sul coinvolgimento dei civili nelle costruzioni delle infrastrutture belliche si veda Ermacora (2005).
3. Il Recycle Veneto Lab è l’organo di sede che l’Università Iuav di Venezia ha fondato relativamente alla partecipazione come capogruppo a un PRIN (Progetto di ricerca di interesse nazionale) dal titolo Re-Cycle Italy. La Fondazione Francesco Fabbri di Pieve di Soligo è un’istituzione dedicata allo sviluppo di programmi in ambito culturale, socio-economico e ambientale, con particolare riferimento all’osservazione delle trasformazioni in atto nel territorio veneto. Le ricerche cui si fa riferimento sono in parte quelle condotte all’interno dell’unità di ricerca Architettura, archeologia, paesaggi: teatri di guerra dell’Università Iuav di Venezia, coordinata dalla prof. Fernanda De Maio, in parte quelle raccolte all’interno di due assegni di ricerca svolti presso il medesimo istituto, responsabile scientifico prof. Alberto Ferlenga: Andrea Iorio, Riciclare paesaggi, interpretare memorie. Esperienze di riciclo strategico (2013-14) assegno parte del PRIN Re-Cycle Italy; Claudia Pirina, Turismo sostenibile, comunicazione e valorizzazione del territorio, progettazione e gestione di offerte turistiche tematizzate su temi storici e culturali e del relativo marketing territoriale (2014-15), assegno finanziato dal Fondo Sociale Europeo e che prevedeva il partenariato con PR Consulting di Padova, azienda dedicata alla promozione di attività turistiche.

Gli inerti del Veneto.

Di Giuseppe Caldarola
Il recupero ecologico di materiali da costruzione individua un approccio alla pratica edilizia fondato su un principio di rigenerabilità delle stesse componenti, che si estende in una prospettiva multiscalare dalla dimensione del singolo manufatto a quella del sistema territoriale. Tuttavia, nel prefigurare frontiere operative ad alto indice di innovazione, i processi finalizzati al riciclo di inerti devono necessariamente passare al vaglio di un rigoroso sistema normativo, fatto di direttive, autorizzazioni, permessi e certificazioni, anche contrastanti, che ne regolamenta e vincola i presupposti di effettiva praticabilità o ne condiziona la “convenienza” del recupero in sostituzione dello “smaltimento”, oltre che l’opzione per i materiali riciclati in sostituzione di quelli naturali “vergini”. Uno degli esempi più lampanti di tale condizione riguarda lo scenario del Veneto, dove, all’esistenza di uno solido apparato produttivo e tecnologico fa riscontro un sistema normativo in parte arretrato, o almeno non organico e sistematico, che limita sensibilmente le opportunità di sperimentazione e ricerca da parte delle aziende specializzate nel settore.

Il riciclo di materiali attiene all’individuazione di modalità tecnico-operative e costruttive di reimpiego, tra gli altri, di scarti di attività edilizie (costruzioni e demolizioni),1 L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione. come anche di processi produttivi. La sistematica analisi di processi di riciclo di tali materiali diviene l’occasione per la creazione di reti di strutture produttive e finanziarie legate alla demolizione e allo smaltimento e al re-impiego degli scarti delle attività edilizie come dei processi di lavorazione (opportunamente trattati a costituire materie “prime” re-immissibili in cicli di produzione) ma anche all’investimento immobiliare su restauro e recupero che possono trarre vicendevolmente vantaggio economico e produttivo da un processo di riconfigurazione sostenibile del territorio.

Il continuo fabbisogno di materie prime – e per le quantità in gioco, centrali risultano la localizzazione sul territorio e il ruolo degli impianti di recupero – diviene una occasione per individuare modalità d’uso low-cost e low-tech alternative per tanti materiali di scarto generalmente destinati a smaltimento mediante conferimento in discarica o, nei casi migliori, al re-impiego per la realizzazione di sole opere ‘sottosuolo’ (sottofondi, strati di fondazione, riempimenti, colmate, ecc…). Numerosi sono gli studi e le sperimentazioni che muovono verso l’apertura di nuovi e molteplici campi applicativi per tali materiali. A fronte di numerose esperienze virtuose, specie in ambito europeo ed extra-europeo, questo settore -in verità centrale nel dibattito teorico e supportato dall’avanzamento delle sperimentazioni in atto- si muove in bilico tra innovazione tecnologica (possibile e auspicabile) e ritardi normativi. I contenuti di questo scritto racconlgono esiti interpretativi parziali delle attività condotte dall’autore durante l’annualità di assegno di ricerca FSE “Turismo, Territorio, Riciclo: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza lenta nell’area veneta”, sub-titulo “Riciclo e Restauro territoriale”.2 La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.

