Il riciclo degli scarti risultanti dalle attività produttive è una pratica di origini antichissime, che l’uomo ha adottato fin dalle epoche più remote come procedimento volto a ottimizzare l’economia dei beni materiali e immateriali. Tuttavia, più che come un’istanza strumentale per il suo stesso sostentamento, la società di massa ha comunemente interpretato il riciclo come un approccio orientato al mero contenimento degli eccessi conseguenti a un sistema di gestione delle risorse fondato sul principio della crescita illimitata. La crisi che, da diversi decenni, interessa l’economia globale, evidenzia invece l’urgenza di rivalutare tale attitudine, rivendicandone anche un ruolo centrale nella definizione delle dinamiche di produzione, distribuzione e consumo.
In un’ottica imprenditoriale, tali presupposti delineano margini operativi connotati in egual misura da opportunità e criticità: da un lato, l’adozione di strategie che contemplino azioni di riciclo, riuso e riqualificazione rappresenta per le aziende un’occasione per assecondare efficacemente la ripresa economica, allineandosi al tempo stesso alle vigenti direttive europee e internazionali in termini di ricerca e innovazione; d’altro canto, perché tale scenario possa concretamente realizzarsi, molte di esse necessitano di rivedere in modo radicale il proprio apparato tecnologico e manageriale, in un processo di rilettura del brand che le imprese – soprattutto quelle di dimensioni più esigue – fanno spesso fatica a intraprendere e portare a compimento.
I contenuti del terzo numero di Progetto Re-Cycle ruotano intorno a questa prospettiva mettendo in luce, da diverse angolazioni, un ambito di riferimento articolato secondo un duplice binario: una prima direttiva riguarda il piano della materialità, documentando un insieme di tecniche, pratiche e metodologie che individuano nel recupero di risorse preesistenti un canale privilegiato per innovare i modelli di progettazione, lavorazione e smaltimento dei prodotti; una seconda direttiva si rifà a un piano più intangibile e astratto, alludendo all’esigenza di uno slittamento delle logiche consumistiche in favore di un approccio basato su un’istanza di sostenibilità intesa in senso culturale oltre che produttivo, economico e ambientale.
Con questa nuova uscita Progetto Re-Cycle ribadisce e mette ulteriormente a fuoco il proprio interesse nei confronti della cultura d’impresa: un interesse già espresso, seppur con minore enfasi, nel contesto dei precedenti numeri della rivista, che trova corrispondenza anche nelle evoluzioni che stanno riguardando l’iniziativa nel suo complesso. Il progetto sta infatti assumendo un respiro più ampio, con l’intento di coniugare la missione informativa e pubblicistica con l’erogazione di una serie di servizi di supporto alle piccole e medie imprese – come ad esempio il ciclo di webinar dedicati al concetto di riciclo come strumento per organizzare, comunicare e mettere in rete il proprio business che organizzeremo con cadenza mensile a partire da settembre.
Dal punto di vista dei rapporti con il territorio, i prossimi mesi vedranno riconfermarsi il legame di Progetto Re-Cycle con l’Università Iuav di Venezia attraverso il collegamento con due distinti progetti di ricerca, il primo improntato al rilancio del distretto della ceramica di Nove [VI] e il secondo alla rigenerazione del tessuto produttivo presente in area pedemontana. Oltre a consolidare e potenziare le relazioni già avviate con le istituzioni operanti sul sistema territoriale del Veneto, queste esperienze forniranno il banco di prova per testare un formato editoriale sperimentale – simultaneamente rivista, studio di comunicazione, agenzia di consulenza, incubatore d’impresa – che intende il riciclo come occasione per creare un ponte fra imprenditoria e cultura.
Cosa significa innovare? Per innovare è necessario rompere completamente con il passato oppure, più semplicemente, si parte dal passato per ri-vedere, ri-interpretare, ri-creare? E comunque, qualcuno troverà giovamento da questa innovazione oppure è una innovazione fine a se stessa?
Proviamo ad andare con ordine e partiamo da una nostra tipica PMI con un forte orientamento al prodotto. Situazione tipica: “Abbiamo la necessità di vendere di più, magari all’estero, dove ci hanno detto che il Made in Italy è richiestissimo. Perciò abbiamo pensato di innovare la nostra gamma di prodotti perché così ci differenziamo dalla concorrenza, e se arriviamo per primi nel mercato estero riusciamo a vendere perché non abbiamo concorrenti”. Può sembrare uno scherzo ma non lo è.
1. “All’estero”. Cosa si intende per estero? San Marino, un qualsiasi stato dell’Africa o dell’Estremo Oriente, gli Stati Uniti? Il target “estero” non significa nulla se il paese non è identificato, e questo può fare una differenza enorme.
2. “Il Made in Italy”, che non significa semplicemente “prodotto in Italia”: Made in Italy è sinonimo di qualità nella progettazione, di design, di raffinatezza, di eccellenza che “all’estero” possono avere bisogno di un supporto in loco e di un servizio post vendita altrettanto eccellente. Si è pensato a tutto questo?
3. “Innovare la gamma dei prodotti”. Per venderli “all’estero“. Ma “a chi”? In altre parole, si sono definiti chiaramente il target di clienti a cui ci rivolgiamo?
4. “Arriviamo prima della concorrenza”. La concorrenza è identificata o si riferisce a chiunque venda un prodotto simile?
Da un simile scenario si evince una banalità. Se qualcuno, il cliente, non ha interesse ad acquistare il prodotto, per innovativo che esso sia non vale la pena innovarlo. Pertanto l’innovazione avrà senso, sarà spendibile e avrà un ritorno economico solo se risponderà ai bisogni espressi o inespressi dei clienti.
Agli occhi della nostra PMI, questi ragionamenti si legano al piano dell’innovazione di prodotto. In effetti, forse non sarebbe stato necessario innovare il prodotto ma piuttosto innovare il processo di produzione di quel prodotto specifico per permetterci di ri-vederlo e ri-interpretarlo.
Paradossalmente risulta più difficile parlare di innovazione di processo che di innovazione di prodotto. Nell’articolo Ceramica Made in Umbria si pone in stretta relazione la tradizione produttiva umbra con il panorama delle tecnologie attuali. Nel distretto della Ceramica di Nove (VI) all’interno di una azienda che partecipa a un progetto della Regione Veneto si sta portando avanti un percorso simile. Il processo produttivo è stato snellito e reso più rapido dalle tecnologie delle stampanti 3D con il risultato di avere dei prodotti tradizionali ma rivisti nel design, con dei costi e dei tempi di produzione più bassi. L’innovazione è partita non dal produrre qualcosa di nuovo, ma dal produrre in modo diverso qualcosa che c’era già.
La componente artistica nella lavorazione della ceramica è molto presente, e continuerà a esserlo; tuttavia la stampa 3D in argilla permette di sperimentare forme non convenzionali e di innovare il processo di produzione rendendo il ciclo più snello e con un minore impatto ambientale. Soprattutto si possono realizzare librerie virtuali di modelli a cui attingere per personalizzare e rispondere just in time alle esigenze dei clienti.
Tutto questo non è però sufficiente se a fianco dell’innovazione di processo non vi è anche una rilettura del processo organizzativo dell’azienda nel suo complesso. La rilettura del processo organizzativo non può avvenire senza una visione chiara degli obiettivi da raggiungere e la loro conseguente pianificazione. Se partiamo dal caso concreto della ceramica gli obiettivi potrebbero essere declinati in questo modo:
– ridurre il costo, e soprattutto i tempi, di produzione e prototipazione con le nuove tecnologie;
– ridotto il costo di produzione, capire come applicare questo risultato a nuovi concept di prodotto;
– immettere i prodotti rivisitati nel mercato.
Ciò, naturalmente, a condizione che si abbia già ben chiaro il target di riferimento, e si possieda la struttura necessaria per raggiungerlo, perché nella foga di rilettura del prodotto molto spesso ci si dimentica del mercato, come si è ben visto nel progetto della “Ceramica Made in Umbria”:
“Tuttavia, nonostante l’interesse suscitato dal progetto in ambito sia nazionale che internazionale, è venuta a mancare la creazione di una struttura commerciale in grado di gestire tale richiesta a livello di brand unitario. Per suo stesso statuto la Regione non può assumere ruoli e fini commerciali, per cui ad assolvere questo compito avrebbero dovuto essere le aziende, cooperando nella messa a punto delle strategie di produzione, promozione e distribuzione dell’intera collezione. Purtroppo, anziché una propensione al lavoro in squadra, le aziende coinvolte nel progetto hanno dato prova di una certa tendenza all’individualismo che ha inibito in partenza la possibilità di agire entro una dimensione che fosse effettivamente di rete. L’aggregazione, come sottolineano le direttive emanate a tal riguardo dall’Unione Europea, è l’unica opzione che queste aziende hanno oggi per rilanciare la propria produzione all’interno del mercato globale: un’opzione che il sistema dell’imprenditoria umbra sembra non essere ancora pienamente maturo ad accogliere.” 1Si veda http://www.progettorecycle.net/ceramica-made-in-umbria/
Il problema fondamentale per le aziende italiane di dimensioni più piccole non è solo nella rilettura del prodotto ma nella rilettura del proprio modello di business. L’atteggiamento tipico che si riscontra è l’atteggiamento di chi lavora in conto terzi. Più che disponibile a farsi in quattro quando arriva una grossa commessa da un cliente importante, e invece di un immobilismo pericoloso, quasi timore, quando si tratta di muoversi verso il mercato con prodotti propri. Pertanto, oltre a obiettivi relativi al prodotto e al processo produttivo, è di vitale importanza chiarire anche i propri obiettivi di strategia aziendale. A livello generale potrebbero essere riassunti in queste aree:
– creazione o riposizionamento del brand per soddisfare al meglio i target esistenti e individuare nuovi target, generando un aumento di profitto;
– aggregarsi con aziende simili per gestire una strategia commerciale comune;
– darsi un obiettivo di TEMPO.
Il passo successivo sarà quello di pianificare una strategia chiara per raggiungere gli obiettivi prefissati nell’arco di tempo stabilito. Molto semplicemente, una strategia implica sapere dove si vuole andare e decidere il modo migliore per arrivarci. Il “dove” l’abbiamo stabilito (rilettura del brand/nuova strategia commerciale), resta da capire il come. La prima fase imprescindibile è la conoscenza del mercato di riferimento e dei clienti che costituiranno il target di partenza. Nel caso il target non sia già stato ben identificato, è necessario procedere alla sua identificazione il prima possibile! È incredibile quante aziende non conoscano i bisogni e i desideri dei loro clienti.
La seconda fase è relativa all’analisi interna dell’azienda, per fotografare la situazione attuale e capire se vi siano dei gap che potrebbero precludere il raggiungimento degli obiettivi, e per rilevare e saper valutare le competenze già presenti e saperle coordinare al meglio. Se a livello commerciale non vi sono competenze presenti, occorre coinvolgere un temporary manager che gestisca la parte commerciale in coordinamento con le figure apicali dell’azienda.
Tutto ciò può comunque non essere sufficiente per un’azienda di piccole dimensioni. Per raggiungere i mercati desiderati e poter crescere potrebbe essere conveniente aggregarsi con altre aziende in un raggruppamento, che può assumere varie forme purché strutturate con un piano strategico condiviso tra le aziende partecipanti e il relativo personale. È importante inoltre ricordare che un raggruppamento di aziende è da considerare in tutto e per tutto come una nuova azienda. Le forme per aggreagrsi sono più di una. Ecco un semplice schema delle più usate e delle differenze:
Per i mercati internazionali le forme aggregative sono ancora più importanti che per il mercato italiano. Il famoso Made in Italy, usato e abusato come brand riconoscibile di eccellenza, deve essere supportato da servizi accessori pre e post vendita, che non possono essere erogati dalla singola azienda, se di piccole dimensioni, ma piuttosto da un raggruppamento di aziende. In ogni caso è da tenere ben presente che la singola azienda nei mercati esteri (resta intesa la necessità di identificare i singoli mercati) ha maggiori difficoltà a negoziare accordi con intermediari in loco.