Quali materiali: gli inerti riciclati

panoramica
Impianto di recupero, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Nell’ampia gamma dei materiali riciclati, particolarmente interessanti risultano gli inerti trattati dagli impianti di recupero il cui impiego è, sempre più spesso, sostitutivo (anche solo parzialmente) di materiali “naturali” o “vergini” nella realizzazione di manufatti infrastrutturali o in opere di ingegneria civile. Per queste realizzazioni si registra l’impiego di aggregati riciclati, specialmente ottenuti dalla lavorazione di rifiuti da costruzione e demolizione tra cui quelli derivanti dall’attività edilizia e dalla costruzione e manutenzione di strade, in affiancamento all’uso/ri-uso dei terreni e delle rocce da scavo. Tali rifiuti da C&D sono in gran parte composti da cemento, mattoni, mattonelle e altri materiali ceramici, terre e rocce, miscele bituminose, metalli, vetri, legni e plastiche, tutti (secondo la normativa vigente) catalogati come rifiuti speciali appartenenti al capitolo 17 del Codice CER. Per origine, essi derivano da attività di costruzione, manutenzione, ristrutturazione, demolizione, ecc. di edifici pubblici e privati; da opere civili e infrastrutturali; da attività industriali dei settori tra cui l’industria di prefabbricati, la ceramica, le pietre ornamentali, la fabbricazione e prefabbricazione di elementi e componenti delle costruzioni civili (mattoni, piastrelle, elementi strutturali in c.a., ecc.). La loro composizione può essere invece estremamente variabile in dipendenza dalla tecnologia di costruzione, dai tipi di materie prime, dalle condizioni territoriali (per quanto attiene a caratteristiche climatiche oltre che di sviluppo economico e tecnologico). Per tali materiali residuali, vale la pena ricordare che un impianto di recupero costituisce una alternativa al conferimento in discarica per rifiuti speciali non pericolosi e che all’interno del medesimo impianto vengono effettuate tutte quelle lavorazioni (selezione, separazione di materiali e sostanze indesiderate, vagliatura, deferrizzazione, ecc…) necessarie alla trasformazione del “rifiuto” stesso, sia questo composto da macerie o da scarti di processi produttivi, altrimenti destinato al conferimento in discarica e che comunque ha già esaurito il suo ciclo di vita, in materia prima. In un impianto di recupero si producono materiali che si possono ricomprendere nelle macrocategorie dei misti cementati (calcestruzzi e laterizi) generalmente composti da rifiuti da C&D, frazioni di raccolta differenziata non direttamente re-immissibili in cicli di produzione, scarti di processi di lavorazione (i.e., le sabbie refrattarie). Tra queste ultime, anche lo scarto di quelle impiegate per la realizzazione delle tegole canadesi), scorie (ceneri, scorie di acciaieria o loppa di fonderia) o sabbie di vetro (provenienti dalla frantumazione del vetro, la frazione non ricondotta in vetreria, proveniente da raccolta differenziata). Tutti questi materiali opportunamente trattati e vagliati concorrono alla formazione di macinati e stabilizzati per l’uso in sottofondi per opere infrastrutturali.

Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Tali scarti di attività edilizie e di processi di lavorazione, attraverso le lavorazioni condotte all’interno di impianti di recupero, concorrono alla formazione di nuovi materiali, utilizzati singolarmente o aggregati in mescola (con o senza agenti leganti bituminosi o cementizi) classificabili come: macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati vagliati. Costituiscono aggregati riciclati tecnici con più o meno elevate caratteristiche meccaniche di resistenza e portanza, prodotti da processi di frantumazione, selezione e vagliatura.

Ipotizzare per questi materiali usi alternativi in settori “altri” (pur tutti collegati alle attività edilizie) significa provare a valutarne l’applicabilità in ambiti innovativi tutti in grado di restituire esiti costruiti sul territorio e di delineare sostanziali variazioni nell’immagine complessiva dei luoghi. In generale i materiali riciclati possono divenire “occasione” per innescare processi produttivi e post-produttivi virtuosi se adottati in sostituzione di quelli di “prima” produzione e il loro uso risulta sostenibile sia da un punto di vista economico che ambientale. In questo senso è inevitabile il riferimento all’infrastrutturazione del territorio.

Con specifico riferimento all’area veneta, si possono già registrare una serie di progetti (alcuni realizzati, altri in corso di realizzazione o non ancora cantierizzati) di infrastrutturazione sia “pesante” che “leggera” del territorio che compongono una casistica più o meno “virtuosa” dell’uso degli inerti riciclati in sostituzione degli aggregati naturali. Vi si possono annoverare le realizzazioni della terza corsia sull’autostrada A4, da Venezia in direzione Trieste, della Valdastico e della Pedemontana Veneta piuttosto che numerosi percorsi e itinerari ciclabili e pedonali attrezzati sull’intero territorio regionale (i.e., la trasformazione della ferrovia dismessa Treviso-Ostiglia in itinerario ciclabile). Questi compongono una quadro variegato di esiti costruiti sul territorio, alcuni peraltro recentemente divenuti oggetto di cronaca per questioni di “qualità” del progetto, usi impropri o difformità dei materiali utilizzati, rispetto ai parametri fissati in fase di affidamento degli incarichi di progettazione o cantierizzazione, o per problematiche di natura ambientale occorse in fase di realizzazione o durante il ciclo di vita dei manufatti costruiti.

I cicli produttivi

Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

I cicli di produzione edilizia si sono tradizionalmente strutturati secondo modelli “lineari” che vanno dal reperimento delle risorse naturali (i.e., le attività estrattive) alla formazione dei rifiuti passando attraverso la produzione delle materie prime e delle componenti, la costruzione, l’intero ciclo di vita di materiali e di manufatti fino alla demolizione e allo smaltimento. Per contro l’uso dei materiali riciclati può dirsi innescare modelli di uso e gestione “ciclici” con un migliore impiego di risorse e con l’allungamento del loro ciclo di vita. In questa condizione tali materiali possono destinarsi al riuso di edifici interi, alla costruzione di nuovi edifici, alla produzione di nuovi componenti, alla produzione di nuovi materiali. Possono legarsi a scenari terminali quali il riuso di edifici o loro ricollocazione, di componenti (o ricollocazione in nuovi edifici), di materiali nella produzione di nuove componenti, il riciclo dei materiali da utilizzarsi al posto di risorse primarie. Gli inerti riciclati non sono più “rifiuti” ma a materie prime “seconde”, cioè non “vergini” ma derivanti da materiali per i quali, mediante post-produzione, si rende possibile un secondo ciclo di vita. Il passaggio terminologico dalle parole “rifiuto”, “scarto”, “scoria” a quello di “materie prime seconde” rende conto di un necessario cambio di paradigma di primaria importanza.

Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza
Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza

Il loro uso suggerisce altrettanto necessari cambiamenti nei criteri di progettazione dei manufatti basati sulla circolarità della produzione edilizia, fondata sul recupero e riciclo di risorse e prodotti: a fine vita, non più “rifiuti”, ma materie prime “seconde” da riusare o riciclare. Il rifiuto diviene risorsa: si supera il concetto di “scarto” e, laddove ogni prodotto è composto da parti tecniche e biologiche, le prime possono re-immettersi nei cicli produttivi per nuovi assemblaggi e riusi con minimi consumi possibili di energia. Tutto ciò si basa su lavorazioni e cicli di post-produzione in impianto di recupero in verità abbastanza “elementari” (selezione, deferrizzazione, vagliatura, ecc.) e a basso contenuto tecnologico ma la loro efficacia, nei termini della produzione di materiali riciclati qualitativamente assimilabili a quelli naturali, passa necessariamente attraverso un più generale ripensamento dell’intero sistema della produzione edilizia.

Quali opportunità: gli usi possibili

Gli inerti riciclati trovano applicazione in forma legata o non legata: gli aggregati sono utilizzati “sciolti” o in mescola con agenti leganti, a formare misti cementati o bituminosi. È opportuno ricordare che, dal punto di vista del mercato, i fattori favorevoli all’uso degli aggregati riciclati in sostituzione di quelli naturali consistono prevalentemente nel prezzo minore, nella elevata domanda di materiali con basse prestazioni e nel contenimento dei costi di trasporto. I settori prevalenti di utilizzo riguardano la realizzazione delle opere in terra dell’ingegneria civile, dei corpi di rilevati delle medesime opere, di recuperi ambientali, riempimenti e colmate, di lavori stradali e ferroviari, di sottofondi stradali, ferroviari, aeroportuali e di piazzali civili e industriali, di strati di fondazione delle infrastrutture di trasporto, di strati accessori con funzione anticapillare antigelo e drenante. I conglomerati bituminosi, recuperati con fresatura, sono prodotti di elevate caratteristiche tecniche riutilizzabili nell’ambito delle stesse costruzioni stradali da cui provengono (strati di usura e collegamento composti da aggregati lapidei naturali e da bitume). I frantumati misti di demolizione trovano applicazione nella realizzazione dei corpi dei piazzali o delle strade in alternativa alle sabbie naturali, alle ghiaie e agli stabilizzati. I frantumati grossi di mattoni e cementi divengono materiali applicabili in sottofondi stradali quali strati inferiori rispetto alla stesa di misti stabilizzati, nonché in strati di fondazione di parcheggi e strade al di sotto di misti stabilizzati.

Tali materie prime seconde, opportunamente trattate in modo da poter essere assimilate ai materiali lapidei, trovano ulteriori utilizzi in manufatti per i quali si ricorre normalmente a inerti naturali. Tra gli usi possibili va citata la composizione di elementi alveolari, ripetibili all’infinito, utilizzati nella formazione di sistemi di pavimentazione da esterni. Possono inoltre divenire componenti per la rimodellazione ambientale, a formare elementi di svariate forme, anche molto irregolari. Tra gli usi più largamente attestati si ritrovano applicazioni per la formazione di elementi standardizzati per pavimentazioni di superfici scoperte (i.e., nei parcheggi) con caratteristiche utili a garantire percentuali graduali di permeabilità dei suoli e sagome idonee alla formazione di vuoti normalmente destinati all’inerbimento. Ulteriori impieghi di inerti riciclati in sostituzione di quelli naturali riguardano la formazione di terre armate, pareti di sostegno rinverdibili per scarpate, rilevati e terrapieni; rivestimenti e terrazzamenti, divisori di proprietà, barriere verdi fonoassorbenti (anche in calcestruzzo riciclato e terra), barriere verdi di protezione visiva, elementi di arredo urbano tra cui dissuasori stradali, elementi di seduta, pavimentazioni di percorsi pedonali. Ma i materiali riciclati (non solo gli inerti classici) vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di calcestruzzi (con funzione non strutturale): si fa riferimento ai calcestruzzi additivati con vari materiali anch’essi di riciclo (applicazioni in pavimentazioni industriali), con polimeri riciclati (in sottofondi di supporto per impianti di riscaldamento a pavimento, per barriere antirumore), con canapa e materiali naturali di origine vegetale (per isolamento murature, formazione di intonaci isolanti per murature interne e esterne e coperture), con ceneri volatili (produzione di cementi di miscela e sottofondi stradali).

Quali ostacoli: tra normative e filiere produttive interrotte

La molteplicità di usi individuati per gli inerti riciclati rende conto di una serie di “occasioni” di progetto che possono trarre vantaggio dal ricorso a tali materiali in sostituzione di quelli naturali o di prima produzione. Sussistono tuttavia anche elementi ostativi e limitazioni d’uso che attengono a molteplici ordini di fattori. Si tratta di vincoli indotti dai processi di produzione piuttosto che dalle specifiche normative di settore. A questi si affiancano questioni più strettamente legate alla “percezione” di tali materie prime seconde, ancora legate alla condizione di “rifiuto”, di “scarto”. La sommatoria di questi tre fattori rende il settore degli inerti riciclati non ancora in grado di esplicitare a pieno le proprie potenzialità.

Il primo ordine di fattori è legato alle problematiche relative alla selezione di materiali idonei a essere immessi all’interno di processi di recupero ecologico, che vincola e gradua su scala territoriale (con differenze cospicue a seconda dei contesti geografici) l’effettiva opportunità di propendere per riciclare tali materiali presso aziende specializzate invece che per il conferimento in discarica. A questo si deve sommare la disponibilità di materie prime e la facilità di reperimento in prossimità degli ambiti territoriali in cui si localizzano gli interventi. Da questa condizione sembra infatti derivare la maggiore o minore propensione all’uso dei riciclati sia dal punto di vista dell’investimento su innovazione tecnologica e sperimentazione che dell’adeguamento dei processi produttivi e delle progettazioni per il conseguimento di obiettivi di qualità di prodotto e per la costruzione di filiere produttive con il coinvolgimento di più attori di processo. E le problematiche legate alla filiera produttiva attengono anche alle specifiche condizioni e tipologie degli impianti di recupero e delle lavorazioni dagli stessi effettuate.

Il secondo ordine di fattori è legato ai quadri normativi vigenti, alla sommatoria degli stessi (direttive, normative e regolamenti europei, nazionali, regionali e locali) e ai conflitti di competenze tra Enti e soggetti legiferanti o preposti al controllo e tra questi e i tessuti produttivi locali. Ne derivano alterne applicazioni, più o meno “virtuose” dal punto di vista del contenimento del consumo di risorse e delle condizioni di facilitazione o inibizione di lavorazioni, produzioni e immissioni sul mercato di materiali innovativi o di facilitazioni di processo.

Il terzo ordine di fattori – in parte più aleatorio rispetto ai precedenti – appare parimenti importante e attiene ad un cambiamento nella “percezione” della qualità dei materiali riciclati, da scindersi rispetto all’origine degli stessi a partire da un “rifiuto”, dallo “scarto”: ciò, al fine di generare nuove disponibilità all’uso di tali materiali da parte dei possibili nuovi utilizzatori. Favorisce questo necessario cambiamento di percezione la sostituzione dei termini di “rifiuto” e di “scarto”con quello di materie prime “seconde” e una diversa comunicazione sui temi del recupero ecologico, al fine di sensibilizzare gli attori di processo all’aggiornamento dei quadri conoscitivi sulle proprietà e caratteristiche dei materiali riciclati, anche attraverso un più sistematico confronto di caratteristiche, convenienze, opportunità e possibilità applicative.

Si muovono sicuramente nella direzione della rimozione di alcuni degli elementi limitativi dell’uso degli inerti riciclati alcune modifiche recenti sui dispositivi di legge e sui principali documenti normativi, anche se gli indirizzi innovativi hanno carattere prevalentemente ambientale e sono spesso riconducibili a strategie e politiche legate ad un’ottica di futura “Discarica zero” senza incidere sulle nature dei materiali e sul loro confezionamento e trattamento.

Un esempio di aggiornamento dei quadri normativi di riferimento è rintracciabile ad esempio nell’autorizzazione all’uso (in quota parte) dei materiali riciclati per il confezionamento dei calcestruzzi. Tra le previsioni del Green Public Procurement (GPP o Acquisti Verdi), vi sono alcune definizioni di Criteri Ambientali Minimi per le categorie delle costruzioni e ristrutturazioni di edifici con particolare attenzione ai materiali edili, alla costruzione e manutenzione delle strade e all’arredo urbano. Nella Direttiva 98/2008/CE, che fissa gli obiettivi di riciclo e riporta la politica europea in tema di rifiuti, si rimarca la priorità delle operazioni di riciclaggio rispetto a quelle di smaltimento in discarica e vi si dettano le condizioni per elaborare criteri affinché i rifiuti, se sottoposti ad operazioni di recupero (incluso il riciclaggio), cessino di essere tali in un’ottica di perseguimento dell’obiettivo end of waste.3 La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione. Con riferimento alla Certificazione LEED degli edifici, si fissano una serie di pre-requisiti obbligatori per i quali l’edificio o il manufatto edilizio in costruzione o ristrutturazione possa ottenere, appunto, la certificazione: tali criteri attengono alle macro-categorie di sostenibilità del sito, gestione delle acque, energia e all’atmosfera, materiali e uso delle risorse, qualità ambientale, innovazioni introdotte nella progettazione. Con riferimento al tema dei rifiuti da C&D, sussistono una serie di requisiti e relativi obblighi corrispondenti tra cui la dotazione di stazioni di riciclo o riuso dedicate alla separazione, alla raccolta e allo stoccaggio di materiali da riciclare o la localizzazione di progetti all’interno di amministrazioni locali che effettuino la raccolta differenziata; la presenza di punti di raccolta per conferimento di rifiuti potenzialmente pericolosi; di stazioni o siti di compostaggio; localizzazione in isolati ad uso misto o non residenziale di contenitori per la raccolta differenziata. Per le attività di costruzione e demolizione, infine, l’obbligo di riciclare e/o recuperare almeno il 50% dei rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi e di elaborare un piano di gestione dei rifiuti che identifichi i materiali destinati a discarica e/o a impianto di recupero. Tutto ciò, come evidente, fa riferimento alla tendenza al potenziamento d’uso dei materiali riciclati – nello specifico, appunto, gli inerti – e passa soprattutto attraverso l’accurata progettazione delle attività di demolizione, nel senso di giungere a una “vera” demolizione selettiva.

A livello di regolamenti e di quadri di riferimento normativi prodotti dagli Enti locali, la Provincia Autonoma di Trento ha elaborato un apposito Piano Provinciale per lo Smaltimento dei Rifiuti con specifico stralcio per la gestione dei rifiuti speciali inerti non pericolosi provenienti da costruzione e demolizione; le Norme Tecniche Ambientali per la produzione dei materiali riciclati e posa nella costruzione e manutenzione di opere edili, stradali e recuperi ambientali (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011, n.1333 – All. B) e le Linee Guida per la corretta gestione di un impianto di recupero e trattamento rifiuti e per la produzione di materiali riciclati da impiegare nelle costruzione (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011 – All. A). La necessità della dotazione di tali strumenti nasceva proprio dalle specifiche condizioni dei settori produttivi trainanti dell’economia trentina, specie caratterizzata dall’attività estrattiva. Inoltre la Regione Emilia Romagna ha più recentemente predisposto il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti che, tra i numerosi obiettivi e priorità, ha posto la promozione di strumenti operativi finalizzati a favorire una gestione dei rifiuti ambientalmente corretta e sostenibile, anche finalizzata a dare nuovo impulso allo sviluppo economico di vari settori imprenditoriali.