Le opportunità per rinnovarsi e crescere sono molte, anche per le aziende più piccole, è importante saperle cogliere e sfruttarle nel modo giusto, condividendo le informazioni, facendo squadra dentro e fuori l’azienda, iniziando anche a utilizzare gli strumenti di finanza agevolata o gli strumenti che favoriscono le aggregazioni di imprese, come ad esempio il contratto di rete.
Un solo e singolo aspetto rimane però imprescindibile: conoscere e saper valutare i punti di forza della propria azienda e, a partire da quelli, saper ri-creare e, se vogliamo, ri-ciclare, idee e prodotti già esistenti, attuando un modello di business più competitivo, incline alle rilettura del proprio passato come strategia per guardare al futuro.
Appare evidente che, a seguito della violenta crisi economico/finanziaria degli ultimi anni, alcuni parametri di valutazione di aspetti legati alla produzione industriale debbano essere riconsiderati sulla base di una serie di aspetti:
1. la crisi (peraltro ancora senza un nome) ha portato a fenomeni di delocalizzazione della produzione;
2. la crisi ha portato ad una diversa realtà di produzione dei beni industriali;
3. l’evoluzione delle tecnologie produttive sta portando a nuovi modelli di produzione.
Soprattutto questo ultimo aspetto va considerato nell’ottica del disegno industriale: le metodologie progettuali consolidate, scalfite e mutate in seguito all’introduzione dell’informatica, sono ora fortemente sollecitate da nuovi approcci innovativi, che mettono in dubbio le basi della produzione industriale di massa consolidate da decenni.
Non è più pensabile una produzione di massa concentrata in grandi stabilimenti, in ampi spazi produttivi, con tirature di milioni di pezzi, per due motivi fondamentali:
1. la velocità di invecchiamento dei prodotti “bruciati” da logiche non legate a funzionalità, ad un rapporto di forma funzione, ma connesse a valutazioni più simili ad aspetti effimeri legati a mode/a passeggere;
2. l’impossibilità di prevedere gli effettivi volumi di produzione e di valutarne i relativi ammortamenti di attrezzature per la realizzazione dei progetti.
È in quest’ottica, velocemente falsata, che un materiale millenario quale la ceramica, legato all’evoluzione stessa del prodotto industriale – valga per tutti, quale esempio, la Wedgewood con alcuni pezzi in produzione dal 1777 tutt’oggi invariati – può trovare nuove applicazioni se associato alle nuove tecnologie informatiche, come la stampa 3D, unendo tradizione e innovazione.
Ceramiche Maroso,1http://www.ceramichemaroso.com/it/home.php azienda con una quarantennale storia alle spalle, inserita in un tessuto produttivo con tradizione millenaria legata alla ceramica, dal 2008 ha intrapreso una nuova strada nella produzione e nell’approccio alla produzione di oggetti in ceramica.
È importante collocare l’azienda geograficamente e temporalmente: siamo in provincia di Vicenza, a Nove, città famosa fin dal settecento produzione della ceramica artistica; la crisi ha segnato fortemente le aziende della zona, molte hanno chiuso, altre, è il caso, fra le altre, di Ceramiche Maroso, hanno cercato nell’innovazione di prodotto, nel design, nell’innovazione di processo una possibile ricollocazione.
Nella produzione della ceramica si possono evidenziare due tipologie principali: l’oggetto con funzione e l’oggetto decorativo; alla prima tipologia appartengono, ad esempio tutte le funzioni legate al cibo, ma non si dimentichi l’ampio uso del passato quale isolante elettrico; alla seconda, gli oggetti decorativi, siano essi i vasi da arredo, o, purtroppo, peraltro, i galli decorati, per citare un esempio.
A tutto ciò si può aggiungere, e si deve aggiungere, negli ultimi anni un nuovo filone che possiamo definire della ceramica tecnica, in cui il materiale viene associato o inserito insieme ad altri materiali in oggetti di varie tipologie merceologiche, dove risulta necessaria una stabilità dimensionale e tolleranze costruttive che i produttori di oggetti tradizionali in ceramica raramente hanno considerato, trattandosi quasi esclusivamente di oggetti mono-materiale, con nessun rapporto con altre componenti.
Ecco che ora troviamo ceramica in oggetti quali le cappe da cucina, associata/sostenuta da elementi metallici, in lampade, in rivestimenti di stufe, in amplificatori acustici, sempre in contesti in cui il materiale ceramico porta ad un aumento considerevole del valore del manufatto nel suo insieme.
La sfida e al tempo stesso l’obiettivo del percorso di innovazione del prodotto ceramico intrapreso da Ceramiche Maroso, nell’ambito del progetto finanziato dalla Comunità Europea tramite la Regione Veneto, è quello di cogliere l’occasione data dalle nuove tecnologie, di portare il materiale ceramico verso nuove metodologie produttive, in cui non vi sia più il vincolo dato da uno stampo, invariato da millenni, peraltro; nuove sperimentazioni formali, nuovi concetti possono ora essere portati in un settore tradizionalmente legato a metodi produttivi fortemente radicati in cui le aziende legato al solo oggetto decorativo sono in estrema difficoltà a causa della radicalizzazione del mercato, in senso di prezzo al cliente e in senso di razionalizzazione del criterio di scelta, orientato all’uso.
Il settore della ceramica è stato poco “frequentato” dal design; pochi pezzi di altissimo costo per alcuni designer di fama, spesso con la sola funzione decorativa, poche le riflessioni sul materiale, sulle sue specifiche caratteristiche, le potenzialità inesplorate, le interconnessioni con altri materiali.
Ciò che si sta sperimentando, nel progetto citato, è proprio un diverso approccio al materiale ceramico, in cui si ponga una grande attenzione ad una caratteristica poco considerata, ossia il basso impatto ambientale, aspetto particolarmente importante nell’ottica delle normative future sul disassemblaggio dei prodotti industriali.
Riassumendo il progetto vuole portare ad una rilettura delle peculiarità del materiale puntando su:
– bassi investimenti per gli stampi e quindi rapidità di modifiche del design degli oggetti;
_ possibilità formali inesplorate in funzione delle nuove tecnologie di stampa 3D direttamente in argilla per tirature limitate o per modifiche immediate, pezzo per pezzo;
– l’utilizzo di nuove tecnologie di modellazione digitale, gestendo le superfici con strumenti di valutazione propri di altri settori del disegno industriale per poter verificare immediatamente il prodotto;
– sviluppare il settore dell’illuminazione portando il valore aggiunto di un materiale tradizionale con enormi capacità espressive;
– associazione di altri materiali per ottenere particolari effetti materici e di luce
Più nel dettaglio l’utilizzo di software avanzati di modellazione digitale sta portando a ridurre notevolmente i tempi di sviluppo dei nuovi prodotti, passando dal modello 3D al modello, che sia esso realizzato con la tecnologia additiva della stampa 3D o con una tecnologia sottrattiva, in un breve lasso di tempo, soprattutto potendo verificare ogni aspetto della progettazione e della interconnessione tra i vari materiali.
Software di valutazione delle superfici permettono una precisa verifica dell’effetto finale, permettendo un approccio completamente diverso al processo produttivo tradizionale, tipico delle aziende del settore; risulta evidente come la precisione del passaggio dal CAS (Computer Aided Styling) al CAM (Computer Aided Manufacturing) possa aprire nuovi scenari per la ceramica.
Tuttavia non bisogna scendere verso la realizzazione di oggetti stampati in 3D, precedentemente non realizzabili, con l’unico scopo di stupire: l’oggetto realizzato a tal scopo ha vita breve, l’attimo di uno sguardo; è la complessità dell’espressione progettuale, della forma, del significato della sperimentazione del design che va ricercata nella rilettura del processo progettuale e produttivo, e, mi sia concesso, anche nel diverso approccio necessario nell’ultimo passaggio, peraltro fondamentale, ossia la vendita del prodotto. La comunicazione del prodotto, del processo che ne ha portato all’evoluzione e alla realizzazione deve divenire parte integrante dell’intero percorso, solo in questo modo si valorizza la tradizione, il design, l’azienda e la sua storia, il Made in Italy.
Negli ultimi anni Ceramiche Maroso, in collaborazione con uno studio di design, ha già sperimentato il processo produttivo che porta ad un perfetto controllo dimensionale dei prodotti, consapevole che questo approccio sia concettualmente valido per poter dialogare con altri partner nella realizzazione di prodotti multimaterici: solo a fronte di una stabilità dimensionale l’industria può pensare di utilizzare la ceramica, solo con tolleranze ben definite e controllabili.
Fondamentale è stata l’esperienza pluridecennale, i milioni di pezzi prodotti e il dialogo tra progettisti e azienda che, da sempre, fin dal Werkbund tedesco, è alla base del successo del prodotto industriale: solo in presenza di un progetto ben definito, che comprende ogni aspetto della produzione si può pensare di aver ottimizzato l’intero processo produttivo.
Il settore dell’illuminazione è stato, da sempre molto attivo, vivo e ricco di proposte, soprattutto in ambiti legati alla residenza, tipologia di prodotto da sempre molto attenta all’uso dei materiali; è in quest’ottica che l’azienda sta sviluppando una gamma di prodotti che interpretano il materiale in funzione della diffusione luminosa, sperimentando effetti ottici e di luce. Come ogni cambio/salto tecnologico l’introduzione dell’illuminazione a LED comporta delle mutazioni nell’architettura stessa della gestione della luce, non ci si è ancora resi conto di quanto si possa innovare, di quanto si tratti di un oggetto il cui design può, ora, divenire estremamente libero, senza vincoli di ingombri obbligati.
E’ in questo settore che, sempre all’interno del progetto finanziato, si stanno sperimentando e realizzando prototipi con un approccio al design diverso, giocando con volumi ben definiti, geometrici e precisi unitamente a “segni” che portano i millenni della storia del materiale; segni che fanno parte della tradizione, della manualità, curve che trovano una loro armonia solo se poste vicino ad altre similari, fatte di rapporti stretti di una geometria organica e meno definita, che rende l’oggetto prodotto in serie comunque distinguibile e unico.
Sono questi gli aspetti fondamentali che si sta cercando di integrare nel progetto, soprattutto sfruttare con un vantaggio competitivo la possibilità offerta dalle nuove tecnologie di innovare i processi produttivi della ceramica dopo millenni: per la prima volta è possibile dare forme precedentemente impossibili agli oggetti, aumentando le possibilità espressive del materiale, senza perderne le caratteristiche di tradizione, di valore aggiunto e di piacere materico che da sempre ne deriva.
Di Valentina Perzolla, Chris Carr, Stephen Westland
Questo articolo rappresenta un’introduzione allo studio specialistico di materiali compositi che, per varie ragioni illustrate nel testo, potrebbero entrare presto a far parte di collezioni museali.