Ben diverso appare lo stato di avanzamento dei quadri di riferimento normativi e delle ricadute sui processi produttivi se si guarda all’area veneta. Questo contesto regionale appare significativo per sue condizioni intrinseche: non solo per la localizzazione e il numero di impianti di recupero sul territorio ma anche (dato, questo, che sembrerebbe in controtendenza) la ridotta operatività degli stessi a fronte della quantità di domanda di movimentazione di materiali generata e supportata dalle specifiche condizioni del tessuto produttivo e delle attività edilizie. In questo contesto territoriale, a fronte di un elevato indice di innovazione di processo e di prodotto, molte lavorazioni e sperimentazioni non risultano possibili o ancora economicamente vantaggiose a causa di ritardi e lacune dei sistemi e degli strumenti normativi oltre che delle specifiche condizioni del settore di produzione dei materiali riciclati. Tra le altre cose, vale la pena ricordare l’assenza di un piano generale sistematico di gestione dei rifiuti o di regolamentazione delle attività estrattive, condizione per cui se da un lato è cresciuta negli ultimi anni la localizzazione di impianti di recupero sul territorio, dall’altro (e parallelamente) si assiste ancora al rilascio di licenze per lo sfruttamento delle attività estrattive che generano ulteriori consumi di risorse naturali e di territorio. E questa condizione appare rafforzata dall’attuale crisi del settore edilizio che ha generato anche una riduzione delle “convenienze” in termini di costi di produzione, di vendita e di trasporto di materiali riciclati rispetto a quelli naturali, di cava. Da ciò, la non primaria necessità e importanza dell’aggiornamento dei capitolati d’appalto e una sostanziale riduzione della disponibilità degli attori di processo alla valutazione di scenari alternativi di produzione edilizia.

Inerti riciclati e progetto di architettura, di territorio, di paesaggio

Il bilanciamento tra opportunità d’uso dei materiali riciclati ed elementi ostativi del loro impiego – li si è detti di carattere normativo, di processo di produzione, di filiera e di applicazioni possibili – restituisce parimenti “saldo positivo” e sostiene ugualmente la tendenza all’innovazione. Tra le varie possibilità, risulta particolarmente in grado di aprire nuovi scenari l’impiego degli inerti riciclati in opere “sopra-suolo” e, più specificatamente, nel progetto di architettura, di territorio e di paesaggio. Il lavorare con gli inerti riciclati offre infatti ampie potenzialità multiscalari che vanno dalla scala del singolo manufatto edilizio e delle sue componenti alla ristrutturazione territoriale e sua nuova infrastrutturazione secondo logiche differenti rispetto a quelle ormai consolidate nelle pratiche progettuali. Rispetto alle attuali condizioni di contesto – e con riferimento non solo al livello nazionale italiano, ma soprattutto ai contesti regionali e, specie, in aree quali quella veneta – il settore degli inerti riciclati per meglio esprimere le potenzialità dei materiali stessi necessita della garanzia di adeguatezza della lavorazione dei materiali negli impianti di trattamento (in termini di efficacia ed efficienza) e di disponibilità dei prodotti recuperati nel territorio; della rispondenza delle caratteristiche dei prodotti recuperati ai requisiti di idoneità previsti dalle specifiche normative di settore; dell’individuazione di condizioni di applicabilità degli inerti, opportunamente verificati e certificati, alle varie occasioni progettuali; del perseguimento dell’obiettivo del raggiungimento di livelli prestazionali in opera simili o confrontabili tra aggregati riciclati e di origine naturale anche attraverso una attenta valutazione dei benefici ambientali ed economici.

Tali condizioni possono generarsi anche e soprattutto attraverso un’alterazione dell’attuale network di relazioni –ancora in contesto veneto molto limitate – che coinvolge il sistema delle aziende che si occupano di recupero ecologico, ipotizzando prospettive di apertura verso ulteriori categorie di interlocutori.

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1. L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione.
2. La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.
3. La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione.

Vecchi edifici per nuove architetture.

Di Damiana Lucia Paternò
Per lungo tempo, l’immagine di Andrea Palladio è stata quella veicolata attraverso I Quattro Libri dell’Architettura: sfogliando le pagine del trattato, i disegni per i palazzi, le ville, le opere pubbliche e religiose emergono dallo spazio bianco del foglio senza dare indicazioni sulle soluzioni materiche e tecnologiche adottate, sulle esigenze dettate dal cantiere, sulla presenza o meno nel sito di costruzione di manufatti più antichi. In realtà, in molte delle opere sicuramente attribuibili all’opera dell’architetto cinquecentesco si rileva l’esistenza di strutture precedenti, più o meno antiche e di consistenza variabile, cui la nuova costruzione si affianca o si sovrappone direttamente. La scelta di non demolire ma di riutilizzare ciò che è esistente determina, nelle architetture palladiane, una condizione di partenza che spesso influenza non solo le modalità costruttive adottate, ma anche quelle formali e compositive.

Le mot et la chose sont modernes”, la parola e la cosa sono moderne: è questo l’incipit con cui Eugène Viollet-le-Duc apre la voce “Restauration” nel Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVe siècle (1865). E’ una frase tanto breve quanto illuminante, con la quale l’architetto francese evidenzia come il termine restauro – sebbene di origine antica – abbia assunto nell’Ottocento un diverso significato rispetto ai secoli precedenti in relazione a una nuova concezione della storia e ad una diversa sensibilità verso le attestazioni del passato. Una tale definizione potrebbe essere mutuata anche per la parola “riciclo”: le diverse accezioni del suo significato, infatti, non possono essere comprese senza fare riferimento al panorama culturale del XX secolo e, più in dettaglio, alla crisi della società dei consumi e del relativo modello di crescita, basato sul continuo processo di dismissione/distruzione dei propri prodotti quale principale premessa per la realizzazione del nuovo (Emery, 2011). Il riciclo si configura come una delle alternative possibili per reimmettere in un circuito di produzione e significato quei materiali, oggetti, architetture, o addirittura parti di città che seguendo un ciclo di vita lineare quanto mai contratto, possono essere diventati obsoleti o trasformati in scarti. Alla luce di tali considerazioni, appare scontato osservare che una condizione come quella appena descritta è molto lontana dal periodo in cui opera Andrea Palladio, contraddistinto da un altro modo di intendere le parole “tempo”, “consumo”, “durata” e “produzione”. Sarebbe quindi improprio parlare di riciclo nell’architettura del Cinquecento, ma, semmai, di riuso: inglobare, trasformare, ricollocare pezzi o intere parti di fabbriche preesistenti nelle nuove costruzioni è infatti una consuetudine della prassi edificatoria sin dal mondo antico, rispetto alla quale le architetture palladiane non fanno eccezione.