Nella prima parte vengono descritte alcune caratteristiche e proprietà (chimiche e fisiche) del cuoio conciato al cromo, mentre nella seconda parte si presentano le pelli sintetiche. Entrambi i materiali risultano indispensabili per comprendere a pieno i compositi di natura collagenosa, i quali sono costituiti da fibre di collagene e rivestiti con materiale polimerico. Tali compositi sono studiati per replicare l’aspetto e le proprietà del cuoio oltre che per ragioni ambientali. La terza parte, infine, espone le ragioni dello studio dei materiali innovativi con finalità sia conservative che industriali. L’articolo si chiude sottolineando l’importanza della conservazione preventiva e come la parziale comunanza di interessi dei due ambiti, quello della conservazione e quello dell’industria, possa costituire un punto di partenza essenziale per introdurre nuove pratiche conservative.
Introduzione
La lavorazione delle pelli animali è considerata da alcuni studiosi come il primo esempio di manifattura a opera dell’uomo (Forbes, 1957). Se è vero che questo processo ha iniziato a diffondersi già in tempi antichi, bisogna ricordare che i primi trattamenti non consistevano in veri e propri processi ci concia. Prima di arrivare a produrre un materiale complesso quale il cuoio sono stati necessari millenni di tentativi, errori, innovazioni e progressi tecnologici (Thomson, 2011). Nella seconda metà dell’800 è stata introdotta la pelle sintetica, caratterizzata da un supporto in tessuto e l’aggiunta di un rivestimento polimerico (Fung, 2002).
Da un decennio a questa parte è comparsa, accanto a pelli naturali e sintetiche, la pelle composita. Tale prodotto è caratterizzato dalla compresenza di fibre provenienti dalla lavorazione del cuoio, tessuti e sostanze polimeriche di rivestimento. Se da un lato la presenza di un rivestimento plastico può sminuire il fascino tipico della pelle, in questi compositi l’innovazione tecnologica si sposa con l’interesse per la sostenibilità ambientale.
Oggetti in pelle provenienti da diversi periodi storici sono facilmente individuabili all’interno di innumerevoli collezioni museali (Ravilio, 2010) e il numero di testimonianze culturali, storiche e artistiche in pelle sintetica è in continuo aumento. Per tale ragione entrambe le tipologie di prodotti hanno avuto modo di essere esaminate sotto il profilo scientifico-conservativo, valutando il degrado e i meccanismi che lo determinano oltre ai metodi per migliorarne la conservazione. I nuovi materiali che giungono sul mercato, al contrario, sono testati per misurare le loro performance ma non per la resistenza al degrado; questo determina una notevole quantità di incognite sia per il quotidiano impiego del materiale che per la sua vita in museo. Il percorso dei nuovi materiali compositi verso una riduzione dell’impatto ambientale dovrebbe essere accompagnato dalla volontà di studiare anticipatamente i meccanismi di degrado e le possibili soluzioni a eventuali futuri problemi. Un simile approccio sarebbe non solo in linea con le attuali tematiche della sostenibilità, ma anche con il percorso, già segnato da anni, della conservazione preventiva in ambito museale.
La pelle e la sua composizione
I termini pelle e cuoio, che in inglese vengono riassunti dal sostantivo leather, rientrano in una categoria di materiali realizzati a partire dalla pelle animale. A seconda del tipo di animale e dell’applicazione per cui si vuole utilizzare il supporto si possono avere prodotti molto diversi. Le caratteristiche sono strettamente legate ai processi che precedono la concia, al tipo di concia e alla qualità dei reagenti impiegati nelle varie fasi di produzione. Quindi, per comprendere il comportamento macroscopico del cuoio è indispensabile sia capirne la composizione chimica sia quali sono i fenomeni che, seppur avvenendo a livello microscopico, influenzano l’intera struttura.
In primo luogo, non si puo’ parlare di pelle e di cuoio senza citare il collagene, ossia la molecola principale che ne caratterizza la composizione. Nonostante esistano 28 tipi di collagene (Kadler, Baldock, Bella & Boot-Handford, 2007), quello più presente nella pelle è il tipo I. Essendo una proteina, il collagene è costituito da una serie di aminoacidi (definiti α o β a seconda della loro chiralità) uniti attraverso legami peptidici che si instaurano tra i gruppi amminico e carbossilico di due strutture aminoacidiche (vedi Figura 1).
Dal punto di vista chimico, la reazione è una condensazione e avviene per eliminazione di una molecola d’acqua; tale reazione è reversibile e dunque, in presenza di acqua e determinate sostanze che fungono da catalizzatori, la molecola può venire idrolizzata (Covington & Covington, 2009). Il processo di idrolisi ha un ruolo centrale durante l’intera lavorazione della pelle e anche in seguito, quando il prodotto è in uso ed è sottoposto all’azione del tempo e degli agenti deteriogeni.
L’organizzazione del collagene è molto elevata e comincia dalla ripetizione di triplette di aminoacidi: la glicina occupa generalmente la prima posizione e costituisce un terzo del totale degli aminoacidi, seguita da prolina e idrossiprolina. Si formano delle strutture chiamate α-eliche che, unendosi ancora a gruppi di tre, danno luogo alla tripla elica di protocollagene di dimensioni 300 x 1.5 nanometri (Covington & Covington, 2009). Le estremità delle triple eliche contengono una regione detta telopeptide che non ha la medesima struttura ad elica; tale zona è responsabile di legare una molecola di protocollagene a un’altra. Le diverse triple eliche iniziano poi a interagire e si formano delle fibrille nelle quali le triple eliche sono distanziate – in lunghezza – di 67 nanometri. Solo a questo punto si formano le vere e proprie fibre di collagene (Florian, 2011).
In questa struttura l’acqua si presenta in varie forme e con diverse funzioni: conferisce stabilità alle eliche facenti parte della molecola di collagene grazie alla formazione di forti legami; crea collegamenti inter- e intra-fibrillari; funge da solvente e quindi consente la circolazione degli agenti chimici durante i processi di lavorazione (Reich, 2005). Dal momento che ciascuna funzione dell’acqua è legata a un determinato livello strutturale del collagene, appare chiaro che anche l’eliminazione del composto assume un’importanza diversa e può causare problematiche differenti. Questo aspetto diventa centrale nel momento in cui si effettuano indagini sul degrado o i meccanismi di deterioramento.
Esaminando la pelle a un ingrandimento minore si possono fare ulteriori considerazioni. Osservando la struttura in sezione trasversale si identificano tre macroregioni: il grain, che costituisce la parte superiore della pelle e comprende le radici pilifere; il corium, subito sotto le radici ed esteso fino ai muscoli e tessuti grassi; e il flesh, la parte subito sotto la pelle che quindi forma la carne viva (Haines, 2011).
La pelle di ogni animale possiede uno spessore tipico di tale stratificazione e una distribuzione dei pori piliferi ben definita. Queste caratteristiche sono legate al tipo di animale e ad altri fattori quali l’ambiente di vita, alla sua dieta e all’età. Le diverse stratificazioni delle pelli influenzano le proprietà fisiche quali la flessibilità, la resistenza alla trazione e all’applicazione di pressioni e la compressibilità.
Processi di preparazione, concia e finitura
Sebbene la concia costituisca uno dei processi più noti che riguardano la lavorazione della pelle, di certo non è l’unico. In Figura 2 sono riportati i tipici trattamenti subiti dalla pelle dal momento in cui viene ottenuta come scarto dell’industria alimentare fino a quando non diviene un prodotto finito.
Esistono numerosi modi per conciare la pelle, ossia per effettuare trattamenti che la rendano non putrescibile e conferiscano alla struttura maggior stabilità idrotermica e resistenza al degrado (Beghetto, Matteoli, Scrivanti, Zancanaro & Pozza, 2013). Fino all’introduzione della concia al cromo nel 1884, il processo di produzione principale è stato la concia vegetale. Questo metodo si basava sull’immersione delle pelli, precedentemente preparate per rendere la struttura del collagene adeguatamente recettiva, in fosse contenenti acqua ed estratti di piante; le pelli venivano lasciate in questi bagni almeno per un anno, fino a quando non veniva raggiunto il colore desiderato e i capi potevano essere lavati, ulteriormente trattati e infine asciugati (Thomson, 2011). In genere la reazione che avviene tra tannini vegetali e collagene consiste nella formazione di legami come quello a idrogeno (Covington, 1997); tali legami garantiscono una discreta stabilità ma la loro resistenza è certamente inferiore a quella di altri legami.
La scoperta del processo di concia al cromo ha decisamente modificato la situazione per due ragioni principali: richiede meno tempo e l’efficienza del metodo è molto elevata. Non è un caso che, ancora oggi, tra l’80 e il 90 % delle pelli vengano conciate a cromo. Sebbene esistano ancora alcuni dubbi sull’esatto meccanismo di interazione tra cromo e collagene, la formazione di complessi di coordinazione e legami covalenti è data per assodata (Mann and McMillan, 2008). Uno dei principali miglioramenti che la concia al cromo introduce nella molecola di collagene riguarda la stabilità idrotermica, che costituisce uno dei parametri più utilizzati per testare la stabilità della pelle.
Pelli sintetiche
Nell’arco degli ultimi 150 anni sono comparsi sul mercato numerosi materiali artificiali che imitano quelli naturali. Inizialmente i sostituti artificiali vennero introdotti sul mercato per far fronte all’elevato costo delle pelli naturali che faceva anche aumentare il prezzo degli oggetti finiti da esse costituiti. Si iniziarono quindi a valutare dei metodi alternativi che consentissero all’industria di abbassare i costi e di rendere oggetti e capi di abbigliamento più facilmente accessibili a una quantità superiore di utenti. Varie tipologie di fibre (naturali e sintetiche) e tessuti iniziarono a essere utilizzate come supporto per i neo-introdotti polimeri che, grazie alla loro versatilità, si prestavano a questo genere di utilizzo. Attualmente le pelli sintetiche costituiscono un’ampia fetta del mercato legato ai rivestimenti da arredamento, alle imbottiture per sedili e all’abbigliamento (per esempio nell’ambito delle calzature).
I polimeri vengono utilizzati su molti tessuti, talvolta poco pregiati o costituiti da fibre poco tenacemente aderenti le une alle altre, in modo da aumentare il valore e ampliare le possibilità di impiego del prodotto finito. I processi di laminazione (lamination) e di rivestimento (coating) rappresentano le due categorie in cui si possono inscrivere le modalità di applicazione dei polimeri ai tessuti (Figura 3). La maggior differenza riscontrabile tra i tessuti laminati e quelli rivestiti è nella presenza o assenza di una sostanza con funzione di adesivo tra lo strato polimerico e il tessuto (Sen, 2008).
Va però detto che, proprio in virtù della grande varietà di tecniche disponibili, la distinzione tra i due processi è andata lentamente assottigliandosi. Questo genere di prodotti offre alcuni vantaggi rispetto alla pelle. Essendo un materiale prevalentemente sviluppato dall’uomo può essere modellato a seconda delle esigenze e del tipo di applicazione. Ciò significa che non è necessario adattare un substrato esistente a una specifica necessità, ma è invece possibile adoperarsi per creare un supporto su misura. Flessibilità e facilità di cucitura e lavorazione sono alcuni importanti aspetti tipici delle pelli sintetiche che influiscono sulla varietà di utilizzo (Fung, 2002). Altro vantaggio riguarda la gamma di colori disponibili, che è decisamente elevata per non dire virtualmente infinita.
Nonostante i vantaggi, la presenza di materiale polimerico e l’associazione con il termine finta pelle hanno determinato negli anni la sedimentazione di uno scetticismo diffuso nei confronti della pelle sintetica. Se da un lato bisogna riconoscere che l’origine del prodotto non è stata quella di un materiale pregiato, il livello di specializzazione oggi richiesto per la produzione di alcune tipologie è decisamente elevato.
Problematiche ambientali
È stato menzionato inizialmente che la lavorazione del cuoio rappresenta una delle più antiche industrie specializzate nella storia dell’essere umano. Se è vero che si è passati da metodi poco a molto efficienti e da condizioni di lavoro scarsamente a gradualmente dignitose, bisogna ammettere che i processi che conducono alla concia e la concia stessa (soprattutto quella al cromo) sono considerati altamente inquinanti. Per tale ragione il mondo delle concerie ha visto incrementare in maniera consistente in numero di restrizioni e regolamenti che ne governano l’attività, in particolar modo nell’area dell’Unione Europea. Questo ha determinato un deciso aumento delle esportazioni dei capi, nello stato wet blue, verso zone del pianeta meno interessate alle condizioni di lavoro degli operatori e alle tematiche ambientali. Il risultato è che solo un ristretto numero di concerie, rispetto a quelle presenti anche solo una quindicina di anni fa, è riuscito a sopravvivere e ad adeguarsi alle nuove norme (COTANCE and Industrial All, 2012).
I maggiori problemi associati ai processi di produzione della pelle sono l’impiego di prodotti chimici inquinanti e il trattamento delle acque impiegate durante la lavorazione (Mann & McMillan, 2008), i quali si vanno a unire alla quantità di inquinanti atmosferici derivanti non solo dai processi pre-concia ma anche da quelli di finitura. Inoltre, la quantità di collagene che esce dalle concerie sotto forma di pelle è circa il 50 % del totale, il che indica una notevole mole di scarto che deve trovare nuovo utilizzo o venire trasferita in discarica (Reich, 2005). Purtroppo la seconda opzione è quella che viene maggiormente messa in atto.
Studio del degrado con finalità conservative e industriali
In passato si è assistito innumerevoli volte all’introduzione di materiali innovativi in ambienti museali, soprattutto in seguito allo sviluppo delle plastiche. Questo è probabilmente imputabile a una serie di ragioni: la varietà di applicazioni e la versatilità che ciascun prodotto polimerico è capace di offrire; la curiosità di artisti e designer nei confronti dei nuovi prodotti sul mercato; la mancata consapevolezza della velocità con cui i processi di degrado possono avere luogo.
Partendo da queste considerazioni si può riflettere su come lo studio del degrado dei materiali in ambito conservativo possa risultare utile anche in quello industriale. Se negli ultimi vent’anni il numero di studi sui materiali plastici nelle collezioni museali sono aumentati notevolmente, creando un nuovo insieme di conoscenze nell’ambito del degrado della plastica (Shashoua, 2006; Lavédrine, Fournier & Martin, 2012; Waentig, 2008), rimane l’incognita dei materiali compositi e di tutti quei materiali che vengono introdotti sul mercato ignorando il loro futuro comportamento.
Partendo dagli aspetti positivi e dalle problematiche tipici delle pelli e dei sostituti sintetici, si possono ricavare informazioni importanti sulle proprietà e i comportamenti dei materiali compositi costituiti dagli stessi elementi. Questo approccio assume una duplice valenza: si propone come un metodo pionieristico di collaborazione tra la conservazione preventiva nel settore museale e l’indagine della stabilità dei prodotti condotta industrialmente; promuove l’attitudine alla ricerca della sostenibilità. Infatti, indagando anticipatamente i possibili meccanismi di degrado e i migliori metodi per prevenirlo, si promuovono non solo la prevenzione ma anche lo sviluppo di materiali più duraturi.
In conclusione, questo studio punta alla collaborazione tra l’industria e i musei sottolineando come tale approccio su ampia scala, favorirebbe lo sviluppo di un’etica comune che abbia come finalità il raggiungimento della sostenibilità.
Bibliografia
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Il processo che consente la realizzazione di un edificio è un susseguirsi di scelte e azioni complesse. Tale processo, oggi, deve trovare un sempre maggiore livello d’accordo con il sistema naturale, al fine di ridurre l’impatto che il costruito ha sull’ambiente non solo durante la fase d’uso degli edifici ma anche nelle fasi a monte e a valle dell’arco di tempo detto di “vita utile”. L’utilità del costruito va ben oltre all’essere un riparo, analogamente la definizione di sostenibilità del processo edilizio non è riducibile alla contabilizzazione degli input e degli output necessari al funzionamento della macchina-edificio. Testi di storici, di biologi e di economisti tratteggiano una linea di studi e ricerche utile anche in edilizia e legata alla circolarità del processo distinta tra consumo dei prodotti di origine naturale e uso dei prodotti della tecnica; si prospetta che il progetto d’architettura troverà vantaggi dal riconoscere la circolarità del processo, in coerente relazione con la complessità del mondo di domani, che oggi stiamo costruendo.
La valutazione di un edificio in funzione del suo ciclo di vita può essere assimilata alla lettura del percorso di un fiume. In una schematizzazione di questo tipo l’acqua che giunge alla foce può rappresentare la somma totale dei carichi ambientali necessari alla realizzazione dell’edificio. L’acqua alla foce è il risultato dell’apporto di diversi affluenti, ciascuno giunto alla meta attraverso percorsi differenti e apportando delle quantità d’acqua variabili anche in funzione delle stagioni e degli accidenti che ne segnano la storia, ciò analogamente a come possono variare produzioni, sistemi produttivi e organizzazioni che offrono i semilavorati e i componenti messi in opera nella costruzione.
Nella moltitudine di vie percorse dall’acqua nella sua trasformazione da input ad output possiamo riconoscere le attività di uso, manutenzione, gestione e trasformazione dell’edificio. Il percorso del fiume è il suo ciclo di vita e la quantità di acqua che finisce in mare corrisponde al suo impatto ambientale.
Questo approccio è certamente riduttivo, complesso da calcolare, controverso, … ma il problema principale è che la simulazione proposta si fonda su di un errore: l’acqua non ‘finisce’ in mare. L’acqua segue un ciclo che, oggi, gli edifici non seguono perché al momento siamo in grado di reimpiegare solo pochi del materiali impiegati nella costruzione in nuove costruzioni o produzioni.
Non è un problema legato solo all’industria edilizia, è una questione aperta ed è l’oggetto di avanzate sperimentazioni in molte attività produttive. Essersi accorti di questo errore significa non ritenere più sufficienti le valutazioni di sostenibilità come descritte dagli standard internazionali e andare oltre una visione della sostenibilità edilizia limitata unicamente alla riduzione dei consumi e all’innalzamento della qualità degli immobili (Barucco, 2011).
La complessità del gioco
Il tempo lungo del processo costruttivo storico che innovava attraverso l’iterazione dell’esperienza e delle competenze tramandate si è trasformato nel tempo delle emergenze abitative e nella frenesia delle bolle speculative. Il processo di produzione dei materiali edili e il cantiere descrivono la trasformazione dei tempi e dei modi di pensare al costruito e offrono indicazioni sulla relazione tra l’utente dell’edificio e il contesto con cui questo si relaziona.
Gli edifici simbolo e gli edifici ‘minori’ di un epoca con i loro cantieri testimoniano ciò. Di Venezia, ad esempio, si conoscono le tecniche di approvvigionamento delle materie prime per il cantiere, dal laterizio al legno, alle pietre più pregiate. Si conoscono le leggi che regolamentarono le dimensioni dei travi in funzione delle esigenze commerciali e belliche e della conseguente necessità di legname per l’industria navale. Nelle volte delle chiese si leggono le tracce chiarissime del trasferimento tecnologico ad opera dei maestri d’ascia dell’Arsenale, le cupole rimandano agli influssi culturali dell’oriente, nel territorio permane il ricordo di toponimi legati ai luoghi dell’approvvigionamento. Tutto ciò concorre alla descrizione delle esigenze cui gli edifici dovevano assolvere, funzioni legate al contesto economico, politico ed ambientale che hanno definito la storia di una civiltà oltre che gli edifici di una città.
È possibile guardare in modo analogo anche all’edilizia più recente ricordando che l’industria edilizia ha dovuto, in luoghi e in tempi specifici, rispondere a esigenze diverse riconosciute come ‘onde’ dell’innovazione (Sinopoli, 2002): all’emergenza abitativa della ricostruzione postbellica, segue l’onda della qualità, quella della manutenzione e del controllo dei costi d’esercizio degli immobili, arrivando a riconoscere (oggi) la richiesta di edifici sostenibili. Onde che il CRESME1Il Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio sviluppa annualmente un Rapporto Congiunturale e Previsionale che monitora l’andamento dei diversi mercati delle costruzioni, offrendo dati per analizzare gli aspetti produttivi e di mercato, gli assetti e le trasformazioni territoriali oltre alle tematiche amministrative degli organismi pubblici. registra sempre più frequenti e che arricchiscono il processo edilizio di nuove competenze e di nuove figure professionali, articolando relazioni tra fabbrica e cantiere, tra computer e disegno architettonico, tra tecnici specializzati ed architetto, etc.
Per Mumford la complessità crescente della tecnica può essere paragonata ad un gioco: “mentre il primitivo mondo meccanico poteva essere rappresentato dal gioco della dama, nel quale tutta una serie di movimenti simili è originata da pezzi identici, qualitativamente simili, il mondo nuovo dovrà essere raffigurato quel gioco degli scacchi, nel quale ogni ordine di pezzi ha un grado differente, differente valore, una differente funzione; un gioco più lento e più esatto” (Mumford, 1980). Oggi tale gioco si fa ancor più complesso di quanto non potesse prevedere Mumford e il processo edilizio si fa ‘circolare’, identificandosi idealmente non più con un processo meccanico ma con uno organico (o ecosistemico).
Questa evoluzione del processo costruttivo è descritta in uno schema pubblicato dal CIB2CIB è l’acronimo del nome francese Conseil International du Bâtiment, nel 1998 questo nome fu cambiato in International Council for Research and Innovation in Building and Construction. Il CIB è un’associazione fondata nel 1953 allo scopo di stimolare e facilitare la cooperazione e lo scambio internazionale delle informazioni tra istituti di ricerca governativi operanti nel settore dell’edilizia, in particolare si rivolse agli istituti impegnati nella ricerca dell’innovazione tecnologica. nell’Agenda 21 on Sustainable Construction: le tradizionali variabili per la valutazione dei costi e dei benefici di ciascuna delle attività umane si ampliano quando è presa in considerazione la domanda di sostenibilità ambientale. Il CIB mostra infatti come il triangolo ‘tempi-costi-qualità’ (che misura la competitività nei processi edilizi tradizionali) venga nel tempo recente integrato in uno più grande e complesso, un nuovo paradigma basato sulla relazione tra la valutazione delle risorse ambientali non rinnovabili, la riduzione delle emissioni in atmosfera e la tutela della biodiversità. è lecito e corretto pensare che, di progetto in progetto, alcuni dei vertici dei triangoli abbiano più rilevanza rispetto agli altri; rimane comunque fondamentale la relazione tra i vertici, tra le esigenze individuate sin dalla fase di ideazione del progetto.
La terza parte dello schema CIB mostra che il riferimento al contesto globale introduce tre nuove questioni: l’equità sociale (come componente culturale del progetto), i vincoli economici e la qualità ambientale. Quasi una riproposizione in termini olistici della prima terna di fattori: in periodi di emergenza abitativa l’efficacia del progetto viene misurata sulla rapidità d’esecuzione in cantiere, attraverso la componente temporale del progetto, mentre nell’era della comunicazione la componente caratterizzante l’efficacia del progetto diviene la comunicazione del processo edilizio. Vale a dire che l’efficacia del processo edilizio non è più identificata con la rapidità della risposta ad una domanda diffusa (case per chi non ha un tetto) ma è direttamente proporzionale alla condivisione dei contenuti del progetto (la condivisione del processo edilizio).