Per lungo tempo, l’immagine di Palladio è stata quella veicolata attraverso I Quattro Libri dell’Architettura (1570): sfogliando le pagine del trattato, i disegni per i palazzi, le ville, le opere pubbliche e religiose emergono dallo spazio bianco del foglio senza dare indicazioni sulle soluzioni materiche e tecnologiche adottate, sulle esigenze dettate dal cantiere, sulla presenza o meno nel sito di costruzione di manufatti più antichi. La principale ragione di questa scelta dipende dalla visione teorica che sottende alla stesura dell’opera scritta: per presentare i modelli di quella “usanza nuova” di cui è ambasciatore, Palladio elabora delle versioni perfezionate dei propri lavori, frutto molte volte di vere e proprie riprogettazioni eseguite nell’ultima fase della vita alla luce di una diversa maturità (Burns, 2009). La realtà costruita è quindi spesso molto distante da quelle xilografie: già nel Settecento il palladianista Ottavio Bertotti Scamozzi (1776-1783) sottolineava le numerose discrepanze tra ciò che era raffigurato ne I Quattro Libri e quanto effettivamente realizzato, ma solo a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, sulla scia degli apporti della cultura materiale, l’effettiva consistenza fisica degli edifici palladiani è divenuta oggetto di studi approfonditi, aprendo a nuove prospettive con cui indagare l’attività di questo architetto. Un dato d’immediata evidenza, desumibile sia dalla bibliografia edita che dall’osservazione diretta di alcune fabbriche realizzate, è che almeno in ventidue delle opere sicuramente autografe e il cui cantiere inizia prima del 1580 – anno della morte di Palladio – si rilevano strutture precedenti più o meno antiche e di consistenza variabile, a cui la nuova costruzione si affianca o si imposta direttamente. 1Si rimanda a questo proposito alla ricerca “Andrea Palladio: materiali tecniche e finiture”, svolta nel 2014 presso l’Università IUAV di Venezia in partnership con il Ministero dei Beni Culturali e il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, i cui esiti sono stati esposti al XIV seminario internazionale sul restauro architettonico “Andrea Palladio: cantieri di carta, calce e mattoni” a cura di D. Paternò, M. Piana, U. Soragni (Albettone 27 novembre 2014).

La scelta di non demolire ma di riutilizzare ciò che è già esistente è principalmente dettata dalla necessità di “lasciar da parte […] le superflue spese” (Palladio, 1570, I, p. 5) e rappresenta una condizione di partenza che spesso influenza non solo le modalità costruttive adottate, ma anche quelle formali e compositive.

Nella villa Gazzotti, ad esempio, vengono completamente inglobate le strutture murarie appartenenti a una torre di difesa di epoca medievale, il cui ingombro – come si evince anche solo osservando lo spessore più consistente delle murature nella pianta del piano nobile – corrisponde all’ambiente a destra della loggia (Winter & Fuchs, 2011). L’assenza d’intonaco di finitura permette di avanzare puntuali osservazioni stratigrafiche e di leggere chiaramente sia all’interno che sul prospetto orientale lo sviluppo di tale manufatto e le trasformazioni occorse prima del XVI secolo: la parte cinquecentesca si imposta direttamente sulla preesistenza e sfruttando anche i resti di una casa quattrocentesca, la villa Pagello, si estende verso ovest e verso nord. Il prospetto principale a meridione, invece, si configura come una nuova quinta muraria di spessore pari a quattro teste in corrispondenza delle paraste addossata alla torre, la cui presenza, però, obbliga Palladio ad adottare su questa porzione soluzioni che in apparenza contraddicono le regole di simmetria del Trattato. Le due piccole aperture sul basamento dell’ala est, infatti, non sono centrate rispetto alle finestre del superiore piano nobile, pur essendo realizzate contemporaneamente al resto della muratura. E’ un’eccezione dettata dal totale mantenimento della volta a botte al piano seminterrato della preesistenza, la quale essendo contraddistinta sul lato sud da lunette e unghie a definizione dei suddetti varchi murari, obbligava a rispettarne la posizione.

Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto meridionale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro, prof. M Piana, 2011
Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto meridionale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro, prof. M Piana, 2011
Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto orientale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro prof. Piana, 2011
Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto orientale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro, prof. M Piana, 2011

Cingere con nuove murature strutture già esistenti, reimpostando così le facciate è una ‘strategia’ ricorrente che appare anche in altre opere; solo per citarne alcune, si pensi a villa Trissino a Meledo, dove ai resti di edifici adibiti ad attività molitoria viene aggiunto esternamente un possente paramento in bugnato rustico lapideo (Battilotti, D’Incau, Franceschi, Lazzari & Piana, 2012), o a villa Thiene a Quinto Vicentino, le cui paraste sui prospetti esterni rivestono in alcune parti murature precedenti, quest’ultime ancora parzialmente riconoscibili per le caratteristiche dei laterizi e per le tracce di finitura a regalzier (Gabbiani, 2000; Ghisetti Giavarina, 2003; Gabbiani, 2011).