Guardare al processo edilizio come all’articolazione di questioni comprensibili, comunicabili e interpretabili dal più ampio numero possibile di portatori d’interesse vuol dire considerare che ogni intervento edilizio incide su un ecosistema che appartiene a tutti, e che su questo processo di trasformazione chiunque può porre delle domande o chiedere delle garanzie. Le voci relative ai costi e alla qualità del costruito rimangono pressoché invariate, se non per l’ampliamento del contesto di riferimento: l’edificio non viene più ‘misurato’ all’interno del suo perimetro ma in relazione con il contesto economico ed ambientale.
Questa terza parte dello schema proposto dal CIB deve oggi essere letta in modo dinamico, circolare, facendo dei tre temi chiave del contesto globale i motori di un di miglioramento continuo del processo edilizio, che parte dall’ideazione del progetto e prosegue oltre il fine vita (la demolizione) dell’edificio. Grazie al movimento da un vertice all’altro del triangolo il processo che parte dall’ideazione del progetto ne amplia le prospettive: equità sociale, vincoli economici e qualità ambientale divengono i temi per l’analisi di ogni progetto, rifiutando gli estremismi che confinano il lavoro del progettista in uno solo dei vertici.
Questo moto produrrà la prossima onda e caratterizzerà, oltre che la domanda di sostenibilità del costruito, anche il mercato edilizio (già ne si trova riscontro in alcuni mercati e in alcune delle richieste contenute nei bandi di progetto e nelle gare d’appalto). Il riferimento alla componente economica di tale ‘moto ondoso’ non è casuale ma è registrato nei documenti Cresme per il contesto italiano e dall’andamento dello S&P/Case-Shiller Home Price Indices per il panorama americano.3Lo Standard & Poor’s Case–Shiller Home Price Indices registra i prezzi di vendita delle case in America raccogliendo dati su 10 o su 20 aree metropolitane tra le più popolose. Portata, ampiezza e forza di quello che può essere un accadimento o uno sconvolgimento nella storia economica delle attività produttive non sono oggi del tutto note mentre appaiono visibili segnali di orientamento tecnologico e su ipotetici scenari per concretizzare i quali oggi abbiamo solo prototipi, ed è al fine di costruire questi nuovi scenari per il processo edilizio e per l’individuazione di tecnologie innovative vale la pena di accettare la sfida della prefigurazione della prossima onda che, ipotizzo, possa essere tesa all’organizzazione della circolarità del processo e su un più stretto legame tra progettazione architettonica, produzione e ciclo edilizio. La nuova onda porrà al centro dell’attenzione proprio il processo edilizio, con ricadute anche su altri comparti produttivi che oggi hanno poco nulla a che fare con il settore delle costruzioni.
Cowboy o astronauti
Un nuovo termine è emerso per descrivere l’epoca che stiamo vivendo: Antropocene, termine utilizzato per la prima volta da Eugene Stoermer: un biologo che, nei primi anni ’80, studiando le alghe nei laghi del nord America trovò chiare tracce dell’impatto delle attività umane sulla Terra. La parola Antropocene, per Stoermer, serviva a indicare un’epoca segnata dagli effetti dell’attrito tra i cicli produttivi dell’uomo e i cicli biologici del nostro pianeta. La componente culturale dell’Antropocene viene invece sottolineata dal lavoro congiunto di Stoermer e Paul Crutzen (2000), premio Nobel per la chimica: egli lesse il frutto dell’attrito tra mondo naturale e mondo della tecnica negli effetti macroscopici sulla formazione e la decomposizione dell’ozono in atmosfera. Dirk Sijmons, architetto del paesaggio, legge Crutzen e racconta (2013) che il mondo è cambiato molto negli ultimi secoli, tanto che “ci siamo persino lasciati alle spalle il buon vecchio Olocene e siamo entrati in una nuova era, nella quale l’umanità sta aggredendo la terra come una forza della natura. Egli la chiama l’era degli umani l’Antropocene”. L’Antropocene è inizialmente un concetto scientifico, poi un ragionamento culturale e, ancora successivamente (oggi) è giusto che diventi un messaggio provocatorio, per ricordare che abbiamo le capacità per modificare sostanzialmente il nostro ecosistema. “Le nuove tecnologie, combinate al numero di individui, ci hanno reso una forza della natura” (Gore, 2006).
Un’economia che estrae risorse ad un ritmo sempre più incalzante, senza tenere in considerazione l’ambiente in cui opera, non può continuare a svilupparsi all’infinito. Ma la soluzione ai danni ambientali che sono in corso non è l’inversione di tendenza, il ritorno del mito del ‘buon selvaggio’ in cui l’uomo, animale buono e pacifico, è stato corrotto dalla società e dal progresso. La soluzione può essere trovata a partire dalla consapevolezza che i cicli delle attività umane devono essere ri-progettati per ridurne al minimo l’attrito con i cicli biologici.
Un modo per figurarsi la dimensione di tale attrito è provare a pensare a quanti edifici si costruiscono. All’inizio del diciannovesimo secolo il nostro pianeta contava un miliardo di esseri umani e oggi ne accoglie sette: questa esplosione demografica è stata accompagnata da un esodo di massa dalle campagne verso le città e se nel 1800 la popolazione urbanizzata era il 3 per cento di quella mondiale, nel 2000 è arrivata quasi al 50 per cento e dal 2007 è la maggioranza (McKinsey Institute, 2012).
Si prenda ad esempio la città di Lagos, in Nigeria: è la prima mega-city dell’Africa sub-sahariana, è la casa di 9 o 17 milioni di persone, a seconda di come si disegnano i confini del perimetro urbano. La popolazione di Lagos aumenta di 3.000 nuovi abitanti ogni giorno e ne fa, in assoluto, la città che cresce più velocemente al mondo. Stimando nuclei familiari di 6 persone si deduce un’esigenza abitativa di 500 nuovi alloggi al giorno (circa 200.000 alloggi all’anno) che vanno ad aggravare una pregressa emergenza abitativa che in Nigeria è stimata per 17 milioni di unità abitative (dati del 2013). Questo è solo uno dei possibili esempi per descrivere una questione più ampia, che fa di Lagos solo una delle parti che compongono un nuovo sistema urbano: il mondo sta organizzando gli insediamenti umani in mega-città e in meta-città, grandemente estese e fortemente connesse.4Dati e riflessioni sul tema sono contenuti nel report State of the World’s Cities che descrive come le città del futuro non saranno singole entità politiche ma si espanderanno oltre i confini geografici di regioni e nazioni. Altri riferimenti sono contenuti nel blog VOD – Value of Differences gestito dal prof. Longhi al sito www.vodblogsite.org che contiene anche un testo esplicativo del termine ‘Antropocene’ [maggio 2014].
Ibadan-Lagos-Accra, Bangkok, Hong Kong-Shenzhen-Guangzhou, Mumbai-Delhi sono solo alcune delle realtà urbane in forte trasformazione e in tutte è presente una comunità ‘abusiva’ in espansione, in cui risiede un’ampia porzione della popolazione (e dell’economia) della città. Le comunità abusive e le baraccopoli sono ora la casa di 800 milioni di persone, con un tasso di crescita previsto di 16.000 nuove unità ogni giorno. è l’immagine di un pianeta andato in tilt? Quale sarà la qualità della vita in questi insediamenti ad alta densità e dalle infrastrutture scarse? Come sarà possibile gestire le risorse materiali, definire lo sviluppo o il rispetto per l’ambiente naturale?
Alla luce della definizione di ‘Antropocene’ non è facilmente accettabile che l’unica soluzione di tale tendenza sia l’applicazione della teoria del buon selvaggio precedentemente citata. Il futuro sarà determinato in funzione di quanto seriamente questi enormi agglomerati urbani prenderanno in considerazione la democrazia, che forse avrà nuove definizioni, sempre più ampie e in linea con quanto descritto nella terza parte dello schema dell’Agenda 21 del CIB.
Le descrizioni dei nuovi insediamenti urbani illustrano una confusione incontenibile, una rete di dare-avere iper-imprenditoriale, una frenesia incessante di parole e commercio che diviene colla, che tiene assieme la città. Le descrizioni della narrativa africana5a rivista Granta 92: The View from Africa e i libri di Binyavanga Wainaina, in particolare Un giorno scriverò di questo posto, edito in lingua italiana da 66thand2nd, 2013.nd, 2013. sono sconcertanti, esilaranti, terrificanti ma raccontano sempre di cose molto umane. E, se Lagos è l’embrione delle meta-città del futuro, se queste non devono diventare cancerose e metastatiche, è necessario progettare nuovi processi, anche nuovi processi edilizi, che abbiano al centro l’uomo, nella sua definizione più ampia.
Per ampliare la definizione delle responsabilità dell’uomo (in relazione ai processi che lo eleggono il protagonista dell’Antropocene) è utile la parabola che, nel 1960, venne illustrata dall’economista Kenneth Boulding: il cowboy e l’astronauta spiegano le conseguenze dell’attrito tra tecnica e natura. Il cowboy si sposta a cavallo verso il West e non si interessa di quanto suolo calpesta, di quanto mangia e di quanti rifiuti lascia dietro di se perché sa che non tornerà più in quei luoghi. Invece l’astronauta può disporre solo di una quantità limitata di input e l’astronave ha una limitata capacità di trasportare rifiuti, perché è un ‘sistema chiuso’ che deve rimanere in equilibrio affinché il viaggio possa continuare (Boulding, 1968).
Boulding sostiene che la misura correntemente adottata per definire il successo di una società (il PIL) deriva dall’obiettivo di massimizzazione del consumo, che è compatibile con l’economia del cowboy ma non con l’economia della nave spaziale. Le grandi città sottolineano i problemi dell’approvvigionamento di risorse ma mostrano anche che l’economia ‘informale’ (e l’edilizia informale), quella non censita e difficile da misurare, creerà molti nuovi posti di lavoro del futuro, non conteggiati nelle statistiche ufficiali sull’occupazione. Secondo le stime de The Organisation for Economic Co-operation and Development il numero di persone che vivono ‘informalmente’ crescerà sino a costituire i due terzi della forza lavoro mondiale entro il 2020. Questo nuovo mondo urbano sarà dominato da imponenti mercatini fai-da-te e quartieri auto-costruiti e dovrà fondare la propria democrazia in considerazione dell’attrito tra tecnica e natura, in un sistema chiuso (McKinsey Institute, 2011).
In riferimento e discutendo la logica del ‘sistema chiuso’, tra gli anni settanta e ottanta, Howard ed Eugene Odum svilupparono un ragionamento per contabilizzare ogni attività, umana e naturale, in un unico sistema o, meglio, in un unico eco-sistema nel quale interagiscono forze di tipo ecologico, energetico ed economico (1995). Lo schema proposto dall’Agenda 21 del CIB ripropone queste componenti (ecologia, energia ed economia) arricchendole della questione culturale che non è esplicita nell’eco-sistema degli Odum (ma che ne consente la formulazione). I fratelli Odum elaborarono queste teorie perché convinti dell’esistenza di un attrito che inceppa il buon funzionamento dei cicli dell’ecosistema Terra, un errore che caratterizza l’Antropocene: diamo un alto valore all’ambiente naturale ma diamo un valore ridotto a ciò che la natura produce, soprattutto al confronto con il valore che diamo ai beni prodotti dall’uomo.
Per correggere questa errata stima del valore di prodotti, elementi e processi gli Odum introducono il concetto di eMergia (emergy, crasi della parola embodied con la parola energy): la quantità di energia solare utilizzata nel processo che genera ogni prodotto o servizio. Secondo Odum, scegliere cosa e come produrre considerando l’eMergia delle attività lavorative potrebbe portare alla riduzione degli attriti tra uomo e natura. Oggi il costo ambientale può contribuire alla definizione del valore dell’immobile, gli strumenti per contabilizzare questo valore sono diversi: l’eMergia, misurata in solar-Joule come nella formula proposta da Odum, la stima dell’impronta ecologica oppure l’embodied energy, secondo le indicazioni delle ISO 14000 (che riprendono molti delle considerazioni di Odum ma semplificano le operazioni di calcolo). Queste valutazioni, dedicate principalmente alla misurazione dell’efficienza delle produzioni industriali, si sono arricchite di analoghi ragionamenti frutto della comprensione dei danni legati alla concentrazione di CO2 in atmosfera. Si parla infatti di embodied carbon, che misura la quantità di anidride carbonica emessa nei processi6Qui di seguito la definizione che il database ICE fornisce per embodied energy ed embodied carbon: “The embodied energy (carbon) of a building material can be taken as the total primary energy consumed (carbon released) over its life cycle. The would normally include (at least) extraction, manufacturing and transportation. Ideally the boundaries would be set from the extraction of raw materials (inc. flues) until the end of the products lifetime (including energy from manufacturing, transport, energy to manufacture capital equipment, heating & lighting of factory, maintenance, disposal, … etc), known as ‘cradle to grave’. It has become common practice to specify the embodied energy as ‘cradle to gate’, which includes all energy (in primary form) until the product leaves the factory gate. The final boundary condition is ‘cradle to site’, which includes all of the energy consumed until the product has reached the point of use (i.e. building site).” ed imputabili ad ogni servizio o prodotto realizzato. L’embodied energy e l’embodied carbon servono a considerare gli input e gli output solitamente ‘esterni’ al sistema economico e sono strumenti utili a correggere la logica del cowboy, che pensa solo al bene commerciabile che (direttamente o indirettamente) deriva dalla natura e non considera il servizio che la natura ha reso nel produrre tale bene.
Questo ragionamento soggiace alla seconda legge della termodinamica che, in modo molto semplificato, può essere riassunta con la considerazione che certi processi si muovono in una sola direzione e non possono essere ripetuti (o riciclati) senza ‘costo’: è in atto un processo di aumento del disordine del sistema nel quale viviamo. Si consideri ad esempio che quando si producono dei pilastri o delle travi in acciaio dal minerale di ferro e carbone si ottiene un materiale ad un più elevato grado di ordine (a più bassa entropia) rispetto al minerale di ferro e carbone; ciò avviene a spese dell’energia e dei materiali disponibili ed è possibile perché la produzione avviene in un sistema aperto, in cui la legge dell’entropia non trova applicazione. Lo schema dell’ecosistema Terra elaborato da Odum mostra questo e sottolinea come il sistema Terra sia debitore del Sole per un’enorme frazione dell’energia che lo rifornisce: si tratta cioè di un’eco-sistema aperto. Al contrario Le nostre attività produttive dipendono in buona sostanza da fonti di energia fossile, limitate e difficilmente rinnovabili, quindi costituenti un sistema chiuso.
È la conversione di energia a permettere la lavorazione di materiali grezzi, il trasporto dei prodotti e il loro consumo. Per Mumford “Nulla potrà chiamarsi veramente ‘progresso’ […] finché non fornirà l’uomo più energia di quanta gliene sia indispensabile per sopravvivere finché quest’eccedenza di energie non si trasformerà in prodotti più duraturi, l’arte, scienza, la filosofia, libri, costruzioni, i simboli. Il primo passo […] è l’utilizzazione dell’energia solare e la trasformazione di questa in forme utili all’agricoltura e alla tecnica; termine ultimo dello stesso processo è la trasformazione dei prodotti intermedi e preparatori in forme umane di sussistenza e di cultura, che si trasmettono agli uomini di generazione in generazione” (1961).
Energia e materia
Il costo energetico per la produzione di un chilo di acciaio del tipo comunemente impiegato nel settore edile è stimato, in media, attorno ai 24,4 MJ; questa stima è fatta in considerazione del fatto che solitamente il 42,7% dell’acciaio di cui sono costituite le barre d’armatura ma anche le travi e le putrelle è acciaio di riciclo. Se il 100% dell’acciaio impiegato in edilizia provenisse da fonti ‘prime seconde’7Costituite da scarti di lavorazione oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio. e non dalle cave il valore della sua energia incorporata scenderebbe sino a 9,5 MJ. Il primato del costo energetico spetta invece all’acciaio inossidabile per produrre un chilo del quale sono necessari 56,7 MJ di energia. Questi valori sono dati medi di calcoli effettuati secondo un’analisi di processo come definita dagli standard internazionali ISO della serie 14000.
I dati disponibili in merito ai consumi energetici delle singole produzioni realizzate nell’area europea sono stati raccolti e organizzati in un foglio di calcolo dall’università di Bath. Questi dati sono disponibili gratuitamente e contribuiscono alla consapevole comprensione dei costi ambientali dei prodotti impiegati in edilizia. Non sono disponibili solo i costi in termini di input nella produzione (i MJ di energia necessaria per realizzare un chilo di materiale o prodotto) ma sono noti anche i costi in termini di output di emissioni nocive in atmosfera, misurati in chili di anidride carbonica per chilo di prodotto. Si potrebbe dunque sostenere che ogni chilo di acciaio in realtà pesa di più di un chilo: un chilo di acciaio comunemente impiegato in edilizia pesa 1kg + 1,77 kg di CO2, un chilo di acciaio riciclato al 100% aumenta il proprio peso solo di 0,43 kgCO2 mentre l’acciaio inossidabile ‘pesa’ sull’atmosfera più di sei volte ciò che comunemente si ritiene, con un’emissione di CO2 pari a 6,15 Kg.8I dati qui riportati sono estratti dal database ICE redatto dall’Università di Bath. http://www.circularecology.com/ice-database.html [aprile 2014].
La UNI EN ISO 14040 spiega come vada applicato l’approccio life cycle nell’analisi delle produzioni, anche edili. Viene chiamata Life Cycle Impact Assessment (LCIA) quella valutazione che, considerato il ciclo di vita di un prodotto (da costruzione), dalla cava alla sua dismissione, ne definisce una fase del ciclo di vita attraverso la descrizione di un confine coincidente con il sistema di produzione. Un confine che, al suo interno, può essere suddiviso in fasi più piccole, interconnesse e concorrenti alla realizzazione di un elemento (che prosegue il suo ciclo di vita attraverso le fasi d’uso) o di un prodotto (che viene avviato verso altri sistemi di produzione). Ogni unità di produzione, sia interna al sistema di produzione considerato o esterna (antecedente o successiva a questo), è caratterizzata da un flusso di input in entrata e di output in uscita, questi input ed output sono materiali, energia e prodotti. I dati utili alla certificazione dell’energia incorporata nei prodotti da costruzione seguono questo approccio e analizzano input ed output del sistema di produzione che, nel caso dell’acciaio, seguono il materiale ferroso dalla cava (from cradle) sino all’uscita dallo stabilimento di produzione (to gate) in forma di profilati, sagomati, bulloneria, minuteria, piatti o lamiere.
Il settore edile è un ambito complesso per l’applicazione delle valutazioni di embodied energy ed embodied carbon in quanto nessun altro processo produttivo coniuga tanto strettamente la produzione industriale (quella della catena di montaggio, from cradle to gate) con la componente artigianale, dalla quale non si può prescindere nell’esecuzione delle opere in cantiere (che siano di effettiva realizzazione in opera o di montaggio di componenti complessi pre-assemblati in fabbrica). Entrambe queste fasi (prima e durante il cantiere) contribuiscono ad aumentare il quantitativo di energia e di anidride carbonica, rispettivamente input ed output ‘nascosti’ nell’edificato. Inoltre anche il ciclo di vita, di qualunque edificio, è articolato e complesso perché segue le alterne vicende dell’utenza ma anche determina ed è influenzato da un sistema urbano e territoriale difficile da confinare all’interno di definizioni dal valore universale.
Queste difficoltà però non devono rallentare la ricerca di un processo edilizio in considerazione di un più ampio sistema (eco-sistema). Organizzazioni come la New Cities Foundation collegano le città per condividere conoscenze in merito alla sostenibilità, alla creazione di ricchezza, alla gestione delle infrastrutture, dei servizi igienico-sanitari, delle reti intelligenti e dell’assistenza sanitaria. Poiché la popolazione mondiale cresce le città diventano i nodi del nostro cervello globale; la gestione delle enormi quantità di energia, anidride carbonica e materiali indispensabili per costruire case per tutti deve essere uno dei pensieri che attraversano questi nodi, in un discorso condiviso e circolare, che collega astronavi-meta-città e risorse, con l’obiettivo della riduzione degli attriti e della generazione di presupposti per la crescita dell’efficienza del sistema.
In definitiva, la presa in conto dell’embodied energy all’interno dei criteri di definizione del valore (e dunque del prezzo) di un immobile punta all’obiettivo di innescare un miglioramento progressivo, ottenibile attraverso l’innalzamento del livello di qualità dei prodotti e la riduzione degli sfridi nel processo edilizio.
La circolarità del processo
“Credere che la problematica suscitata dalla macchina possa essere risolta solo inventando nuove macchine è […] indice di un pensiero immaturo e semplicistico che quasi sconfina nella disonestà” (Mumford, 1980). Analogamente il meccanismo di mercato non può proteggere il genere umano dalle crisi ecologiche del futuro: il costruito può essere considerato un capitale fisso, in quanto deposito fisico di materia ed energia9Su questo argomento si veda anche Barucco M. A. , Fabian L., Embodied energy du territoire et cartes énergétiques, in Énergie et Recyclage, 2014. Rapporto pre-finale, equipe coordinata da P. Viganò e composta da Università Iuav, Venezia (Paola Viganò, Bernardo Secchi, Lorenzo Fabian, Chiara Cavalieri, Maria Antonia Barucco, Emanuel Giannotti); Studio 012 (Bernardo Secchi et Paola Viganò, Marine Durand, Roberto Sega); Tribu Energie, Paris (Bernard Sesolis, Laure Jarrige, Rofia Lehtihet); SUPSI, Lugano (Davide Fornari); Università Ca’ Foscari, Venezia (Valentina Bonifacio); Programma interdisciplinare di ricerca Ignis Mutat ResPenser l’architecture, la ville et les paysages au prisme de l’énergie finanziato da Ministère de la Culture et de la Communication, Bureau de la Recherche Architecturale, Urbaine et Paysagère (Francia). e considerando che il riciclaggio completo è impossibile e d’altra parte che i materiali a basso costo sono disponibili in quantità decrescente, non rimane che la possibilità di lavorare alla minimizzazione degli sfridi nel ciclo di vita del costruito, alla riduzione degli attriti tra il ciclo della natura e il ciclo della tecnica. La verità, anche se spiacevole, è che al massimo si può impedire il consumo non necessario delle risorse e il deterioramento non necessario dell’ambiente, senza però pretendere di conoscere compiutamente il significato di ‘non necessario’ in questo contesto” (Georgescu-Roegen, 1982).