Proprio villa Thiene è forse uno dei casi più significativi per comprendere lo scarto tra la versione pubblicata nel 1570 (Palladio, II, p. 64) e l’effettiva realizzazione; quest’ultima si configura come una vera e propria operazione di trasformazione e ampliamento di una casa dominicale del XV secolo, ragione a cui probabilmente ascrivere la peculiare distribuzione degli ambienti rispetto ad altri edifici palladiani della medesima tipologia. Dalla testimonianza di Francesco Muttoni (1740) e dalle indagini compiute in occasione dei restauri degli anni ‘90 del XX secolo (Gabbiani 2003; Gabbiani 2011), sappiamo che la fabbrica cinquecentesca era contraddistinta da un corpo centrale con un’ampia loggia, fiancheggiato da ali aventi distribuzione planimetrica speculare; in quella meridionale la casa quattrocentesca era stata integralmente mantenuta nelle sue forme e dimensioni, mentre nella porzione a settentrione – l’unica sopravvissuta alle profonde trasformazioni e demolizioni avvenute tra fine Settecento e inizi Ottocento – era stata in parte inglobata in una nuova costruzione dall’aspetto classico.

Quinto Vicentino, villa Thiene. Vista del prospetto occidentale, foto di Damiana Paternò , 2014
Quinto Vicentino, villa Thiene. Vista del prospetto occidentale, foto di Damiana Paternò, 2014
Quinto Vicentino, villa Thiene
Quinto Vicentino, villa Thiene. Prospetto occidentale, dettaglio della finitura a regalzier appartenente al corpo quattrocentesco, foto di Damiana Paternò, 2014

L’esigenza di mantenere e adattare fabbriche più antiche è una condizione ancora più stringente quando Palladio interviene in tessuti densamente edificati come quello della città di Vicenza; è una permessa che caratterizza sin dalle prime fasi l’iter progettuale di due tra le sue opere più famose, palazzo Barbaran da Porto e la Basilica: in entrambe egli sviluppa soluzioni asimmetriche sia in pianta che in alzato, in cui vengono adottate specifiche scelte compositive atte ad assorbire l’irregolarità dimensionale data dalle preesistenze.

Nel caso delle logge che cingono il palazzo della Ragione, la necessità di rispettare gli allineamenti dei percorsi che al piano terra attraversavano trasversalmente il corpo medievale comporta l’elaborazione di una vera e propria ‘macchina elastica’, basata sull’iterazione del sistema a serliana (Beltramini, 2008). Tenendo costante la luce degli archi e variando quella dei due architravi laterali, Palladio realizza così delle facciate che si percepiscono come regolari, ma in cui la dimensione delle campate varia sempre in relazione alle aperture e ai passaggi del più antico palazzo pubblico.

Strategie analoghe vengono attuate quasi venti anni dopo dall’inizio del cantiere per la Basilica nel palazzo Barbaran da Porto, l’unico edificio che Palladio riuscirà a terminare in vita nella città berica. L’area su cui insiste l’edificio può essere interpretata come un vero e proprio palinsesto che racconta un brano della storia di Vicenza. Le indagini archeologiche condotte durante l’ultima campagna di restauri (Rigoni, 2000) hanno infatti riscontrato i resti del primo decumano minore del settore destrato del municipium di Vicentia e di murature fondazionali appartenenti a fabbriche di periodo romano e medievale, su cui poi era successivamente sorto un complesso edilizio nel corso del Quattrocento. Articolato in più corpi intorno a un cortile centrale (Beltramini, 2000b), tale complesso era stato negli anni venti del Cinquecento diviso tra i due rami della famiglia Barbarano: una casa alta e poco profonda che occupava il lato settentrionale del lotto e alcuni ambienti sul fronte sud verso contra’ Porti erano stati ereditati da Montano Barbarano, il committente del palazzo palladiano. Un edificio con un doppio loggiato caratterizzava invece il lato sud ed era di proprietà dei cugini; un alto muro di cinta con ballatoio, dove era ubicato anche il portone, delimitava l’area a nord. I limiti dettati dall’impossibilità di demolire le fabbriche esistenti e l’acquisto a cantiere avviato della porzione dei cugini da parte di Montano spingono anche in questo caso Andrea a elaborare una soluzione finale in cui si distanzia nettamente dai suoi schemi abituali e dove rinuncia a qualsiasi soluzione simmetrica. Egli non interviene sul fronte ovest e si limita solamente a regolarizzare le aperture dell’edificio a nord, sul cui prospetto esterno affacciato su contra’ Riale è ancora chiaramente riconoscibile il basamento a scarpa con toro lapideo superiore. Invertendo l’accesso principale di 180° gradi e spostandolo su contra’ Porti, realizza sul lato orientale un atrio il cui sviluppo planimetrico – sebbene percepito come perfettamente rettangolare- presenta invece un andamento trapezoidale, essendo pesantemente vincolato dall’andamento sghembo delle strutture murarie preesistenti. L’espediente che adotta è assimilabile a quello delle serliane della Basilica, in quanto la distanza tra le colonne centrali su cui imposta le volte è sempre la medesima, ma cambia progressivamente la dimensione delle architravi laterali. Allo stesso tempo evita che gli angoli acuti ed ottusi dell’ambiente vengano percepiti come tali, introducendo nei punti di congiunzione tra le pareti dei quarti di colonne. Scelta simile si ripete anche nella facciata principale, dove la differente luce delle campate, dettata sempre dal problema dagli allineamenti con le preesistenze, è mascherata mantenendo costante la dimensione delle finestre rettangolari e variando quella delle spalle (Beltramini, 2000a; Beltramini & Gros, 2008).

Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista del fianco settentrionale, foto Damiana Paternò 2015
Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista del fianco settentrionale, foto Damiana Paternò 2015
Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista dell’atrio di ingresso, foto Damiana Paternò, 2015
Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista dell’atrio di ingresso, foto Damiana Paternò, 2015

Ultimo caso da citare in questo breve excursus è il teatro Olimpico, progetto il cui cantiere inizia pochi mesi prima dalla morte dell’architetto cinquecentesco. In questo caso lo schema del teatro romano mutuato da Vitruvio viene opportunamente reinterpretato per rispettare i confini dell’area a disposizione e sfruttare al meglio le murature medievali appartenenti alle vecchie prigioni; la cavea diventa così ellittica e viene inserita all’interno della lunga stanza trapezoidale preesistente, il cui muro verso sud è parzialmente demolito per permettere la realizzazione del palcoscenico e della scena (Burns, 2008; Danzi, 2011).

L’Olimpico è il ‘testamento spirituale’ di Palladio sotto molteplici aspetti: per la capacità di reinterpretare i dettami degli antichi, per l’uso di materiali economici come legno, mattoni e intonaco a simulazione di più ricche superfici marmoree e non ultimo per la capacità di riutilizzare quanto già presente, trasformando i vincoli imposti dal sito come occasioni di per fare una nuova architettura. Proprio quest’ultimo aspetto è uno dei meno indagati nell’ambito della storiografia palladiana: è un tema che però potrebbe aprire nuove prospettive con cui osservare l’opera dello scalpellino Andrea e che al tempo stesso – in un momento come quello odierno in cui il dibattito architettonico ruota intorno al problema del ‘costruire nel costruito’, rigenerando, riciclando e ripensando l’esistente – rappresenta una lezione di grande attualità.

Bibliografia

Battilotti, D., D’Incau, B., Franceschi, S., Lazzari, A. & Piana, M. (2012). Nuove osservazioni dagli archivi e dal cantiere su villa Trissino a Meledo. Annali di Architettura, 24, 19-36.

Beltramini, G. (2000a). L’architettura. In Avagnina, M. E., Beltramini, G., Binotto, M., Ferrari, S. & Rigoni, M., Guida a Palazzo Barbaran da Porto (pp. 20-27). Verona: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio.

Beltramini, G. (2000b). Palladio e il palazzo di Montano Barbarano. In Avagnina, M. E., Beltramini, G., Binotto, M., Ferrari, S. & Rigoni, M., Guida a Palazzo Barbaran da Porto (pp. 8-19). Verona: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio.

Beltramini, G. (2008). La Basilica. In G. Beltramini & H. Burns (a cura di), Palladio (pp. 80-89). Venezia: Marsilio.

Beltramini, G. & Gros, P. (2008). Palazzo Barbarano. In G. Beltramini & H. Burns (a cura di), Palladio (pp. 208-217). Venezia: Marsilio.

Bertotti Scamozzi, O. (1776-1783). Le fabbriche e i disegni di Andrea Palladio, I-IV. Vicenza: Francesco Modena.

Burns, H. (2008). Il Teatro Olimpico. In G. Beltramini & H. Burns (a cura di), Palladio (pp. 244-257). Venezia: Marsilio.

Burns, H. (2009). The Quattro Libri dell’Architettura: book design and strategies for presenting and marketing Palladio’s “usanza nuova”. In F. P. Di Teodoro (a cura di), Saggi di letteratura architettonica da Vitruvio a Winkelmann (Vol. I, p. 113-150). Firenze: Olschki.

Danzi, E. (2011). Il Teatro Olimpico: alcune trasformazioni costruttive osservate con l’ausilio dell’analisi stratigrafica. In M. Piana & U. Soragni (a cura di), Palladio materiali tecniche restauri in onore di Renato Cevese (pp. 12-22). Venezia: Marsilio.

Emery, N. (2011). Distruzione e progetto. L’architettura promessa. Milano: Marinotti.

Gabbiani, B (2000). Villa Thiene, Andrea Palladio. Il restauro. Quaderno n°3/2000. Vicenza: Comune di Quinto Vicentino.

Gabbiani. B (2003). La villa Thiene di Quinto Vicentino: Palladio, Muttoni e i resti quattrocenteschi. In M. Piana & U. Soragni (a cura di), Palladio materiali tecniche restauri in onore di Renato Cevese (pp. 145-155). Venezia: Marsilio.

Ghisetti Giavarina, A. (2003). Preesistenze e trasformazioni in due opere di Palladio: villa Godi a Lonedo e villa Thiene a Quinto Vicentino. Opus. Quaderno di storia dell’architettura e del restauro, 7, 236-240.

Muttoni, F. (1740). Architettura di Andrea Palladio vicentino. Di nuovo ristampata e di figure in rame diligentemente intagliate arricchita, corretta, e accresciuta di moltissime fabbriche inedite con le osservazioni dell’architetto N.N. (Vol. I, pp. 39-41). Venezia: Angelo Pasinelli.

Palladio, A. (1570). I Quattro Libri dell’Architettura. Venezia: Domenico de’ Franceschi.

Rigoni, M. (2000). Le indagini archeologiche. In Avagnina, M. E., Beltramini, G., Binotto, M., Ferrari, S. & Rigoni, M., Guida a Palazzo Barbaran da Porto (p. 83). Verona: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio.

Viollet Le Duc, E. E. (1865). Restauracion. In Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle (Vol. VIII, pp. 14-34). Paris: Morel et Co.

Winter, T. & C. Fuchs (2011). Villa Gazzotti a Bertesina. Notizie sulle ricerche in corso. In M. Piana & U. Soragni (a cura di), Palladio materiali tecniche restauri in onore di Renato Cevese (pp. 87-95). Venezia: Marsilio.

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1. Si rimanda a questo proposito alla ricerca “Andrea Palladio: materiali tecniche e finiture”, svolta nel 2014 presso l’Università IUAV di Venezia in partnership con il Ministero dei Beni Culturali e il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, i cui esiti sono stati esposti al XIV seminario internazionale sul restauro architettonico “Andrea Palladio: cantieri di carta, calce e mattoni” a cura di D. Paternò, M. Piana, U. Soragni (Albettone 27 novembre 2014).