Lo schema ideale a cui tendere appare è il miglioramento degli scambi di materiali ed energia che avvengono nell’intero ciclo di vita dell’edilizio, sino a far coincidere il più possibile input ed output con quanto prodotto dall’ecosistema nel suo continuo ciclo di rigenerazione. Il ciclo edilizio è dunque da considerarsi come un ciclo aperto all’interno di un’altro, più grande, sistema termodinamico aperto solo per quanto riguarda lo scambio di energia. Considerando questo ciclo ideale, il bilancio dell’ecosistema può tendere all’equilibrio e, nella consapevolezza che sarà difficile raggiungere questo ideale, l’impegno dell’innovazione del processo edilizio deve tendere, attraverso cicli di miglioramento continuo (Ciribini, 1984), ad avvicinarsi al modello ideale attraverso aggiustamenti progressivi. In quest’ottica esiste la possibilità di impiegare energie e materie prime seconde10Le materie prime seconde (SRM, Secondary Raw Materials) sono costituite da scarti di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti. e distinguere tra ri-ciclo e sub-ciclo, in quanto solo attraverso il primo tipo di processo si hanno trasformazioni di materiali senza il degrado della qualità del materiale, mentre il sub-ciclo reimpiega materia dedicandola ad altre funzioni, con evidente dispersione di energia.
Tra i primi esperimenti di progettazione e costruzione della circolarità del processo edilizio (all’insegna del riciclo, non del sub-ciclo) vi è la Paper Tube Structure (PTS) di Shigeru Ban. Frutto di sperimentazioni giovanili11La PTS è stata utilizzata da Shigeru Ban per la prima volta nel 1986 per l’allestimento di una mostra di mobili e vetri progettati da Alvar Aalto, tre anni dopo usa lo stesso modello di strutture leggere in tubi di carta all’interno di una galleria d’esposizioni dedicata ad Emilio Ambaz: ciò che rendeva la PTS la soluzione preferita da Shigeru Ban era la possibilità di smontare la e ricostruire struttura rapidamente, per seguire l’itinerario delle esposizioni. e dello sviluppo dell’ideale di costruire un’architettura a impatto ambientale zero, con un ciclo di vita analogo a quello dei materiali con cui è costruita. Quando Shigeru Ban lavorò con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) la PTS si è trasformata da insieme di componenti per allestimenti museali in un sistema costruttivo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.
Il genocidio in Tanzania e Zimbabwe portò più di due milioni di persone a fuggire in Ruanda e, nel 2005, l’architetto progettò le prime tende d’emergenza in carta e plastica. Il progetto venne sviluppato negli anni successivi in collaborazione con l’azienda giapponese Sonoco, che spedì in Africa una macchina per la fabbricazione dei tubi di carta e che monitorò la progressione del progetto per quattro anni. Simili costruzioni per le emergenze sono state poi costruite in Giappone, Turchia e in India. La PTS è stata inoltre utilizzata per edifici religiosi, industriali, museali e d’esposizione, tra i quali il più conosciuto è il Japan Pavilion realizzato all’Expo di Hannover nel 2000. Questo spostalo nelle note Il Padiglione è un grande guscio a doppia curvatura di 25 x 75 m realizzato dall’intreccio di lunghi tubi di cartone rivestiti da una membrana traslucida di carta. Le fondazioni sono cassoni di legno riempiti di sabbia. La riduzione dei rifiuti è l’obiettivo alla base del progetto e riguarda l’intero ciclo di vita della struttura: i materiali sono originati da processi di riciclo e, alla fine del tempo d’utilizzo del padiglione, possono essere riciclati nuovamente per ottenere prodotti analoghi a quelli che sono stati messi in opera per l’Expo.
Nel 1991 Shigeru Ban ha realizzato la prima struttura permanente in PTS, la Library of a Poet (in Giappone). Grazie allo sviluppo del progetto, al preciso controllo della produzione industriale dei tubolari in cartone, alle analisi statiche e meccaniche del sistema e al monitoraggio della costruzione, gli standard Giapponesi hanno normato la PTS12Alla fine, nel 1993 i tubi di carta sono stati autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale utilizzabile anche per edifici permanenti, che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan. che dunque (in quel Paese) può essere considerata alla stregua di una qualunque altra tipologia costruttiva, in legno, acciaio, cemento o laterizio.13È il tema della durabilità del materiale ad aver creato i maggiori problemi alla produzione e commercializzazione dei tubi di carta come materiale da costruzione, soprattutto in relazione a tassi di umidità variabile. Posti all’esterno i tubi di carta durano circa 10 anni o più, tuttavia come molti altri materiali da costruzione i tubi vanno in qualche modo protetti dalle intemperie e manutenuti: come capita per le costruzioni in legno, nel caso una parte della struttura venisse danneggiata questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le parti nell’architettura con facilità. Da invenzione e sperimentazione tecnologica la PTS è diventata tecnologia normata.
Era lo stesso piano dell’Expo di Hannover a richiedere di progettare il ciclo di vita degli edifici in modo circolare. A tutti i progettisti coinvolti veniva fornito un testo programmatico: The Hannover Principles. Design for sustainability, una sorta di manuale dell’architetto scritto da William McDonough, già noto per aver pubblicato (con Michael Braungart) From cradle to cradle (2003) e per aver fondato la McDonough Braungart Design Chemistry, società di consulenza per il miglioramento dei processi produttivi (attraverso l’innovazione, la semplificazione della produzione, il progetto del fine vita e il monitoraggio del prodotto o del processo). Il testo programmatico pubblicato per l’Expo insiste perché venga progettata l’interdipendenza del processo edilizio con il mondo naturale attraverso l’eliminazione del concetto di rifiuto e sfruttando con consapevolezza le energie rinnovabili. In questo modo, attraverso il progetto, vengono giustificati e valorizzati i costi in termini ambientali ed economici e il valore dell’edificio può essere messo in relazione al suo costo nel breve e nel lungo termine.
Questo esempio mostra che identificare la ‘salvezza ecologica’ in uno stato stazionario (della tecnologia, dell’economia, …) è sbagliato. In un ambiente finito la crescita, lo stato di crescita zero ed anche la decrescita non possono esistere indefinitamente. Abbiamo a disposizione ‘fondi’ (materia, appartenente ad un sistema chiuso) e ‘flussi’ (energia, sistema aperto) e la tecnologia avrà un ruolo importante nel progetto dei prodotti in modo da lasciare il processo lineare dell’economia take–make–dispose (prendi, usa e getta), che spreca le grandi quantità di materiali di energia e di lavoro che sono incorporati nei prodotti. Si tratta però di non passare dal Buon Selvaggio all’Apprendista Stregone di Johann Wolfgang von Goethe: e in questo ci può aiutare la tecnologia.
Il progetto del processo tecnologico è funzionale alla definizione di un economia basata essenzialmente sul flusso di energia solare che “eliminerà anche il monopolio della generazione presente sulle future. Questo non accadrà completamente, perché anche un’economia del genere dovrà attingere al patrimonio terrestre, soprattutto per quanto riguarda i materiali: si tratta di rendere minore possibile il consumo di risorse critiche” (Georgescu-Roegen, 1982). In questo modo però la definizione di sviluppo sostenibile si amplia e ci porta a chiederci cosa possiamo fare per le generazioni future o, meglio, per consentire a tutte le parti della natura di soddisfare i propri bisogni, ora e in futuro. Nel progetto di un processo circolare, l’obiettivo per tutto ciò che è realizzato con materiali durevoli (come i metalli e la maggior parte delle plastiche) deve essere quello del riuso e della riqualificazione per l’adattamento a nuove possibili applicazioni, per il maggior numero possibile di cicli di vita.
Questo approccio contrasta nettamente con la mentalità incorporata nella maggior parte delle produzioni industrializzate di oggi. Anche la terminologia delle filiere produttive (catena di valore, catena di approvvigionamento, utente finale – value chain, supply chain, end user) esprime una visione ‘usa e getta’, di tipo lineare. Il progetto di un processo circolare invece mira a sradicare i rifiuti non solo dai processi di produzione (gestione snella, lean management) ma in modo sistematico, nel corso dei cicli di vita e degli usi dei prodotti e dei loro componenti. La terza era dell’energia (Toffler, 1987), in linea con i principi dell’ecocompatibilità, considera le esternalità che ricadono su tutti gli uomini e sull’ecosistema Terra ciò perché si usano ancora energie esauribili e mentre si ricercano energie rinnovabili ampiamente disponibili.
Un processo tecnologico fondato sulla circolarità della materia ricostruisce o rigenera attraverso l’invenzione e il progetto. Sostituisce il concetto di fine vita con quello di ricostruzione, si sposta verso l’impiego dell’energia rinnovabile, non impiega prodotti chimici tossici che danneggiano il ciclo di riuso e reinserimento dei prodotti nella biosfera, e tende all’eliminazione dei rifiuti attraverso un attento progetto iniziale dei materiali, prodotti, sistemi e modelli economici. Pochi semplici principi guidano questo tipo di processo. Prima di tutto, un concetto fondamentale, il tentativo di progettare i rifiuti. I rifiuti non esistono: i prodotti sono progettati e migliorati per un ciclo di vita che prevede il disassemblaggio e il riuso. Questo stretto legame tra il ciclo dei prodotti e il ciclo dei componenti definisce il processo circolare e lo distingue dal processo che include la discarica o prevede i consueti processi di riciclo che, in realtà, si è visto, sono processi di sub-ciclo: in queste lavorazioni (discarica e sub-ciclo) vengono infatti perdute quantità consistenti di energia incorporata e lavoro. In secondo luogo, la circolarità del processo introduce una netta differenziazione tra componenti consumabili e componenti durevoli di un prodotto. A differenza di ciò che accade oggi, i componenti consumabili coinvolti in un processo circolare devono essere in buona parte realizzati con ingredienti di origine naturale, anche detti ‘nutrienti’, non tossici e, qualora possibile, con benefici per la biosfera nella quale verranno rilasciati a fine uso o dopo una sequenza di successivi impieghi.
A loro volta I beni dalla lunga durata, come possono essere i prodotti dell’ingegneria realizzati con ‘nutrienti tecnici’ sono inadeguati per il reinserimento nella biosfera. Questi vanno sono progettati sin dall’inizio per il riuso e i prodotti soggetti ad un rapido avanzamento tecnologico vanno sono progettati per il miglioramento (non per la sostituzione). Come terza questione si pone l’energia necessaria per alimentare il ciclo che deve provenire da fonti rinnovabili e naturali, per ridurre la dipendenza della risorse esauribili e migliorare la resilienza dei sistemi. Infine, nel processo circolare, la figura del consumatore dei ‘nutrienti tecnici’ viene sostituita con quella dell’utente. Questo richiede un nuovo tipo di ‘contratto’ tra chi offre un prodotto e chi lo utilizza, un tipo di rapporto basato sulle prestazioni del prodotto. A dispetto dell’attuale economia fondata su meccanismi del tipo ‘acquista e consuma’ i prodotti durevoli sono affittati, noleggiati e, qualora possibile, condivisi. Se vengono venduti la transazione è accompagnata da incentivi o accordi volti alla restituzione del prodotto, del componente o del materiale alla fine del periodo di impiego.
Attualmente i casi di progetto di processo circolare sono solitamente sviluppati prevalentemente da grandi firme (come Nike, Renault, Philips, …), questo perché è difficile progettare sistemi che siano economicamente praticabili e che offrano garanzia di un’alta trasparenza. I casi virtuosi di imprese che hanno fatto dell’economia circolare e dell’approccio cradle to cradle la base per il loro business offrono dati sufficienti alle prime stime: per le industrie europee, la Fondazione Ellen McArthur stima tra i 172 e i 275 miliardi di euro di risparmio considerando uno scenario di transizione verso il progetto del processo circolare e tra i 285 e i 457 miliardi di euro in uno scenario più avanzato (2012).
Il progetto di processi circolari è rintracciabile anche nel settore dei materiali da costruzione e dell’arredo. Lo scambio delle informazioni tra chi progetta ed attua processi circolari è agevolato dalla piattaforma europea Cradle 2 Cradle Network (C2CN) e la visibilità di chi offre prodotti coerenti con queste teorie è promossa attraverso la certificazione volontaria Cradle to Cradle.
Il principio del processo circolare è già applicato anche a livello di edificio. Nel suo Sustainability Report (pubblicato nel 2012) l’impresa di costruzioni giapponese Sekisui House Group mostra i primi risultati di quello che viene presentato come il nuovo sistema industriale orientato al riciclo degli edifici e alla realizzazione di abitazioni attraverso un più efficiente utilizzo delle risorse. L’impresa, a fronte dello sviluppo di un più complesso quadro di esigenze da parte degli utenti del costruito, attua la progettazione del processo edilizio distinguendo il ciclo dei ‘nutrimenti naturali’ e quello dei ‘nutrienti tecnici’ inserendovi non solo le nuove costruzioni ma anche gli interventi di riqualificazione. Un esempio ne è la gestione dei rifiuti di cantiere: questi vengono suddivisi in 27 categorie differenti e la chain of custody dei sacchi di rifiuti viene seguita attraverso un sistema computerizzato che consente, raggiunto il centro di riciclaggio,14Questo viene chiamato Resource Management Center, sostituendo anche nella terminologia l’idea di rifiuto con quella di risorsa. di suddividere ulteriormente i materiali in 80 categorie, la maggior parte delle quali viene reinserita in un processo produttivo per la realizzazione di materiali da costruzione. Questi processi di produzione di nuovi materiali edili non prevedono l’impiego di prodotti chimici tossici ma, preferibilmente, sfruttano ‘nutrimenti naturali’ o scarti di altre lavorazioni di come, ad esempio i gusci delle uova impiegate nel settore alimentare. Una scelta che, oltre a recuperare alcune lavorazioni dell’edilizia storica, introduce un’innovazione nel progetto del processo edilizio, innovazione che è stata riconosciuta attraverso certificazioni internazionali e premi da parte del governo giapponese.
Le innovazioni sono possibili non solo alla scala del prodotto, ma anche a quella dell’edificio. Sekisui, attraverso una campagna di acquisizioni immobiliari, è in grado di offrire in affitto o in vendita immobili certificati sostenibili, dalle alte prestazioni energetiche e inseriti in un processo ciclico. Se si desidera cambiare casa è possibile vendere la propria a Sekisui e sceglierne una nuova all’interno del parco abitazioni già inserito nel processo ciclico, questa opzione consente agli utenti dell’abitazione un margine di convenienza superiore nella vendita e un costo del nuovo immobile non differente dal costo medio di mercato, in quanto l’impresa gestisce i propri margini di guadagno anche attraverso il progetto del processo edilizio ciclico della ristrutturazione. L’utente inoltre ha la garanzia del ridotto costo di funzionamento dell’edificio (risparmio energetico) e anche di mantenimento, in quanto le abitazioni Sekisui inserite nel processo ciclico sono sottoposte a interventi di ispezioni e manutenzioni programmate, distribuite su un lungo arco temporale (manutenzione garantita per 20 anni, termine prorogabile sino a 60 anni).
Ideologia
“Forse il destino dell’uomo è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante piuttosto che un’esistenza lunga, monotona e vegetativa. Siano le altre specie – le amebe, per esempio – che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare la Terra ancora immersa in un oceano di luce solare” (Georgescu-Roegen, 1982). A partire da questa definizione parlare di processo circolare è fare ideologia,15Ideologia nel senso originario del termine, l’analisi delle idee che, prescindendo dallo studio dell’anima, si basa sull’analisi del sistema nervoso; ideologia che, a prescindere dal sensazionalismo allarmistico della crisi ambientale, cerca di sviluppare l’analisi del sistema produttivo. Ideologia nel senso marxista del termine, come credenza filosofica, religiosa e morale caratterizzante la nostra epoca, nella quale la difesa della natura è contemporaneamente comportamento e giustificazione di un interesse. Ideologia nel senso sociologico del termine, cioè l’insieme di opinioni e supposizioni che orientano un gruppo sociale, in espansione sulle reti della comunicazione. attività peraltro non disprezzabile ma che viene spesso come liquidata come cosa da sognatori… Al contrario il processo circolare può essere una praticabile ideologia nella misura in cui costituisce un nuovo orizzonte per la tecnica, oggi spesso asservita unicamente allo sviluppo economico, quello sviluppo che consente di sognare un’esistenza sempre più felice per la specie umana.16In tale contesto la tecnica è “l’applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria” (Severino, 2010) grazie alla quale, se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio. Il nuovo sogno può essere invece così riassunto: la salvaguardia della terra anziché l’incremento del capitale. Si rovescia la logica secondo la quale la tecnica è al servizio del capitale e si mette il capitale al servizio di questa, in quanto la questione non è utilizzare meno e ancora meno materiali e risorse (decrescita) o produrre di più (crescita) ma progettare un processo, un ciclo, che funzioni. Affrontare la progettazione del processo circolare significa assumere la consapevolezza che non è condivisibile l’auspicio di una crescita o una decrescita indefinita e una lineare gestione economico-politica della tecnica. Fondamentale per fare ciò è il ruolo della condivisione, della comunicazione e dell’approccio dialettico (Sen, 2010): economia ed ecologia trovano nuovi schemi di interrelazione (Loikkanen, 2011) e la tecnica lascia spazio alla tecnologia, in cui la tecnica non è sorda al pensiero umano (filosofico, sociologico, …) ma è tecnologia e fa dell’argomentazione di pensiero (logos) la componente fondamentale dell’arte e del mestiere fatti con e sulla rete delle comunicazioni.
Originariamente pubblicato in:
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Il Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio sviluppa annualmente un Rapporto Congiunturale e Previsionale che monitora l’andamento dei diversi mercati delle costruzioni, offrendo dati per analizzare gli aspetti produttivi e di mercato, gli assetti e le trasformazioni territoriali oltre alle tematiche amministrative degli organismi pubblici.
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CIB è l’acronimo del nome francese Conseil International du Bâtiment, nel 1998 questo nome fu cambiato in International Council for Research and Innovation in Building and Construction. Il CIB è un’associazione fondata nel 1953 allo scopo di stimolare e facilitare la cooperazione e lo scambio internazionale delle informazioni tra istituti di ricerca governativi operanti nel settore dell’edilizia, in particolare si rivolse agli istituti impegnati nella ricerca dell’innovazione tecnologica.
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Lo Standard & Poor’s Case–Shiller Home Price Indices registra i prezzi di vendita delle case in America raccogliendo dati su 10 o su 20 aree metropolitane tra le più popolose.
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Dati e riflessioni sul tema sono contenuti nel report State of the World’s Cities che descrive come le città del futuro non saranno singole entità politiche ma si espanderanno oltre i confini geografici di regioni e nazioni. Altri riferimenti sono contenuti nel blog VOD – Value of Differences gestito dal prof. Longhi al sito www.vodblogsite.org che contiene anche un testo esplicativo del termine ‘Antropocene’ [maggio 2014].
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a rivista Granta 92: The View from Africa e i libri di Binyavanga Wainaina, in particolare Un giorno scriverò di questo posto, edito in lingua italiana da 66thand2nd, 2013.nd, 2013.
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Qui di seguito la definizione che il database ICE fornisce per embodied energy ed embodied carbon: “The embodied energy (carbon) of a building material can be taken as the total primary energy consumed (carbon released) over its life cycle. The would normally include (at least) extraction, manufacturing and transportation. Ideally the boundaries would be set from the extraction of raw materials (inc. flues) until the end of the products lifetime (including energy from manufacturing, transport, energy to manufacture capital equipment, heating & lighting of factory, maintenance, disposal, … etc), known as ‘cradle to grave’. It has become common practice to specify the embodied energy as ‘cradle to gate’, which includes all energy (in primary form) until the product leaves the factory gate. The final boundary condition is ‘cradle to site’, which includes all of the energy consumed until the product has reached the point of use (i.e. building site).”
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Costituite da scarti di lavorazione oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio.
Su questo argomento si veda anche Barucco M. A. , Fabian L., Embodied energy du territoire et cartes énergétiques, in Énergie et Recyclage, 2014. Rapporto pre-finale, equipe coordinata da P. Viganò e composta da Università Iuav, Venezia (Paola Viganò, Bernardo Secchi, Lorenzo Fabian, Chiara Cavalieri, Maria Antonia Barucco, Emanuel Giannotti); Studio 012 (Bernardo Secchi et Paola Viganò, Marine Durand, Roberto Sega); Tribu Energie, Paris (Bernard Sesolis, Laure Jarrige, Rofia Lehtihet); SUPSI, Lugano (Davide Fornari); Università Ca’ Foscari, Venezia (Valentina Bonifacio); Programma interdisciplinare di ricerca Ignis Mutat ResPenser l’architecture, la ville et les paysages au prisme de l’énergie finanziato da Ministère de la Culture et de la Communication, Bureau de la Recherche Architecturale, Urbaine et Paysagère (Francia).
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Le materie prime seconde (SRM, Secondary Raw Materials) sono costituite da scarti di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti.
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La PTS è stata utilizzata da Shigeru Ban per la prima volta nel 1986 per l’allestimento di una mostra di mobili e vetri progettati da Alvar Aalto, tre anni dopo usa lo stesso modello di strutture leggere in tubi di carta all’interno di una galleria d’esposizioni dedicata ad Emilio Ambaz: ciò che rendeva la PTS la soluzione preferita da Shigeru Ban era la possibilità di smontare la e ricostruire struttura rapidamente, per seguire l’itinerario delle esposizioni.
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Alla fine, nel 1993 i tubi di carta sono stati autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale utilizzabile anche per edifici permanenti, che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan.
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È il tema della durabilità del materiale ad aver creato i maggiori problemi alla produzione e commercializzazione dei tubi di carta come materiale da costruzione, soprattutto in relazione a tassi di umidità variabile. Posti all’esterno i tubi di carta durano circa 10 anni o più, tuttavia come molti altri materiali da costruzione i tubi vanno in qualche modo protetti dalle intemperie e manutenuti: come capita per le costruzioni in legno, nel caso una parte della struttura venisse danneggiata questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le parti nell’architettura con facilità.
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Questo viene chiamato Resource Management Center, sostituendo anche nella terminologia l’idea di rifiuto con quella di risorsa.
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Ideologia nel senso originario del termine, l’analisi delle idee che, prescindendo dallo studio dell’anima, si basa sull’analisi del sistema nervoso; ideologia che, a prescindere dal sensazionalismo allarmistico della crisi ambientale, cerca di sviluppare l’analisi del sistema produttivo. Ideologia nel senso marxista del termine, come credenza filosofica, religiosa e morale caratterizzante la nostra epoca, nella quale la difesa della natura è contemporaneamente comportamento e giustificazione di un interesse. Ideologia nel senso sociologico del termine, cioè l’insieme di opinioni e supposizioni che orientano un gruppo sociale, in espansione sulle reti della comunicazione.
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In tale contesto la tecnica è “l’applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria” (Severino, 2010) grazie alla quale, se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio.