Materiali

Innovazione di prodotto, innovazione di processo e innovazione organizzativa. La rilettura del business nelle aziende più piccole

Di Antonella Grana

Cosa significa innovare? Per innovare è necessario rompere completamente con il passato oppure, più semplicemente, si parte dal passato per ri-vedere, ri-interpretare, ri-creare? E comunque, qualcuno troverà giovamento da questa innovazione oppure è una innovazione fine a se stessa?

Proviamo ad andare con ordine e partiamo da una nostra tipica PMI con un forte orientamento al prodotto. Situazione tipica: “Abbiamo la necessità di vendere di più, magari all’estero, dove ci hanno detto che il Made in Italy è richiestissimo. Perciò abbiamo pensato di innovare la nostra gamma di prodotti perché così ci differenziamo dalla concorrenza, e se arriviamo per primi nel mercato estero riusciamo a vendere perché non abbiamo concorrenti”. Può sembrare uno scherzo ma non lo è.

1. “All’estero”. Cosa si intende per estero? San Marino, un qualsiasi stato dell’Africa o dell’Estremo Oriente, gli Stati Uniti? Il target “estero” non significa nulla se il paese non è identificato, e questo può fare una differenza enorme.

2. “Il Made in Italy”, che non significa semplicemente “prodotto in Italia”: Made in Italy è sinonimo di qualità nella progettazione, di design, di raffinatezza, di eccellenza che “all’estero” possono avere bisogno di un supporto in loco e di un servizio post vendita altrettanto eccellente. Si è pensato a tutto questo?

3. “Innovare la gamma dei prodotti”. Per venderli “all’estero“. Ma “a chi”? In altre parole, si sono definiti chiaramente il target di clienti a cui ci rivolgiamo?

4. “Arriviamo prima della concorrenza”. La concorrenza è identificata o si riferisce a chiunque venda un prodotto simile?

Da un simile scenario si evince una banalità. Se qualcuno, il cliente, non ha interesse ad acquistare il prodotto, per innovativo che esso sia non vale la pena innovarlo. Pertanto l’innovazione avrà senso, sarà spendibile e avrà un ritorno economico solo se risponderà ai bisogni espressi o inespressi dei clienti.

Agli occhi della nostra PMI, questi ragionamenti si legano al piano dell’innovazione di prodotto. In effetti, forse non sarebbe stato necessario innovare il prodotto ma piuttosto innovare il processo di produzione di quel prodotto specifico per permetterci di ri-vederlo e ri-interpretarlo.

Paradossalmente risulta più difficile parlare di innovazione di processo che di innovazione di prodotto. Nell’articolo Ceramica Made in Umbria si pone in stretta relazione la tradizione produttiva umbra con il panorama delle tecnologie attuali. Nel distretto della Ceramica di Nove (VI) all’interno di una azienda che partecipa a un progetto della Regione Veneto si sta portando avanti un percorso simile. Il processo produttivo è stato snellito e reso più rapido dalle tecnologie delle stampanti 3D con il risultato di avere dei prodotti tradizionali ma rivisti nel design, con dei costi e dei tempi di produzione più bassi. L’innovazione è partita non dal produrre qualcosa di nuovo, ma dal produrre in modo diverso qualcosa che c’era già.

La componente artistica nella lavorazione della ceramica è molto presente, e continuerà a esserlo; tuttavia la stampa 3D in argilla permette di sperimentare forme non convenzionali e di innovare il processo di produzione rendendo il ciclo più snello e con un minore impatto ambientale. Soprattutto si possono realizzare librerie virtuali di modelli a cui attingere per personalizzare e rispondere just in time alle esigenze dei clienti.

Tutto questo non è però sufficiente se a fianco dell’innovazione di processo non vi è anche una rilettura del processo organizzativo dell’azienda nel suo complesso. La rilettura del processo organizzativo non può avvenire senza una visione chiara degli obiettivi da raggiungere e la loro conseguente pianificazione. Se partiamo dal caso concreto della ceramica gli obiettivi potrebbero essere declinati in questo modo:

– ridurre il costo, e soprattutto i tempi, di produzione e prototipazione con le nuove tecnologie;

– ridotto il costo di produzione, capire come applicare questo risultato a nuovi concept di prodotto;

– immettere i prodotti rivisitati nel mercato.

Ciò, naturalmente, a condizione che si abbia già ben chiaro il target di riferimento, e si possieda la struttura necessaria per raggiungerlo, perché nella foga di rilettura del prodotto molto spesso ci si dimentica del mercato, come si è ben visto nel progetto della “Ceramica Made in Umbria”:

“Tuttavia, nonostante l’interesse suscitato dal progetto in ambito sia nazionale che internazionale, è venuta a mancare la creazione di una struttura commerciale in grado di gestire tale richiesta a livello di brand unitario. Per suo stesso statuto la Regione non può assumere ruoli e fini commerciali, per cui ad assolvere questo compito avrebbero dovuto essere le aziende, cooperando nella messa a punto delle strategie di produzione, promozione e distribuzione dell’intera collezione. Purtroppo, anziché una propensione al lavoro in squadra, le aziende coinvolte nel progetto hanno dato prova di una certa tendenza all’individualismo che ha inibito in partenza la possibilità di agire entro una dimensione che fosse effettivamente di rete. L’aggregazione, come sottolineano le direttive emanate a tal riguardo dall’Unione Europea, è l’unica opzione che queste aziende hanno oggi per rilanciare la propria produzione all’interno del mercato globale: un’opzione che il sistema dell’imprenditoria umbra sembra non essere ancora pienamente maturo ad accogliere.” 1Si veda http://www.progettorecycle.net/ceramica-made-in-umbria/

Il problema fondamentale per le aziende italiane di dimensioni più piccole non è solo nella rilettura del prodotto ma nella rilettura del proprio modello di business. L’atteggiamento tipico che si riscontra è l’atteggiamento di chi lavora in conto terzi. Più che disponibile a farsi in quattro quando arriva una grossa commessa da un cliente importante, e invece di un immobilismo pericoloso, quasi timore, quando si tratta di muoversi verso il mercato con prodotti propri. Pertanto, oltre a obiettivi relativi al prodotto e al processo produttivo, è di vitale importanza chiarire anche i propri obiettivi di strategia aziendale. A livello generale potrebbero essere riassunti in queste aree:

– creazione o riposizionamento del brand per soddisfare al meglio i target esistenti e individuare nuovi target, generando un aumento di profitto;

– aggregarsi con aziende simili per gestire una strategia commerciale comune;

– darsi un obiettivo di TEMPO.

Il passo successivo sarà quello di pianificare una strategia chiara per raggiungere gli obiettivi prefissati nell’arco di tempo stabilito. Molto semplicemente, una strategia implica sapere dove si vuole andare e decidere il modo migliore per arrivarci. Il “dove” l’abbiamo stabilito (rilettura del brand/nuova strategia commerciale), resta da capire il come. La prima fase imprescindibile è la conoscenza del mercato di riferimento e dei clienti che costituiranno il target di partenza. Nel caso il target non sia già stato ben identificato, è necessario procedere alla sua identificazione il prima possibile! È incredibile quante aziende non conoscano i bisogni e i desideri dei loro clienti.

La seconda fase è relativa all’analisi interna dell’azienda, per fotografare la situazione attuale e capire se vi siano dei gap che potrebbero precludere il raggiungimento degli obiettivi, e per rilevare e saper valutare le competenze già presenti e saperle coordinare al meglio. Se a livello commerciale non vi sono competenze presenti, occorre coinvolgere un temporary manager che gestisca la parte commerciale in coordinamento con le figure apicali dell’azienda.

Tutto ciò può comunque non essere sufficiente per un’azienda di piccole dimensioni. Per raggiungere i mercati desiderati e poter crescere potrebbe essere conveniente aggregarsi con altre aziende in un raggruppamento, che può assumere varie forme purché strutturate con un piano strategico condiviso tra le aziende partecipanti e il relativo personale. È importante inoltre ricordare che un raggruppamento di aziende è da considerare in tutto e per tutto come una nuova azienda. Le forme per aggreagrsi sono più di una. Ecco un semplice schema delle più usate e delle differenze:

tipologie-aggregazione

Per i mercati internazionali le forme aggregative sono ancora più importanti che per il mercato italiano. Il famoso Made in Italy, usato e abusato come brand riconoscibile di eccellenza, deve essere supportato da servizi accessori pre e post vendita, che non possono essere erogati dalla singola azienda, se di piccole dimensioni, ma piuttosto da un raggruppamento di aziende. In ogni caso è da tenere ben presente che la singola azienda nei mercati esteri (resta intesa la necessità di identificare i singoli mercati) ha maggiori difficoltà a negoziare accordi con intermediari in loco.

Le opportunità per rinnovarsi e crescere sono molte, anche per le aziende più piccole, è importante saperle cogliere e sfruttarle nel modo giusto, condividendo le informazioni, facendo squadra dentro e fuori l’azienda, iniziando anche a utilizzare gli strumenti di finanza agevolata o gli strumenti che favoriscono le aggregazioni di imprese, come ad esempio il contratto di rete.

Un solo e singolo aspetto rimane però imprescindibile: conoscere e saper valutare i punti di forza della propria azienda e, a partire da quelli, saper ri-creare e, se vogliamo, ri-ciclare, idee e prodotti già esistenti, attuando un modello di business più competitivo, incline alle rilettura del proprio passato come strategia per guardare al futuro.

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Innovazione di prodotto e di processo nelle aziende della ceramica

Di Giorgio Gaino

Appare evidente che, a seguito della violenta crisi economico/finanziaria degli ultimi anni, alcuni parametri di valutazione di aspetti legati alla produzione industriale debbano essere riconsiderati sulla base di una serie di aspetti:

1. la crisi (peraltro ancora senza un nome) ha portato a fenomeni di delocalizzazione della produzione;

2. la crisi ha portato ad una diversa realtà di produzione dei beni industriali;

3. l’evoluzione delle tecnologie produttive sta portando a nuovi modelli di produzione.

Soprattutto questo ultimo aspetto va considerato nell’ottica del disegno industriale: le metodologie progettuali consolidate, scalfite e mutate in seguito all’introduzione dell’informatica, sono ora fortemente sollecitate da nuovi approcci innovativi, che mettono in dubbio le basi della produzione industriale di massa consolidate da decenni.

Non è più pensabile una produzione di massa concentrata in grandi stabilimenti, in ampi spazi produttivi, con tirature di milioni di pezzi, per due motivi fondamentali:

1. la velocità di invecchiamento dei prodotti “bruciati” da logiche non legate a funzionalità, ad un rapporto di forma funzione, ma connesse a valutazioni più simili ad aspetti effimeri legati a mode/a passeggere;

2. l’impossibilità di prevedere gli effettivi volumi di produzione e di valutarne i relativi ammortamenti di attrezzature per la realizzazione dei progetti.

È in quest’ottica, velocemente falsata, che un materiale millenario quale la ceramica, legato all’evoluzione stessa del prodotto industriale – valga per tutti, quale esempio, la Wedgewood con alcuni pezzi in produzione dal 1777 tutt’oggi invariati – può trovare nuove applicazioni se associato alle nuove tecnologie informatiche, come la stampa 3D, unendo tradizione e innovazione.

Ceramiche Maroso,1http://www.ceramichemaroso.com/it/home.php azienda con una quarantennale storia alle spalle, inserita in un tessuto produttivo con tradizione millenaria legata alla ceramica, dal 2008 ha intrapreso una nuova strada nella produzione e nell’approccio alla produzione di oggetti in ceramica.

È importante collocare l’azienda geograficamente e temporalmente: siamo in provincia di Vicenza, a Nove, città famosa fin dal settecento produzione della ceramica artistica; la crisi ha segnato fortemente le aziende della zona, molte hanno chiuso, altre, è il caso, fra le altre, di Ceramiche Maroso, hanno cercato nell’innovazione di prodotto, nel design, nell’innovazione di processo una possibile ricollocazione.

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Nella produzione della ceramica si possono evidenziare due tipologie principali: l’oggetto con funzione e l’oggetto decorativo; alla prima tipologia appartengono, ad esempio tutte le funzioni legate al cibo, ma non si dimentichi l’ampio uso del passato quale isolante elettrico; alla seconda, gli oggetti decorativi, siano essi i vasi da arredo, o, purtroppo, peraltro, i galli decorati, per citare un esempio.

A tutto ciò si può aggiungere, e si deve aggiungere, negli ultimi anni un nuovo filone che possiamo definire della ceramica tecnica, in cui il materiale viene associato o inserito insieme ad altri materiali in oggetti di varie tipologie merceologiche, dove risulta necessaria una stabilità dimensionale e tolleranze costruttive che i produttori di oggetti tradizionali in ceramica raramente hanno considerato, trattandosi quasi esclusivamente di oggetti mono-materiale, con nessun rapporto con altre componenti.

Ecco che ora troviamo ceramica in oggetti quali le cappe da cucina, associata/sostenuta da elementi metallici, in lampade, in rivestimenti di stufe, in amplificatori acustici, sempre in contesti in cui il materiale ceramico porta ad un aumento considerevole del valore del manufatto nel suo insieme.

La sfida e al tempo stesso l’obiettivo del percorso di innovazione del prodotto ceramico intrapreso da Ceramiche Maroso, nell’ambito del progetto finanziato dalla Comunità Europea tramite la Regione Veneto, è quello di cogliere l’occasione data dalle nuove tecnologie, di portare il materiale ceramico verso nuove metodologie produttive, in cui non vi sia più il vincolo dato da uno stampo, invariato da millenni, peraltro; nuove sperimentazioni formali, nuovi concetti possono ora essere portati in un settore tradizionalmente legato a metodi produttivi fortemente radicati in cui le aziende legato al solo oggetto decorativo sono in estrema difficoltà a causa della radicalizzazione del mercato, in senso di prezzo al cliente e in senso di razionalizzazione del criterio di scelta, orientato all’uso.

Il settore della ceramica è stato poco “frequentato” dal design; pochi pezzi di altissimo costo per alcuni designer di fama, spesso con la sola funzione decorativa, poche le riflessioni sul materiale, sulle sue specifiche caratteristiche, le potenzialità inesplorate, le interconnessioni con altri materiali.

Ciò che si sta sperimentando, nel progetto citato, è proprio un diverso approccio al materiale ceramico, in cui si ponga una grande attenzione ad una caratteristica poco considerata, ossia il basso impatto ambientale, aspetto particolarmente importante nell’ottica delle normative future sul disassemblaggio dei prodotti industriali.

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Riassumendo il progetto vuole portare ad una rilettura delle peculiarità del materiale puntando su:

– bassi investimenti per gli stampi e quindi rapidità di modifiche del design degli oggetti;

_ possibilità formali inesplorate in funzione delle nuove tecnologie di stampa 3D direttamente in argilla per tirature limitate o per modifiche immediate, pezzo per pezzo;

– l’utilizzo di nuove tecnologie di modellazione digitale, gestendo le superfici con strumenti di valutazione propri di altri settori del disegno industriale per poter verificare immediatamente il prodotto;

– sviluppare il settore dell’illuminazione portando il valore aggiunto di un materiale tradizionale con enormi capacità espressive;

– associazione di altri materiali per ottenere particolari effetti materici e di luce

Più nel dettaglio l’utilizzo di software avanzati di modellazione digitale sta portando a ridurre notevolmente i tempi di sviluppo dei nuovi prodotti, passando dal modello 3D al modello, che sia esso realizzato con la tecnologia additiva della stampa 3D o con una tecnologia sottrattiva, in un breve lasso di tempo, soprattutto potendo verificare ogni aspetto della progettazione e della interconnessione tra i vari materiali.

Software di valutazione delle superfici permettono una precisa verifica dell’effetto finale, permettendo un approccio completamente diverso al processo produttivo tradizionale, tipico delle aziende del settore; risulta evidente come la precisione del passaggio dal CAS (Computer Aided Styling) al CAM (Computer Aided Manufacturing) possa aprire nuovi scenari per la ceramica.

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Tuttavia non bisogna scendere verso la realizzazione di oggetti stampati in 3D, precedentemente non realizzabili, con l’unico scopo di stupire: l’oggetto realizzato a tal scopo ha vita breve, l’attimo di uno sguardo; è la complessità dell’espressione progettuale, della forma, del significato della sperimentazione del design che va ricercata nella rilettura del processo progettuale e produttivo, e, mi sia concesso, anche nel diverso approccio necessario nell’ultimo passaggio, peraltro fondamentale, ossia la vendita del prodotto. La comunicazione del prodotto, del processo che ne ha portato all’evoluzione e alla realizzazione deve divenire parte integrante dell’intero percorso, solo in questo modo si valorizza la tradizione, il design, l’azienda e la sua storia, il Made in Italy.

Negli ultimi anni Ceramiche Maroso, in collaborazione con uno studio di design, ha già sperimentato il processo produttivo che porta ad un perfetto controllo dimensionale dei prodotti, consapevole che questo approccio sia concettualmente valido per poter dialogare con altri partner nella realizzazione di prodotti multimaterici: solo a fronte di una stabilità dimensionale l’industria può pensare di utilizzare la ceramica, solo con tolleranze ben definite e controllabili.

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Fondamentale è stata l’esperienza pluridecennale, i milioni di pezzi prodotti e il dialogo tra progettisti e azienda che, da sempre, fin dal Werkbund tedesco, è alla base del successo del prodotto industriale: solo in presenza di un progetto ben definito, che comprende ogni aspetto della produzione si può pensare di aver ottimizzato l’intero processo produttivo.

Il settore dell’illuminazione è stato, da sempre molto attivo, vivo e ricco di proposte, soprattutto in ambiti legati alla residenza, tipologia di prodotto da sempre molto attenta all’uso dei materiali; è in quest’ottica che l’azienda sta sviluppando una gamma di prodotti che interpretano il materiale in funzione della diffusione luminosa, sperimentando effetti ottici e di luce. Come ogni cambio/salto tecnologico l’introduzione dell’illuminazione a LED comporta delle mutazioni nell’architettura stessa della gestione della luce, non ci si è ancora resi conto di quanto si possa innovare, di quanto si tratti di un oggetto il cui design può, ora, divenire estremamente libero, senza vincoli di ingombri obbligati.

E’ in questo settore che, sempre all’interno del progetto finanziato, si stanno sperimentando e realizzando prototipi con un approccio al design diverso, giocando con volumi ben definiti, geometrici e precisi unitamente a “segni” che portano i millenni della storia del materiale; segni che fanno parte della tradizione, della manualità, curve che trovano una loro armonia solo se poste vicino ad altre similari, fatte di rapporti stretti di una geometria organica e meno definita, che rende l’oggetto prodotto in serie comunque distinguibile e unico.

Sono questi gli aspetti fondamentali che si sta cercando di integrare nel progetto, soprattutto sfruttare con un vantaggio competitivo la possibilità offerta dalle nuove tecnologie di innovare i processi produttivi della ceramica dopo millenni: per la prima volta è possibile dare forme precedentemente impossibili agli oggetti, aumentando le possibilità espressive del materiale, senza perderne le caratteristiche di tradizione, di valore aggiunto e di piacere materico che da sempre ne deriva.

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Cuoio, pelle sintetica e materiali compositi. Caratteristiche, degrado e conservazione

Di Valentina Perzolla, Chris Carr, Stephen Westland
Questo articolo rappresenta un’introduzione allo studio specialistico di materiali compositi che, per varie ragioni illustrate nel testo, potrebbero entrare presto a far parte di collezioni museali.
Nella prima parte vengono descritte alcune caratteristiche e proprietà (chimiche e fisiche) del cuoio conciato al cromo, mentre nella seconda parte si presentano le pelli sintetiche. Entrambi i materiali risultano indispensabili per comprendere a pieno i compositi di natura collagenosa, i quali sono costituiti da fibre di collagene e rivestiti con materiale polimerico. Tali compositi sono studiati per replicare l’aspetto e le proprietà del cuoio oltre che per ragioni ambientali. La terza parte, infine, espone le ragioni dello studio dei materiali innovativi con finalità sia conservative che industriali. L’articolo si chiude sottolineando l’importanza della conservazione preventiva e come la parziale comunanza di interessi dei due ambiti, quello della conservazione e quello dell’industria, possa costituire un punto di partenza essenziale per introdurre nuove pratiche conservative.

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Esempi di varie tipologie di pelli sottoposte a differenti metodi di concia e finitura

Introduzione

La lavorazione delle pelli animali è considerata da alcuni studiosi come il primo esempio di manifattura a opera dell’uomo (Forbes, 1957). Se è vero che questo processo ha iniziato a diffondersi già in tempi antichi, bisogna ricordare che i primi trattamenti non consistevano in veri e propri processi ci concia. Prima di arrivare a produrre un materiale complesso quale il cuoio sono stati necessari millenni di tentativi, errori, innovazioni e progressi tecnologici (Thomson, 2011). Nella seconda metà dell’800 è stata introdotta la pelle sintetica, caratterizzata da un supporto in tessuto e l’aggiunta di un rivestimento polimerico (Fung, 2002).

Da un decennio a questa parte è comparsa, accanto a pelli naturali e sintetiche, la pelle composita. Tale prodotto è caratterizzato dalla compresenza di fibre provenienti dalla lavorazione del cuoio, tessuti e sostanze polimeriche di rivestimento. Se da un lato la presenza di un rivestimento plastico può sminuire il fascino tipico della pelle, in questi compositi l’innovazione tecnologica si sposa con l’interesse per la sostenibilità ambientale.

Oggetti in pelle provenienti da diversi periodi storici sono facilmente individuabili all’interno di innumerevoli collezioni museali (Ravilio, 2010) e il numero di testimonianze culturali, storiche e artistiche in pelle sintetica è in continuo aumento. Per tale ragione entrambe le tipologie di prodotti hanno avuto modo di essere esaminate sotto il profilo scientifico-conservativo, valutando il degrado e i meccanismi che lo determinano oltre ai metodi per migliorarne la conservazione. I nuovi materiali che giungono sul mercato, al contrario, sono testati per misurare le loro performance ma non per la resistenza al degrado; questo determina una notevole quantità di incognite sia per il quotidiano impiego del materiale che per la sua vita in museo. Il percorso dei nuovi materiali compositi verso una riduzione dell’impatto ambientale dovrebbe essere accompagnato dalla volontà di studiare anticipatamente i meccanismi di degrado e le possibili soluzioni a eventuali futuri problemi. Un simile approccio sarebbe non solo in linea con le attuali tematiche della sostenibilità, ma anche con il percorso, già segnato da anni, della conservazione preventiva in ambito museale.

La pelle e la sua composizione

I termini pelle e cuoio, che in inglese vengono riassunti dal sostantivo leather, rientrano in una categoria di materiali realizzati a partire dalla pelle animale. A seconda del tipo di animale e dell’applicazione per cui si vuole utilizzare il supporto si possono avere prodotti molto diversi. Le caratteristiche sono strettamente legate ai processi che precedono la concia, al tipo di concia e alla qualità dei reagenti impiegati nelle varie fasi di produzione. Quindi, per comprendere il comportamento macroscopico del cuoio è indispensabile sia capirne la composizione chimica sia quali sono i fenomeni che, seppur avvenendo a livello microscopico, influenzano l’intera struttura.

In primo luogo, non si puo’ parlare di pelle e di cuoio senza citare il collagene, ossia la molecola principale che ne caratterizza la composizione. Nonostante esistano 28 tipi di collagene (Kadler, Baldock, Bella & Boot-Handford, 2007), quello più presente nella pelle è il tipo I. Essendo una proteina, il collagene è costituito da una serie di aminoacidi (definiti α o β a seconda della loro chiralità) uniti attraverso legami peptidici che si instaurano tra i gruppi amminico e carbossilico di due strutture aminoacidiche (vedi Figura 1).

Figura 1: Rappresentazione schematica della formazione di un legame peptidico
Figura 1: Rappresentazione schematica della formazione di un legame peptidico

Dal punto di vista chimico, la reazione è una condensazione e avviene per eliminazione di una molecola d’acqua; tale reazione è reversibile e dunque, in presenza di acqua e determinate sostanze che fungono da catalizzatori, la molecola può venire idrolizzata (Covington & Covington, 2009). Il processo di idrolisi ha un ruolo centrale durante l’intera lavorazione della pelle e anche in seguito, quando il prodotto è in uso ed è sottoposto all’azione del tempo e degli agenti deteriogeni.

L’organizzazione del collagene è molto elevata e comincia dalla ripetizione di triplette di aminoacidi: la glicina occupa generalmente la prima posizione e costituisce un terzo del totale degli aminoacidi, seguita da prolina e idrossiprolina. Si formano delle strutture chiamate α-eliche che, unendosi ancora a gruppi di tre, danno luogo alla tripla elica di protocollagene di dimensioni 300 x 1.5 nanometri (Covington & Covington, 2009). Le estremità delle triple eliche contengono una regione detta telopeptide che non ha la medesima struttura ad elica; tale zona è responsabile di legare una molecola di protocollagene a un’altra. Le diverse triple eliche iniziano poi a interagire e si formano delle fibrille nelle quali le triple eliche sono distanziate – in lunghezza – di 67 nanometri. Solo a questo punto si formano le vere e proprie fibre di collagene (Florian, 2011).

In questa struttura l’acqua si presenta in varie forme e con diverse funzioni: conferisce stabilità alle eliche facenti parte della molecola di collagene grazie alla formazione di forti legami; crea collegamenti inter- e intra-fibrillari; funge da solvente e quindi consente la circolazione degli agenti chimici durante i processi di lavorazione (Reich, 2005). Dal momento che ciascuna funzione dell’acqua è legata a un determinato livello strutturale del collagene, appare chiaro che anche l’eliminazione del composto assume un’importanza diversa e può causare problematiche differenti. Questo aspetto diventa centrale nel momento in cui si effettuano indagini sul degrado o i meccanismi di deterioramento.

Esaminando la pelle a un ingrandimento minore si possono fare ulteriori considerazioni. Osservando la struttura in sezione trasversale si identificano tre macroregioni: il grain, che costituisce la parte superiore della pelle e comprende le radici pilifere; il corium, subito sotto le radici ed esteso fino ai muscoli e tessuti grassi; e il flesh, la parte subito sotto la pelle che quindi forma la carne viva (Haines, 2011).

La pelle di ogni animale possiede uno spessore tipico di tale stratificazione e una distribuzione dei pori piliferi ben definita. Queste caratteristiche sono legate al tipo di animale e ad altri fattori quali l’ambiente di vita, alla sua dieta e all’età. Le diverse stratificazioni delle pelli influenzano le proprietà fisiche quali la flessibilità, la resistenza alla trazione e all’applicazione di pressioni e la compressibilità.

Processi di preparazione, concia e finitura

Sebbene la concia costituisca uno dei processi più noti che riguardano la lavorazione della pelle, di certo non è l’unico. In Figura 2 sono riportati i tipici trattamenti subiti dalla pelle dal momento in cui viene ottenuta come scarto dell’industria alimentare fino a quando non diviene un prodotto finito.

Figura 2: Processi di lavorazione della pelle e relativi prodotti intermedi
Figura 2: Processi di lavorazione della pelle e relativi prodotti intermedi

Esistono numerosi modi per conciare la pelle, ossia per effettuare trattamenti che la rendano non putrescibile e conferiscano alla struttura maggior stabilità idrotermica e resistenza al degrado (Beghetto, Matteoli, Scrivanti, Zancanaro & Pozza, 2013). Fino all’introduzione della concia al cromo nel 1884, il processo di produzione principale è stato la concia vegetale. Questo metodo si basava sull’immersione delle pelli, precedentemente preparate per rendere la struttura del collagene adeguatamente recettiva, in fosse contenenti acqua ed estratti di piante; le pelli venivano lasciate in questi bagni almeno per un anno, fino a quando non veniva raggiunto il colore desiderato e i capi potevano essere lavati, ulteriormente trattati e infine asciugati (Thomson, 2011). In genere la reazione che avviene tra tannini vegetali e collagene consiste nella formazione di legami come quello a idrogeno (Covington, 1997); tali legami garantiscono una discreta stabilità ma la loro resistenza è certamente inferiore a quella di altri legami.

La scoperta del processo di concia al cromo ha decisamente modificato la situazione per due ragioni principali: richiede meno tempo e l’efficienza del metodo è molto elevata. Non è un caso che, ancora oggi, tra l’80 e il 90 % delle pelli vengano conciate a cromo. Sebbene esistano ancora alcuni dubbi sull’esatto meccanismo di interazione tra cromo e collagene, la formazione di complessi di coordinazione e legami covalenti è data per assodata (Mann and McMillan, 2008). Uno dei principali miglioramenti che la concia al cromo introduce nella molecola di collagene riguarda la stabilità idrotermica, che costituisce uno dei parametri più utilizzati per testare la stabilità della pelle.

Pelli sintetiche

Nell’arco degli ultimi 150 anni sono comparsi sul mercato numerosi materiali artificiali che imitano quelli naturali. Inizialmente i sostituti artificiali vennero introdotti sul mercato per far fronte all’elevato costo delle pelli naturali che faceva anche aumentare il prezzo degli oggetti finiti da esse costituiti. Si iniziarono quindi a valutare dei metodi alternativi che consentissero all’industria di abbassare i costi e di rendere oggetti e capi di abbigliamento più facilmente accessibili a una quantità superiore di utenti. Varie tipologie di fibre (naturali e sintetiche) e tessuti iniziarono a essere utilizzate come supporto per i neo-introdotti polimeri che, grazie alla loro versatilità, si prestavano a questo genere di utilizzo. Attualmente le pelli sintetiche costituiscono un’ampia fetta del mercato legato ai rivestimenti da arredamento, alle imbottiture per sedili e all’abbigliamento (per esempio nell’ambito delle calzature).

I polimeri vengono utilizzati su molti tessuti, talvolta poco pregiati o costituiti da fibre poco tenacemente aderenti le une alle altre, in modo da aumentare il valore e ampliare le possibilità di impiego del prodotto finito. I processi di laminazione (lamination) e di rivestimento (coating) rappresentano le due categorie in cui si possono inscrivere le modalità di applicazione dei polimeri ai tessuti (Figura 3). La maggior differenza riscontrabile tra i tessuti laminati e quelli rivestiti è nella presenza o assenza di una sostanza con funzione di adesivo tra lo strato polimerico e il tessuto (Sen, 2008).

Figura 3: Rappresentazione schematica di un tipico tessuto laminato (a) e uno rivestito (b) in materiale polimerico
Figura 3: Rappresentazione schematica di un tipico tessuto laminato (a) e uno rivestito (b) in materiale polimerico

Va però detto che, proprio in virtù della grande varietà di tecniche disponibili, la distinzione tra i due processi è andata lentamente assottigliandosi. Questo genere di prodotti offre alcuni vantaggi rispetto alla pelle. Essendo un materiale prevalentemente sviluppato dall’uomo può essere modellato a seconda delle esigenze e del tipo di applicazione. Ciò significa che non è necessario adattare un substrato esistente a una specifica necessità, ma è invece possibile adoperarsi per creare un supporto su misura. Flessibilità e facilità di cucitura e lavorazione sono alcuni importanti aspetti tipici delle pelli sintetiche che influiscono sulla varietà di utilizzo (Fung, 2002). Altro vantaggio riguarda la gamma di colori disponibili, che è decisamente elevata per non dire virtualmente infinita.

Nonostante i vantaggi, la presenza di materiale polimerico e l’associazione con il termine finta pelle hanno determinato negli anni la sedimentazione di uno scetticismo diffuso nei confronti della pelle sintetica. Se da un lato bisogna riconoscere che l’origine del prodotto non è stata quella di un materiale pregiato, il livello di specializzazione oggi richiesto per la produzione di alcune tipologie è decisamente elevato.

Problematiche ambientali

È stato menzionato inizialmente che la lavorazione del cuoio rappresenta una delle più antiche industrie specializzate nella storia dell’essere umano. Se è vero che si è passati da metodi poco a molto efficienti e da condizioni di lavoro scarsamente a gradualmente dignitose, bisogna ammettere che i processi che conducono alla concia e la concia stessa (soprattutto quella al cromo) sono considerati altamente inquinanti. Per tale ragione il mondo delle concerie ha visto incrementare in maniera consistente in numero di restrizioni e regolamenti che ne governano l’attività, in particolar modo nell’area dell’Unione Europea. Questo ha determinato un deciso aumento delle esportazioni dei capi, nello stato wet blue, verso zone del pianeta meno interessate alle condizioni di lavoro degli operatori e alle tematiche ambientali. Il risultato è che solo un ristretto numero di concerie, rispetto a quelle presenti anche solo una quindicina di anni fa, è riuscito a sopravvivere e ad adeguarsi alle nuove norme (COTANCE and Industrial All, 2012).

I maggiori problemi associati ai processi di produzione della pelle sono l’impiego di prodotti chimici inquinanti e il trattamento delle acque impiegate durante la lavorazione (Mann & McMillan, 2008), i quali si vanno a unire alla quantità di inquinanti atmosferici derivanti non solo dai processi pre-concia ma anche da quelli di finitura. Inoltre, la quantità di collagene che esce dalle concerie sotto forma di pelle è circa il 50 % del totale, il che indica una notevole mole di scarto che deve trovare nuovo utilizzo o venire trasferita in discarica (Reich, 2005). Purtroppo la seconda opzione è quella che viene maggiormente messa in atto.

Studio del degrado con finalità conservative e industriali

In passato si è assistito innumerevoli volte all’introduzione di materiali innovativi in ambienti museali, soprattutto in seguito allo sviluppo delle plastiche. Questo è probabilmente imputabile a una serie di ragioni: la varietà di applicazioni e la versatilità che ciascun prodotto polimerico è capace di offrire; la curiosità di artisti e designer nei confronti dei nuovi prodotti sul mercato; la mancata consapevolezza della velocità con cui i processi di degrado possono avere luogo.

Partendo da queste considerazioni si può riflettere su come lo studio del degrado dei materiali in ambito conservativo possa risultare utile anche in quello industriale. Se negli ultimi vent’anni il numero di studi sui materiali plastici nelle collezioni museali sono aumentati notevolmente, creando un nuovo insieme di conoscenze nell’ambito del degrado della plastica (Shashoua, 2006; Lavédrine, Fournier & Martin, 2012; Waentig, 2008), rimane l’incognita dei materiali compositi e di tutti quei materiali che vengono introdotti sul mercato ignorando il loro futuro comportamento.

Partendo dagli aspetti positivi e dalle problematiche tipici delle pelli e dei sostituti sintetici, si possono ricavare informazioni importanti sulle proprietà e i comportamenti dei materiali compositi costituiti dagli stessi elementi. Questo approccio assume una duplice valenza: si propone come un metodo pionieristico di collaborazione tra la conservazione preventiva nel settore museale e l’indagine della stabilità dei prodotti condotta industrialmente; promuove l’attitudine alla ricerca della sostenibilità. Infatti, indagando anticipatamente i possibili meccanismi di degrado e i migliori metodi per prevenirlo, si promuovono non solo la prevenzione ma anche lo sviluppo di materiali più duraturi.

In conclusione, questo studio punta alla collaborazione tra l’industria e i musei sottolineando come tale approccio su ampia scala, favorirebbe lo sviluppo di un’etica comune che abbia come finalità il raggiungimento della sostenibilità.

Bibliografia

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Waentig, F. (2008). Plastics in Art. A study from the conservation point of view. Petersberg: Michael Imhof Verlag.

Editoriale

Di Giulia Ciliberto
In Farewell to Growth (2009), nel proporre una radicale revisione del sistema economico vigente in favore di un modello orientato alla decrescita di produzione e consumi, Serge Latouche annovera il riciclo fra i presupposti fondamentali per l’avvento di tale scenario, rimarcando la necessità di diffonderne e praticarne i principi a tutti i livelli della società. […]

In Farewell to Growth (2009), nel proporre una radicale revisione del sistema economico vigente in favore di un modello orientato alla decrescita di produzione e consumi, Serge Latouche annovera il riciclo fra i presupposti fondamentali per l’avvento di tale scenario, rimarcando la necessità di diffonderne e praticarne i principi a tutti i livelli della società. A questo proposito, lo studioso francese richiama il concetto filosofico di convivialità, che allude a un approccio democratico nell’acquisizione e trasmissione della conoscenza, per promuovere l’idea di una cultura del riciclo intesa come istanza collettiva e non come appannaggio di poche discontinue e sporadiche esperienze.

Questo, nel nostro piccolo, è anche l’obiettivo che ci prefiggiamo con Progetto Re-Cycle. Dopo un numero pilota dedicato al Veneto e alle molteplici azioni di riciclo attuabili in relazione al suo vasto patrimonio di risorse infrastrutturali dismesse, la rivista dà ufficialmente avvio alle proprie pubblicazioni presentandosi con una nuova selezione di articoli e un programma di intenti più preciso e ambizioso: quello di istituirsi come un osservatorio di ricerca sperimentale attorno alla tematica del riciclo, che sia il fulcro di una rete di persone, imprese e istituzioni propense a investire nel nostro progetto all’interno di una visione culturale ed economica di più ampia portata.

Per favorire un approccio quanto più possibile inclusivo e interdisciplinare nella divulgazione di ricerca sul tema del riciclo, negli scorsi mesi si è dato luogo alla formazione di un comitato scientifico costituito, oltre che da docenti e ricercatori universitari, anche da esponenti del panorama produttivo, manageriale e amministrativo. In parallelo, attraverso la messa a punto e la gestione del profilo Linkedin della rivista, stiamo cercando di consolidare e ampliare il network dei nostri contatti, comunicando a imprese e liberi professionisti l’opportunità di aderire al nostro progetto e interpretare il riciclo come occasione per congiungere cultura e business.

I contenuti di questo nuovo numero di Progetto Re-Cycle illustrano e argomentano in vari sensi come il riciclo, a partire dalla sua intrinseca natura di procedimento tecnico e produttivo, possa evolversi qualitativamente in un atteggiamento speculativo applicabile a più livelli. A sua volta, il criterio con cui gli articoli sono stati selezionati riflette la volontà di acquisire e interpretare il riciclo anche nel ruolo di elemento portante del progetto editoriale: in tal senso, alla pubblicazione di contributi originali e inediti fa riscontro la proposta di testi già pubblicati altrove, offrendo ai significati che essi racchiudono nuove occasioni di circolazione e visibilità.

Con questa nuova uscita di Progetto Re-Cycle intendiamo dunque porre le primissime basi su cui articolare e mettere in atto il manifesto delle idee in cui crediamo: il riciclo come strategia per estrarre nuovo valore da risorse materiali e immateriali preesistenti, ma anche come possibile veicolo per aggregare filiere produttive e culturali, organizzare repertori di saperi e competenze e, non da ultimo, individuare nuove modalità di leggere, scrivere e comunicare la realtà. Un approccio conviviale alla narrazione sul – e del – riciclo, secondo uno sguardo che osserva le potenzialità di ciò che già esiste con l’intento di rendere visibili i cambiamenti che possono avvenire.


Recycle. La sfida nel settore delle costruzioni

A cura dell’Osservatorio Recycle di Legambiente
Il contributo riproduce integralmente il primo rapporto pubblicato dall’osservatorio Recycle – La sfida nel settore delle costruzioni, organismo istituito nel 2015 da Legambiente con l’intento di approfondire e promuovere la ricerca attualmente in corso nel campo della lavorazione e dell’implementazione di materiali riciclati.

L’Italia ha la possibilità di aprire una nuova pagina nel settore delle costruzioni, che riguarda in particolare gli impatti che produce nei territori. Ridurre il prelievo di materiali e l’impatto delle cave nei confronti del paesaggio è una questione importante nel nostro Paese, perché sono tante le ferite gravissime ancora aperte nei territori. Oggi è possibile dare risposta a questi problemi: lo dimostrano i tanti Paesi dove ormai da anni si sta riducendo la quantità di materiali estratti con una forte spinta al riutilizzo di rifiuti aggregati e inerti provenienti dal recupero, oltre che con regole di tutela del paesaggio e gestione delle attività. In Italia esistono oggi circa 2.500 cave da inerti, e almeno altre 15.000 abbandonate, di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia. Cambiare questa situazione, aprendo un filone di green economy che produca ricerca, innovazione e posti di lavoro, è nell’interesse del sistema delle imprese e dell’ambiente.

L’obiettivo dell’Osservatorio Recycle, promosso da Legambiente, è di raccontare e approfondire l’innovazione già in corso nel settore della produzione di aggregati riciclati. Un processo che oggi è spinto anche dalla Direttiva 2008/98/CE che prevede che nel 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione. Un punto va sottolineato con attenzione: oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici per non utilizzare materiali provenienti da riciclo nelle costruzioni. Le esperienze raccontate in questo Rapporto descrivono cantieri e capitolati dove queste innovazioni sono già state portate avanti. E dimostrano come, se si fa riferimento a norme codificate basate sulle prestazioni, i materiali da riciclo e recupero di aggregati risultino assolutamente competitivi sul piano sia tecnico che economico.

Dov’è il problema?

Se in teoria oggi non esistono impedimenti tecnici o motivazioni di natura normativa che ne impedirebbero l’utilizzo, in realtà la diffusione di materiali provenienti dal recupero ha di fronte forti ostacoli in Italia.

Il primo problema riguarda i cantieri dei lavori pubblici e privati, dove spesso i capitolati sono una barriera insormontabile per gli aggregati riciclati. In molti capitolati è previsto l’obbligo di utilizzo di alcune categorie di materiali e di fatto ne è impedita l’applicazione per quelli provenienti dal riciclo. Per fare chiarezza su questa situazione, nel Rapporto sono descritti alcuni esempi pratici che dimostrano l’efficacia degli aggregati riciclati e degli asfalti derivati dal riutilizzo di pneumatici usati. Tra i lavori stradali e quelli edilizi è chiaro come ormai si possa intervenire con l’utilizzo di questi materiali in situazioni molto diverse fra loro (dal Palaghiaccio di Torino al nuovo Molo del Porto di La Spezia, dal Passante di Mestre all’Aeroporto di Malpensa). La Provincia di Trento è uno dei migliori esempi in Italia vista la pubblicazione di un capitolato tecnico per l’uso dei riciclati nei lavori di manutenzione pubblica, con le schede prodotto e l’elenco prezzi, destinato proprio a promuovere tra gli addetti ai lavori questo tipo di materiali. Per cambiare questa prospettiva serve che le stazioni appaltanti, pubbliche e private, e a tutti i livelli cambino i propri capitolati per impedire queste discriminazioni. In questa direzione vanno le proposte che abbiamo presentato con il capitolato speciale d’appalto Recycle, elaborato da Legambiente in collaborazione con Atecap, Eco.Men ed Ecopneus, che si pone l’obiettivo di stimolare le stazioni appaltanti a intraprendere la strada già fissata dall’Europa. L’obiettivo è di contribuire attraverso questo strumento a “calarsi” nei diversi capitolati esistenti (sono centinaia, e impossibili da sostituire con un capitolato unico) per introdurre i corretti e aggiornati riferimenti normativi che permettono di superare le barriere e le discriminazioni oggi esistenti. I capitolati rappresentano uno snodo fondamentale per fare chiarezza in particolare nell’utilizzo, nelle garanzie e nelle prestazioni degli aggregati riciclati e superare quella diffidenza da parte dei direttori dei lavori legata alla paura delle responsabilità amministrative e penali derivanti da un eventuale uso improprio dei materiali.

Il secondo problema riguarda lo scenario che la Direttiva 2008/98/CE dovrebbe aprire nel nostro Paese. Perché questo processo vada avanti servono infatti riferimenti chiari per accompagnare la crescita nell’uso dei materiali fino al target del 70% previsto al 2020. La Direttiva indica con chiarezza la necessità di accompagnare attraverso specifici provvedimenti questi processi e sono previsti decreti attuativi dallo stesso Decreto Legislativo 205/2010 che l’ha recepita nel nostro ordinamento. L’articolo 11 della Direttiva prevede che si adottino “criteri in materia di appalti” per favorire il riutilizzo. Il DL di recepimento prevede che questi criteri siano definiti attraverso Decreti Attuativi approvati dai Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico (Art. 6 del Dlgs 205/2010). Inoltre la Direttiva prevede all’articolo 29 che gli Stati possano stabilire dei propri traguardi intermedi, proprio per monitorare lo sviluppo della situazione al 2020.

Il rischio che non dobbiamo correre è che l’applicazione di questa direttiva risulti un’occasione sprecata, come avvenuto con l’applicazione del DM 203/2003 che già prevedeva per le società a prevalente capitale pubblico di coprire con il 30% del fabbisogno di manufatti e beni attraverso materiali riciclati. Come raccontano le risposte avute da alcune grandi stazioni appaltanti che si trova in fondo a questo rapporto, è diffusa la non applicazione di questi obiettivi per mancanza di corrette informazioni sui prodotti riciclati, per pigrizia o per interessi stratificati nel tempo intorno alla gestione dei materiali di cava e alla gestione di cantieri dove si fa largo uso di acqua, prodotti petroliferi. Per questo serve che il Governo intervenga per dare forza a questo percorso di cambiamento.

I vantaggi che questo tipo di prospettiva aprirebbe sono infatti rilevanti. In primo luogo in termini di lavoro e attività imprenditoriali, perché le esperienze europee dimostrano che aumentano sia l’occupazione che il numero delle imprese attraverso la nascita di filiere specializzate. In secondo luogo, nella riduzione del prelievo da cava. Perché arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che permetterebbero di chiudere almeno 100 cave di sabbia e ghiaia per un anno. Infine, da un punto di vista della riduzione di emissioni di gas serra. Perché aumentando la quantità di pneumatici fuori uso recuperati e utilizzati fino a raddoppiarla al 2020, diventerebbe possibile riasfaltare 26.000 km di strade. Il risparmio energetico ottenuto, considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio, sarebbe di oltre 400.000 MWh. Ossia il consumo in più di due anni di una città come Reggio Emilia, con un taglio alle emissioni di CO2 pari a 225.000 tonnellate.

Le scelte per spingere la green economy nel settore delle costruzioni

1. Cambiare i capitolati fissando obiettivi prestazionali.

Da Anas alle concessionarie autostradali, da RFI a Terna, fino alle stazioni appaltanti comunali, occorre che siano rivisti tutti i capitolati che ancora fissano barriere per l’utilizzo di materiali riciclati. I capitolati rappresentano infatti uno snodo fondamentale per fare chiarezza nell’utilizzo, nelle garanzie e nelle prestazioni degli aggregati riciclati e per superare la diffidenza da parte dei direttori dei lavori legata alla paura delle responsabilità amministrative e penali derivanti da un eventuale uso improprio dei materiali.

La responsabilità è in capo alle Stazioni appaltanti ma anche ai Ministeri delle Infrastrutture e dell’Ambiente perché siano introdotti quei chiarimenti previsti dalle Direttive europee.

2. Attuare la Direttiva Europea introducendo obblighi crescenti di utilizzo di aggregati riciclati

I Ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture devono dare seguito a quanto previsto dalle Direttive europee, in termini di chiarimenti normativi e di obblighi crescenti nei capitolati di utilizzo degli aggregati/materiali di recupero minimo e crescente fino al 70% già previsto al 2020. In questo modo si possono costruire le condizioni per raggiungere gli obiettivi europei prefissati. Questo obiettivo deve interessare non solamente gli Enti pubblici e le società a prevalente capitale pubblico, come previsto attualmente per il solo 30% dei materiali, dal Decreto Ministero dell’Ambiente 203/2003, ma tutte le opere senza distinzione. Inoltre nei bandi di gara si deve prevedere che a parità di altre condizioni debba preferirsi l’offerta che proponga la più alta percentuale di impiego dei materiali riciclati o comunque non di origine naturale.

A dimostrare come questo cambiamento sia possibile, lo dimostra l’esempio della Provincia di Trento. La Legge Provinciale n. 10 del 2004 ha introdotto l’obbligatorietà di acquistare prodotti in materiale riciclato per almeno il 30% del fabbisogno. I requisiti ambientali chiesti alle imprese sono stati poi definiti dalle norme tecniche e ambientali per gli aggregati riciclati (D.G.P. 1333/2011) ed hanno interessato tutte le fasi (programmazione e progettazione, realizzazione e manutenzione) con la stessa Provincia di Trento che in qualità di soggetto acquirente dà ormai costantemente il suo contributo allo sviluppo del mercato degli aggregati riciclati.

Il cambiamento di cui abbiamo bisogno è infatti innanzi tutto culturale, riguarda progettisti, imprese, enti pubblici. Per questo ha bisogno di una chiara visione del futuro, come quello disegnato dall’Europa, e poi di una attenta azione di informazione e di formazione, oltre che di riferimenti operativi in grado di fornire indicazioni chiare e precise sulle caratteristiche che i materiali di recupero devono avere per essere utilizzati nell’ambito delle costruzioni. In tale contesto ben si inserisce l’esempio che la Regione Veneto ha dato con propria deliberazione n. 1060 del 24/06/2014; delibera che, per ogni materiale recuperato ai sensi del D.M. 5/2/98 ed utilizzabile nel settore delle costruzioni, ha definito per ogni possibile impiego previsto dal DM tutti i puntuali riferimenti normativi UNI-EN applicabili.

Abbiamo davvero la possibilità di far crescere una moderna filiera delle costruzioni in cui siano le stesse imprese edili a gestire il processo di demolizione selettiva degli inerti provenienti dalle costruzioni in modo da riciclarli invece che conferirli in discarica. Governo e Regioni devono aiutare questo processo con leggi che obblighino a utilizzare una quota di inerti provenienti dal recupero in tutti gli appalti pubblici. Le quantità più rilevanti di materiali estratti ogni anno in Italia sono utilizzate per l’edilizia e le infrastrutture, oltre il 62,5% di quanto viene cavato sono inerti, principalmente ghiaia e sabbia. Serve una spinta rapida se si considera che ogni anno vengono prodotte quasi 40 milioni di tonnellate di rifiuti inerti e che la capacità di recupero sfiora a mala pena il 10%, anche se con differenze significative tra Regione e Regione. L’Italia, attraverso queste scelte, può recuperare il ritardo nei confronti degli altri Stati europei che già da tempo hanno introdotto politiche di riciclo che coinvolgono questa particolare categoria di rifiuti: l’Olanda con il 90% dei materiali recuperati è la nazione più virtuosa, seguita da Belgio (87%) e Germania (86,3%). Esistono tra l’altro esempi importanti e positivi anche nel nostro Paese come dimostra ciò che avviene in Veneto, dove si producono in media oltre 5.500.000 di tonnellate all’anno di rifiuti da C&D, di cui più dell’ 80% vengono avviati a recupero e utilizzato anche in infrastrutture stradali.

Le buone pratiche

1. Asfalti in Val Venosta (BZ)

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In Italia, in 27 Province ci sono già circa 250 km di strade con asfalti con gomma riciclata, una tecnologia che ha il suo punto di forza nel dimezzamento del rumore del traffico al quale vanno aggiunte una vita media tre volte superiore agli asfalti “tradizionali” e la maggiore resistenza a crepe e fessurazioni, con una minore necessità di interventi di manutenzione. Questo si traduce in meno cantieri per la città e meno costi per la Pubblica Amministrazione, avendo al contempo una pavimentazione di ottimo livello e ambientalmente sostenibile. In particolare sono particolarmente positivi i risultati del monitoraggio effettuato sul tratto stradale in Val Venosta, tra Coldrano e Vezzano, realizzato con asfalti modificati con gomma riciclata da Pneumatici Fuori Uso (PFU). L’asfalto prodotto con polverino di gomma è risultato in grado di ridurre il rumore causato dal rotolamento degli pneumatici fino a 5 db. La riduzione del rumore rende inoltre questi asfalti una valida alternativa all’utilizzo delle barriere acustiche su strade ad alta percorrenza. Anche il rapporto tra i costi di realizzazione e manutenzione delle barriere sonore e la posa di asfalti “modificati” è favorevole a quest’ultima soluzione.

2. Circonvallazione di Venaria e Borgaro (TO)

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Anche in Provincia di Torino è stato sperimentato l’utilizzo del polverino di gomma per la realizzazione del manto stradale, in particolare per la pavimentazione della strada Borgaro – Venaria. Nell’ambito dei lavori per la realizzazione della circonvallazione di Venaria e Borgaro è stato asfaltato un tratto di 1.200 m con conglomerato bituminoso contenente polverino di gomma da pneumatici fuori uso. Si tratta della più grande opera pubblica che la Provincia di Torino abbia mai realizzato. La superficie coperta è di circa 16.000 m2. Per ricoprire con il conglomerato bituminoso 1 km di strada si utilizza (miscelandolo con altri materiali) il polverino proveniente dal riciclo della gomma di 2.000 pneumatici di autovetture (o di 1.400 pneumatici di autocarri).

3. Passante di Mestre (VE)

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Una delle infrastrutture più importanti realizzate dal recupero di rifiuti di lavorazioni industriali e di materiali da demolizione e costruzione è il Passante di Mestre. L’utilizzo di Econcrete ha garantito un risparmio di materiale naturale del 71%, una riduzione delle deformazioni del materiale sottoposto a sollecitazioni veicolari variabile dal 10 al 37%, un aumento della vita utile della strada pari a 88% e un sensibile abbattimento dei costi complessivi dell’opera. I dati che riguardano il Passante di Mestre parlano chiaro: il calcolo del volume del materiale da cava risparmiato è di circa 320.000 m3, corrispondente alla produzione annuale di una cava di medie dimensioni. Ad affiancarsi a questo già enorme beneficio ambientale ci sono i viaggi di camion per il trasporto del materiale che sono stati quindi evitati, circa 40.000, come se per un intero giorno non circolasse nel Passante di Mestre alcun mezzo e di conseguenza un deciso risparmio di emissioni di CO2 ottenuto dalla minor quantità di energia elettrica per l’estrazione e la lavorazione di materiale inerte, dal minor utilizzo di conglomerato bituminoso e dal minor numero di viaggi di trasporto effettuati, e che corrisponde a circa 11.400 tonnellate di CO2.

4. Variante di Canali (RE)

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Il progetto nasce con lo scopo di deviare parte del traffico dalla cintura urbana, verso l’imbocco della A1. A seguito di una prima stesura del progetto con criteri tradizionali, è stata realizzata una variante progettuale tesa a ridurre l’impatto ambientale non solo relativamente alla scelta del tracciato ed alla sua integrazione nel contesto, ma anche nella scelta di materiali e tecnologie che riducessero significativamente il ricorso a cave di prestito, legante a caldo e  tecnologie a freddo adottando modalità costruttive e processi operativi sostenibili. Si tratta della costruzione di un semi-anello di 3 km di sviluppo per una sezione trasversale media di 10,5 m per una superficie di 31.500 m2 in totale. Il progetto originale prevedeva conglomerati a caldo per uno spessore medio di 25 cm con una richiesta di inerti vergini per oltre 18mila tonnellate. Grazie alla variante di progetto il materiale vergine necessario è stato di 5.071 tonnellate, con un risparmio di oltre 13.000 tonnellate. La base bitumata è stata realizzata con inerti interamente di riciclo (fresato stradale) legati a freddo con emulsioni bituminose per riciclaggio alla temperatura di 60-70°C senza emissione di fumi e realizzazione in situ. Inoltre il risparmio energetico nella fase di realizzazione è stato quantificato in 40.839 kWh grazie alla variante adottata in termini di riduzione degli spessori, lavorazioni a freddo, minori trasporti. Di conseguenza anche la CO2 non emessa è stata notevole: 23.687 kg. A questi dati vanno aggiunti
quelli del risparmio
energetico e della CO2
 evitata grazie all’aumento della 
vita utile previsto, e valutati 
rispettivamente in 28.620 kWh e 16.600 kg
. A 6 anni dall’entrata in esercizio della pavimentazione non sono presenti deformazioni di sagoma, né interventi manutentivi di alcun tipo. Inoltre la minore emissione di rumore da rotolamento è quantificabile in 2 db rispetto ad una pavimentazione realizzata nello stesso periodo e presa a riferimento. Anche gli spazi di frenata necessari risultano inferiori di circa il 20% rispetto alla pavimentazione di riferimento.

5. Merano (BZ)

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A Merano sono stati realizzati numerosi lavori di riqualificazione della pavimentazione stradale esistente nell’ambito dei piani di risanamento acustico della Provincia per un totale di 30.000 metri quadrati. L’impatto della rumorosità da traffico sull’ambiente e le abitazioni circostanti era rilevante, ed in alcuni casi si sono rilevati livelli di incidenza del rumore superiori ai minimi di legge anche nelle ore notturne. L’intervento è stato scelto dalla Provincia di Bolzano, in alternativa alle previste barriere anti- rumore di 3 m di altezza rivelatesi troppo costose, impattanti sull’ambiente circostante e fonte di potenziale pericolosità considerata la presenza di incroci a raso sui quali avrebbero limitato la visibilità. Il costo delle barriere acustiche (per una vita utile prevista in 30 anni) era di 60 euro/anno mentre il costo della pavimentazione Asphalt Rubber di tipo GAP nei 30 anni presi a riferimento, considerato il rifacimento ogni 5 anni per garantire nel periodo in esame l’abbattimento del rumore generato dal traffico veicolare di almeno 3 db rispetto ad una pavimentazione tradizionale, è di 35 euro/anno. Si tratta di un risparmio di 125.000 euro. La pavimentazione allo stato attuale non presenta deformazioni né interventi manutentivi.

6. Autostrada dei Parchi (A24 Roma – Teramo)

Bilder f¸r Wikipedia

Nel caso della A24 i lavori hanno previsto una pavimentazione sperimentale per testare le prestazioni fisico-meccaniche, di emissione di rumore da rotolamento generato dal traffico e la riduzione degli spazi di frenata, in ambito autostradale. La superficie complessiva interessata è stata di 47mila metri quadrati con un conglomerato di tipo OPEN (semi drenante e fonoassorbente). L’esecuzione dei due tratti sperimentali ha confermato le caratteristiche proprie di questo tipo di pavimentazioni, assicurando un abbattimento del rumore da rotolamento di oltre 3 db e la riduzione degli spazi di arresto anche in condizioni di bagnato di circa il 25% rispetto ad una pavimentazione tradizionale coeva. Allo stato attuale la pavimentazione non presenta difettosità di sagoma né ha richiesto interventi manutentivi.

7. Autostrada del Brennero (A22 Modena – Passo del Brennero)

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L’intervento effettuato nei pressi di Rolo (RE) ha riguardato circa 8.000 m2. La tecnologia impiegata in questo caso è DRY, con un conglomerato di granulometria 0/14 mm., realizzato con bitume modificato con polimeri SBS e additivi per la riduzione delle temperature di produzione e stesa, non superiori a 165 °C e 150 °C rispettivamente ed aggiunta di polverino di gomma da PFU di granulometria 0/4 dmm a fine processo di muscolazione. La pavimentazione sperimentale a bassa temperatura ha dimostrato di mantenere le caratteristiche tipiche di capacità drenante associando a queste ultime una buona riduzione del rumore generato dal rotolamento da traffico veicolare (-2db rispetto ad una pavimentazione tradizionale coeva) ed una riduzione degli spazi di arresto stimata del 25%. La posa del conglomerato è avvenuta a temperatura non superiore a 150 °C con effetti benefici in ordine alla ridotta emissione di fumi ed emissioni di cattivi odori tipiche di soluzioni di applicazione a temperature standard (superiori di 30/40 °C). Allo stato attuale la pavimentazione non presenta difettosità di sagoma né ha richiesto interventi manutentivi.

8. Interporto di Fiumicino (RM)

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Un’altra infrastruttura di notevole estensione e che ha visto l’utilizzo di materiali riciclati è la Piattaforma logistica dell’interporto di Fiumicino. Nel 2009 infatti sono stati realizzati i capannoni, le strade e le aree di sosta per un totale di 330.000 m2 di superficie con l’ impiego di aggregati riciclati per 50.000 m3.

9. Aeroporto Malpensa (MI)

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Simile realizzazione è quella del completamento e dell’ampliamento delle vie di rullaggio e dei piazzali di sosta dell’Aeroporto di Malpensa, che ha visto un impiego addirittura di 120.000 m3 di aggregati riciclati.

10. Ampliamento Molo Garibaldi (Porto di La Spezia)

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Uno degli utilizzi di aggregati riciclati in campo portuale riguarda i riempimenti a mare , come nel caso dell’ampliamento del molo nel Porto di La Spezia. Essendo reperibili in zona aggregati C&D è stata considerata nello specifico tale opzione tenuto conto sia della difficoltà di reperire inerti naturali che del volume di materiale da porre in opera, di oltre 130.000 m3. L’abbinamento della tecnica della vibroflottazione (una tecnica di miglioramento delle caratteristiche geotecniche del terreno di fondazione, che consiste nell’addensamento del terreno stesso, sia esso di tipo granulare che coesivo, con conseguente riduzione dell’indice dei vuoti, e miglioramento della sua resistenza al taglio) con l’impiego di materiale proveniente da attività di demolizione e l’entità del volume di riempimento trattato inseriscono l’intervento in oggetto nel novero delle applicazioni più significative di compattazione profonda realizzate recentemente in Italia.

11. Palaghiaccio di Torino

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Anche il Palaghiaccio di Torino, opera costruita nell’ambito delle realizzazioni olimpiche per Torino 2006, rappresenta un interessante esempio di applicazione di materiali riciclati. In particolare l’aggregato riciclato è stato utilizzato per la realizzazione di tutto il sottofondo sia interno che esterno alla struttura. L’opera ha visto l’impiego di 20.000 m3 di aggregati riciclati.

Le normative e i bandi

1. Legge Regione Toscana – Obbligo di utilizzo del 15% di aggregati riciclati gia’ nel 1998

Azione fondamentale è quella legata al cambiare le norme vigenti andando verso un sistema di obbligatorietà dell’uso di materiali riciclati. La Regione Toscana già nel 1998 fece suo un provvedimento destinato a favorire l’uso di materiali recuperabili per la realizzazione di opere pubbliche di interesse pubblico, finanziate dalla Regione. La Legge ha previsto che nel caso di opere realizzate dalla Regione o da enti da essa dipendenti, i bandi di gara devono prescrivere obbligatoriamente l’impiego di una percentuale minima di materiali, stabilita nel 15%, provenienti da recupero/riciclo di rifiuti e stabiliscono un sistema di incentivi che premino l’utilizzo di una percentuale superiore a quella minima suddetta.

2. Legge Provincia Trento – Acquisti pubblici verdi anche sui materiali inerti (30%)

Altra realtà che pone da tempo attenzione a questo tema è la Provincia Autonoma di Trento dove è stato implementato un capitolato tecnico per l’uso dei riciclati nei lavori di manutenzione pubblica, con le schede prodotto e l’elenco prezzi, il Piano di smaltimento dei rifiuti inerti, nel quale è stata data priorità al riciclo e recupero, e le linee guida per il corretto trattamento e recupero di tali rifiuti. Tutti questi documenti sono stati elaborati considerando l’intera filiera del riciclo, dai produttori agli utilizzatori. La Provincia ha inoltre reso obbligatori con una delibera del 2010 gli acquisti verdi includendo appunto anche gli aggregati riciclati, per almeno il 30% del totale. Tutto ciò in una visione ispirata agli orientamenti comunitari ed a ciò che le Direttive Europee già richiedono.

3. Legge Provincia Lecce – Obblico di riciclo al 70% degli inerti stradali

La Giunta Provinciale di Lecce ha dato indirizzo agli uffici tecnici di prevedere il recupero e il riutilizzo del materiale inerte dalla demolizione di sovrastrutture stradali, superando così i livelli italiani per mettersi al passo dell’Europa. È infatti noto che l’inerte presente all’interno dei conglomerati bituminosi di cui sono piene le strade provinciali, essendo totalmente privo di catrame, ha caratteristiche tali da consentire il re- impiego nella formazione di miscele di aggregati destinati ad essere nuovamente utilizzati nel settore. Questa pratica comporterà un notevole risparmio nell’attività della estrazione dei materiali dalle cave e un immediato risparmio ambientale, oltre che un miglioramento della stessa qualità del nostro territorio, risparmiato da continue estrazioni. L’ente, già da qualche tempo, aveva avviato la sperimentazione di alcuni appalti che hanno seguito questa logica, prevedendo il riutilizzo degli inerti per percentuali sempre più alte, come nel caso della strada Nardò–Avetrana, ma ora si muoverà in questa direzione uniformemente, per tutti i suoi progetti e cantieri.

4. Capitolato Provincia Pisa – Canale scolmatore dell’Arno

Un esempio importante di come un Capitolato Speciale d’Appalto possa incentivare e supportare il mercato del riciclo dei materiali da costruzione è quello della Provincia di Pisa realizzato per l’adeguamento idraulico del canale scolmatore dell’Arno. I lavori (che dovranno concludersi nel 2016) riguardano la costruzione di due moli foranei, aggettanti verso mare per circa 550 metri, che costituiranno la “foce armata” del Canale Scolmatore necessaria a prevenire i fenomeni di insabbiamento dello sbocco a mare che in passato ne hanno limitato l’efficienza idraulica. L’area d’intervento è ubicata in corrispondenza dello sbocco a mare del Canale Scomaltore d’Arno che costituisce il naturale confine tra i Comuni di Pisa e Livorno. All’interno del CSA si richiama, e se ne fa obbligo di attuazione, il decreto del ministero dell’ambiente 8 maggio 2003, n. 203 che prevede l’utilizzo di almeno il 30% di materiali riciclati.

5. Capitolato Genova – Strada locale (via San Biagio)

Stessa situazione si presenta nel caso del Capitolato Speciale d’Appalto per l’adeguamento di via San Biagio a Genova. Vengono infatti richiamate le disposizioni del D.M. 8 maggio 2003, n. 203 per coprire il fabbisogno di materiali con una misura non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo tramite aggregati riciclati. Inoltre per quest’opera vengono anche richiamati gli obblighi previsti dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 per il recupero e riutilizzo delle terre e rocce da scavo (sostituito poi dal D.Lgs. 205/2010).

6. Capitolato Odolo (BS) – Riqualificazione ambientale torrente Vrenda

Ancora un altro esempio viene dal CSA del Comune di Odolo, provincia di Brescia, per la riqualificazione ambientale del Torrente Vrenda. Qui viene specificato che i materiali occorrenti per la costruzione delle opere devono risultare in ottemperanza al D.M. 203/2003 dove appunto si prescrive l’utilizzo di materiali riciclati nella misura complessiva del 30% del fabbisogno dell’opera da realizzare.

7. Capitolato S. Giovanni in Fiore (CS) – Due fabbricati di edilizia residenziale pubblica

Infine interessante anche il caso del CSA di San Giovanni in Fiore, dove le opere in oggetto riguardano due fabbricati di edilizia residenziale popolare, la realizzazione di garage, la sistemazione del verde pubblico e la ristrutturazione del Centro Anziani Comunale. Anche qui viene richiamato l’obbligo del 30% di aggregati riciclati presente nel D.M. 8 maggio 2003, n. 203, e le norme riguardanti le terre e rocce da scavo contenute nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e sostituito dal D.Lgs. n. 205/2010. Vengono inoltre stabiliti i limiti di impiego degli aggregati grossi provenienti da riciclo a seconda dell’origine degli stessi. Per le demolizioni di edifici (macerie) fino al 100%, per le demolizioni di solo calcestruzzo e calcestruzzo armato di classe C30/37 minore del 30%, per quelli di classe C20/25 fino al 60%.

8. Roma capitale – Riempimento di buche con aggregati riciclati

Un esempio su come aiutare il settore degli inerti riciclati viene dalla decisione, presa nel Dicembre 2014, dell’Amministrazione Comunale e dell’Assessorato ai Lavori Pubblici di Roma Capitale di indire due gare per il riempimento delle buche delle strade con l’utilizzo esclusivo di prodotti provenienti dal riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione in sostituzione dei materiali inerti ottenuti da attività estrattive. Per gli interventi verrà impiegata una miscela cementizia a bassa resistenza confezionata con prodotti inerti riciclati; secondo uno studio elaborato dall’Università Sapienza di Roma l’uso di tale miscela cementizia consentirà al Comune un risparmio economico superiore al 20% rispetto all’utilizzo dei prodotti di cava, senza contare i connessi vantaggi ambientali.

Le risposte dei grandi cantieri

Per capire il modo in cui le stazioni appaltanti stanno affrontando il tema dell’utilizzo degli aggregati riciclati, Legambiente negli scorsi anni ha chiesto se venissero utilizzati questi materiali in alcuni grandi cantieri italiani, quali il cantiere del nuovo palazzo dei Congressi a Roma, le varianti sulla SS 14 Triestina e l’Autostrada Catania-Siracusa di ANAS, la nuova Stazione di Bologna Centrale per Grandi Stazioni. Le risposte ricevute sono diverse, ma tutte uguali nelle conclusioni: mancanza di conoscenza della qualità degli aggregati riciclati e poche informazioni sul reperimento dei materiali stessi sono tra le principali cause, ma anche scelte progettuali e quelle da parte delle Direzioni Lavori hanno influenzato l’esito finale.

Proprio le risposte ricevute confermano quanto sia urgente e importante fare chiarezza attraverso obiettivi, regole e sistemi di controllo.

ANAS s.p.a.

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Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane

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EUR s.p.a.

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Gli inerti del Veneto.

Di Giuseppe Caldarola
Il recupero ecologico di materiali da costruzione individua un approccio alla pratica edilizia fondato su un principio di rigenerabilità delle stesse componenti, che si estende in una prospettiva multiscalare dalla dimensione del singolo manufatto a quella del sistema territoriale. Tuttavia, nel prefigurare frontiere operative ad alto indice di innovazione, i processi finalizzati al riciclo di inerti devono necessariamente passare al vaglio di un rigoroso sistema normativo, fatto di direttive, autorizzazioni, permessi e certificazioni, anche contrastanti, che ne regolamenta e vincola i presupposti di effettiva praticabilità o ne condiziona la “convenienza” del recupero in sostituzione dello “smaltimento”, oltre che l’opzione per i materiali riciclati in sostituzione di quelli naturali “vergini”. Uno degli esempi più lampanti di tale condizione riguarda lo scenario del Veneto, dove, all’esistenza di uno solido apparato produttivo e tecnologico fa riscontro un sistema normativo in parte arretrato, o almeno non organico e sistematico, che limita sensibilmente le opportunità di sperimentazione e ricerca da parte delle aziende specializzate nel settore.

Il riciclo di materiali attiene all’individuazione di modalità tecnico-operative e costruttive di reimpiego, tra gli altri, di scarti di attività edilizie (costruzioni e demolizioni),1 L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione. come anche di processi produttivi. La sistematica analisi di processi di riciclo di tali materiali diviene l’occasione per la creazione di reti di strutture produttive e finanziarie legate alla demolizione e allo smaltimento e al re-impiego degli scarti delle attività edilizie come dei processi di lavorazione (opportunamente trattati a costituire materie “prime” re-immissibili in cicli di produzione) ma anche all’investimento immobiliare su restauro e recupero che possono trarre vicendevolmente vantaggio economico e produttivo da un processo di riconfigurazione sostenibile del territorio.

Il continuo fabbisogno di materie prime – e per le quantità in gioco, centrali risultano la localizzazione sul territorio e il ruolo degli impianti di recupero – diviene una occasione per individuare modalità d’uso low-cost e low-tech alternative per tanti materiali di scarto generalmente destinati a smaltimento mediante conferimento in discarica o, nei casi migliori, al re-impiego per la realizzazione di sole opere ‘sottosuolo’ (sottofondi, strati di fondazione, riempimenti, colmate, ecc…). Numerosi sono gli studi e le sperimentazioni che muovono verso l’apertura di nuovi e molteplici campi applicativi per tali materiali. A fronte di numerose esperienze virtuose, specie in ambito europeo ed extra-europeo, questo settore -in verità centrale nel dibattito teorico e supportato dall’avanzamento delle sperimentazioni in atto- si muove in bilico tra innovazione tecnologica (possibile e auspicabile) e ritardi normativi. I contenuti di questo scritto racconlgono esiti interpretativi parziali delle attività condotte dall’autore durante l’annualità di assegno di ricerca FSE “Turismo, Territorio, Riciclo: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza lenta nell’area veneta”, sub-titulo “Riciclo e Restauro territoriale”.2 La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.

Quali materiali: gli inerti riciclati

panoramica
Impianto di recupero, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Nell’ampia gamma dei materiali riciclati, particolarmente interessanti risultano gli inerti trattati dagli impianti di recupero il cui impiego è, sempre più spesso, sostitutivo (anche solo parzialmente) di materiali “naturali” o “vergini” nella realizzazione di manufatti infrastrutturali o in opere di ingegneria civile. Per queste realizzazioni si registra l’impiego di aggregati riciclati, specialmente ottenuti dalla lavorazione di rifiuti da costruzione e demolizione tra cui quelli derivanti dall’attività edilizia e dalla costruzione e manutenzione di strade, in affiancamento all’uso/ri-uso dei terreni e delle rocce da scavo. Tali rifiuti da C&D sono in gran parte composti da cemento, mattoni, mattonelle e altri materiali ceramici, terre e rocce, miscele bituminose, metalli, vetri, legni e plastiche, tutti (secondo la normativa vigente) catalogati come rifiuti speciali appartenenti al capitolo 17 del Codice CER. Per origine, essi derivano da attività di costruzione, manutenzione, ristrutturazione, demolizione, ecc. di edifici pubblici e privati; da opere civili e infrastrutturali; da attività industriali dei settori tra cui l’industria di prefabbricati, la ceramica, le pietre ornamentali, la fabbricazione e prefabbricazione di elementi e componenti delle costruzioni civili (mattoni, piastrelle, elementi strutturali in c.a., ecc.). La loro composizione può essere invece estremamente variabile in dipendenza dalla tecnologia di costruzione, dai tipi di materie prime, dalle condizioni territoriali (per quanto attiene a caratteristiche climatiche oltre che di sviluppo economico e tecnologico). Per tali materiali residuali, vale la pena ricordare che un impianto di recupero costituisce una alternativa al conferimento in discarica per rifiuti speciali non pericolosi e che all’interno del medesimo impianto vengono effettuate tutte quelle lavorazioni (selezione, separazione di materiali e sostanze indesiderate, vagliatura, deferrizzazione, ecc…) necessarie alla trasformazione del “rifiuto” stesso, sia questo composto da macerie o da scarti di processi produttivi, altrimenti destinato al conferimento in discarica e che comunque ha già esaurito il suo ciclo di vita, in materia prima. In un impianto di recupero si producono materiali che si possono ricomprendere nelle macrocategorie dei misti cementati (calcestruzzi e laterizi) generalmente composti da rifiuti da C&D, frazioni di raccolta differenziata non direttamente re-immissibili in cicli di produzione, scarti di processi di lavorazione (i.e., le sabbie refrattarie). Tra queste ultime, anche lo scarto di quelle impiegate per la realizzazione delle tegole canadesi), scorie (ceneri, scorie di acciaieria o loppa di fonderia) o sabbie di vetro (provenienti dalla frantumazione del vetro, la frazione non ricondotta in vetreria, proveniente da raccolta differenziata). Tutti questi materiali opportunamente trattati e vagliati concorrono alla formazione di macinati e stabilizzati per l’uso in sottofondi per opere infrastrutturali.

Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Tali scarti di attività edilizie e di processi di lavorazione, attraverso le lavorazioni condotte all’interno di impianti di recupero, concorrono alla formazione di nuovi materiali, utilizzati singolarmente o aggregati in mescola (con o senza agenti leganti bituminosi o cementizi) classificabili come: macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati vagliati. Costituiscono aggregati riciclati tecnici con più o meno elevate caratteristiche meccaniche di resistenza e portanza, prodotti da processi di frantumazione, selezione e vagliatura.

Ipotizzare per questi materiali usi alternativi in settori “altri” (pur tutti collegati alle attività edilizie) significa provare a valutarne l’applicabilità in ambiti innovativi tutti in grado di restituire esiti costruiti sul territorio e di delineare sostanziali variazioni nell’immagine complessiva dei luoghi. In generale i materiali riciclati possono divenire “occasione” per innescare processi produttivi e post-produttivi virtuosi se adottati in sostituzione di quelli di “prima” produzione e il loro uso risulta sostenibile sia da un punto di vista economico che ambientale. In questo senso è inevitabile il riferimento all’infrastrutturazione del territorio.

Con specifico riferimento all’area veneta, si possono già registrare una serie di progetti (alcuni realizzati, altri in corso di realizzazione o non ancora cantierizzati) di infrastrutturazione sia “pesante” che “leggera” del territorio che compongono una casistica più o meno “virtuosa” dell’uso degli inerti riciclati in sostituzione degli aggregati naturali. Vi si possono annoverare le realizzazioni della terza corsia sull’autostrada A4, da Venezia in direzione Trieste, della Valdastico e della Pedemontana Veneta piuttosto che numerosi percorsi e itinerari ciclabili e pedonali attrezzati sull’intero territorio regionale (i.e., la trasformazione della ferrovia dismessa Treviso-Ostiglia in itinerario ciclabile). Questi compongono una quadro variegato di esiti costruiti sul territorio, alcuni peraltro recentemente divenuti oggetto di cronaca per questioni di “qualità” del progetto, usi impropri o difformità dei materiali utilizzati, rispetto ai parametri fissati in fase di affidamento degli incarichi di progettazione o cantierizzazione, o per problematiche di natura ambientale occorse in fase di realizzazione o durante il ciclo di vita dei manufatti costruiti.

I cicli produttivi

Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

I cicli di produzione edilizia si sono tradizionalmente strutturati secondo modelli “lineari” che vanno dal reperimento delle risorse naturali (i.e., le attività estrattive) alla formazione dei rifiuti passando attraverso la produzione delle materie prime e delle componenti, la costruzione, l’intero ciclo di vita di materiali e di manufatti fino alla demolizione e allo smaltimento. Per contro l’uso dei materiali riciclati può dirsi innescare modelli di uso e gestione “ciclici” con un migliore impiego di risorse e con l’allungamento del loro ciclo di vita. In questa condizione tali materiali possono destinarsi al riuso di edifici interi, alla costruzione di nuovi edifici, alla produzione di nuovi componenti, alla produzione di nuovi materiali. Possono legarsi a scenari terminali quali il riuso di edifici o loro ricollocazione, di componenti (o ricollocazione in nuovi edifici), di materiali nella produzione di nuove componenti, il riciclo dei materiali da utilizzarsi al posto di risorse primarie. Gli inerti riciclati non sono più “rifiuti” ma a materie prime “seconde”, cioè non “vergini” ma derivanti da materiali per i quali, mediante post-produzione, si rende possibile un secondo ciclo di vita. Il passaggio terminologico dalle parole “rifiuto”, “scarto”, “scoria” a quello di “materie prime seconde” rende conto di un necessario cambio di paradigma di primaria importanza.

Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza
Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza

Il loro uso suggerisce altrettanto necessari cambiamenti nei criteri di progettazione dei manufatti basati sulla circolarità della produzione edilizia, fondata sul recupero e riciclo di risorse e prodotti: a fine vita, non più “rifiuti”, ma materie prime “seconde” da riusare o riciclare. Il rifiuto diviene risorsa: si supera il concetto di “scarto” e, laddove ogni prodotto è composto da parti tecniche e biologiche, le prime possono re-immettersi nei cicli produttivi per nuovi assemblaggi e riusi con minimi consumi possibili di energia. Tutto ciò si basa su lavorazioni e cicli di post-produzione in impianto di recupero in verità abbastanza “elementari” (selezione, deferrizzazione, vagliatura, ecc.) e a basso contenuto tecnologico ma la loro efficacia, nei termini della produzione di materiali riciclati qualitativamente assimilabili a quelli naturali, passa necessariamente attraverso un più generale ripensamento dell’intero sistema della produzione edilizia.

Quali opportunità: gli usi possibili

Gli inerti riciclati trovano applicazione in forma legata o non legata: gli aggregati sono utilizzati “sciolti” o in mescola con agenti leganti, a formare misti cementati o bituminosi. È opportuno ricordare che, dal punto di vista del mercato, i fattori favorevoli all’uso degli aggregati riciclati in sostituzione di quelli naturali consistono prevalentemente nel prezzo minore, nella elevata domanda di materiali con basse prestazioni e nel contenimento dei costi di trasporto. I settori prevalenti di utilizzo riguardano la realizzazione delle opere in terra dell’ingegneria civile, dei corpi di rilevati delle medesime opere, di recuperi ambientali, riempimenti e colmate, di lavori stradali e ferroviari, di sottofondi stradali, ferroviari, aeroportuali e di piazzali civili e industriali, di strati di fondazione delle infrastrutture di trasporto, di strati accessori con funzione anticapillare antigelo e drenante. I conglomerati bituminosi, recuperati con fresatura, sono prodotti di elevate caratteristiche tecniche riutilizzabili nell’ambito delle stesse costruzioni stradali da cui provengono (strati di usura e collegamento composti da aggregati lapidei naturali e da bitume). I frantumati misti di demolizione trovano applicazione nella realizzazione dei corpi dei piazzali o delle strade in alternativa alle sabbie naturali, alle ghiaie e agli stabilizzati. I frantumati grossi di mattoni e cementi divengono materiali applicabili in sottofondi stradali quali strati inferiori rispetto alla stesa di misti stabilizzati, nonché in strati di fondazione di parcheggi e strade al di sotto di misti stabilizzati.

Tali materie prime seconde, opportunamente trattate in modo da poter essere assimilate ai materiali lapidei, trovano ulteriori utilizzi in manufatti per i quali si ricorre normalmente a inerti naturali. Tra gli usi possibili va citata la composizione di elementi alveolari, ripetibili all’infinito, utilizzati nella formazione di sistemi di pavimentazione da esterni. Possono inoltre divenire componenti per la rimodellazione ambientale, a formare elementi di svariate forme, anche molto irregolari. Tra gli usi più largamente attestati si ritrovano applicazioni per la formazione di elementi standardizzati per pavimentazioni di superfici scoperte (i.e., nei parcheggi) con caratteristiche utili a garantire percentuali graduali di permeabilità dei suoli e sagome idonee alla formazione di vuoti normalmente destinati all’inerbimento. Ulteriori impieghi di inerti riciclati in sostituzione di quelli naturali riguardano la formazione di terre armate, pareti di sostegno rinverdibili per scarpate, rilevati e terrapieni; rivestimenti e terrazzamenti, divisori di proprietà, barriere verdi fonoassorbenti (anche in calcestruzzo riciclato e terra), barriere verdi di protezione visiva, elementi di arredo urbano tra cui dissuasori stradali, elementi di seduta, pavimentazioni di percorsi pedonali. Ma i materiali riciclati (non solo gli inerti classici) vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di calcestruzzi (con funzione non strutturale): si fa riferimento ai calcestruzzi additivati con vari materiali anch’essi di riciclo (applicazioni in pavimentazioni industriali), con polimeri riciclati (in sottofondi di supporto per impianti di riscaldamento a pavimento, per barriere antirumore), con canapa e materiali naturali di origine vegetale (per isolamento murature, formazione di intonaci isolanti per murature interne e esterne e coperture), con ceneri volatili (produzione di cementi di miscela e sottofondi stradali).

Quali ostacoli: tra normative e filiere produttive interrotte

La molteplicità di usi individuati per gli inerti riciclati rende conto di una serie di “occasioni” di progetto che possono trarre vantaggio dal ricorso a tali materiali in sostituzione di quelli naturali o di prima produzione. Sussistono tuttavia anche elementi ostativi e limitazioni d’uso che attengono a molteplici ordini di fattori. Si tratta di vincoli indotti dai processi di produzione piuttosto che dalle specifiche normative di settore. A questi si affiancano questioni più strettamente legate alla “percezione” di tali materie prime seconde, ancora legate alla condizione di “rifiuto”, di “scarto”. La sommatoria di questi tre fattori rende il settore degli inerti riciclati non ancora in grado di esplicitare a pieno le proprie potenzialità.

Il primo ordine di fattori è legato alle problematiche relative alla selezione di materiali idonei a essere immessi all’interno di processi di recupero ecologico, che vincola e gradua su scala territoriale (con differenze cospicue a seconda dei contesti geografici) l’effettiva opportunità di propendere per riciclare tali materiali presso aziende specializzate invece che per il conferimento in discarica. A questo si deve sommare la disponibilità di materie prime e la facilità di reperimento in prossimità degli ambiti territoriali in cui si localizzano gli interventi. Da questa condizione sembra infatti derivare la maggiore o minore propensione all’uso dei riciclati sia dal punto di vista dell’investimento su innovazione tecnologica e sperimentazione che dell’adeguamento dei processi produttivi e delle progettazioni per il conseguimento di obiettivi di qualità di prodotto e per la costruzione di filiere produttive con il coinvolgimento di più attori di processo. E le problematiche legate alla filiera produttiva attengono anche alle specifiche condizioni e tipologie degli impianti di recupero e delle lavorazioni dagli stessi effettuate.

Il secondo ordine di fattori è legato ai quadri normativi vigenti, alla sommatoria degli stessi (direttive, normative e regolamenti europei, nazionali, regionali e locali) e ai conflitti di competenze tra Enti e soggetti legiferanti o preposti al controllo e tra questi e i tessuti produttivi locali. Ne derivano alterne applicazioni, più o meno “virtuose” dal punto di vista del contenimento del consumo di risorse e delle condizioni di facilitazione o inibizione di lavorazioni, produzioni e immissioni sul mercato di materiali innovativi o di facilitazioni di processo.

Il terzo ordine di fattori – in parte più aleatorio rispetto ai precedenti – appare parimenti importante e attiene ad un cambiamento nella “percezione” della qualità dei materiali riciclati, da scindersi rispetto all’origine degli stessi a partire da un “rifiuto”, dallo “scarto”: ciò, al fine di generare nuove disponibilità all’uso di tali materiali da parte dei possibili nuovi utilizzatori. Favorisce questo necessario cambiamento di percezione la sostituzione dei termini di “rifiuto” e di “scarto”con quello di materie prime “seconde” e una diversa comunicazione sui temi del recupero ecologico, al fine di sensibilizzare gli attori di processo all’aggiornamento dei quadri conoscitivi sulle proprietà e caratteristiche dei materiali riciclati, anche attraverso un più sistematico confronto di caratteristiche, convenienze, opportunità e possibilità applicative.

Si muovono sicuramente nella direzione della rimozione di alcuni degli elementi limitativi dell’uso degli inerti riciclati alcune modifiche recenti sui dispositivi di legge e sui principali documenti normativi, anche se gli indirizzi innovativi hanno carattere prevalentemente ambientale e sono spesso riconducibili a strategie e politiche legate ad un’ottica di futura “Discarica zero” senza incidere sulle nature dei materiali e sul loro confezionamento e trattamento.

Un esempio di aggiornamento dei quadri normativi di riferimento è rintracciabile ad esempio nell’autorizzazione all’uso (in quota parte) dei materiali riciclati per il confezionamento dei calcestruzzi. Tra le previsioni del Green Public Procurement (GPP o Acquisti Verdi), vi sono alcune definizioni di Criteri Ambientali Minimi per le categorie delle costruzioni e ristrutturazioni di edifici con particolare attenzione ai materiali edili, alla costruzione e manutenzione delle strade e all’arredo urbano. Nella Direttiva 98/2008/CE, che fissa gli obiettivi di riciclo e riporta la politica europea in tema di rifiuti, si rimarca la priorità delle operazioni di riciclaggio rispetto a quelle di smaltimento in discarica e vi si dettano le condizioni per elaborare criteri affinché i rifiuti, se sottoposti ad operazioni di recupero (incluso il riciclaggio), cessino di essere tali in un’ottica di perseguimento dell’obiettivo end of waste.3 La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione. Con riferimento alla Certificazione LEED degli edifici, si fissano una serie di pre-requisiti obbligatori per i quali l’edificio o il manufatto edilizio in costruzione o ristrutturazione possa ottenere, appunto, la certificazione: tali criteri attengono alle macro-categorie di sostenibilità del sito, gestione delle acque, energia e all’atmosfera, materiali e uso delle risorse, qualità ambientale, innovazioni introdotte nella progettazione. Con riferimento al tema dei rifiuti da C&D, sussistono una serie di requisiti e relativi obblighi corrispondenti tra cui la dotazione di stazioni di riciclo o riuso dedicate alla separazione, alla raccolta e allo stoccaggio di materiali da riciclare o la localizzazione di progetti all’interno di amministrazioni locali che effettuino la raccolta differenziata; la presenza di punti di raccolta per conferimento di rifiuti potenzialmente pericolosi; di stazioni o siti di compostaggio; localizzazione in isolati ad uso misto o non residenziale di contenitori per la raccolta differenziata. Per le attività di costruzione e demolizione, infine, l’obbligo di riciclare e/o recuperare almeno il 50% dei rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi e di elaborare un piano di gestione dei rifiuti che identifichi i materiali destinati a discarica e/o a impianto di recupero. Tutto ciò, come evidente, fa riferimento alla tendenza al potenziamento d’uso dei materiali riciclati – nello specifico, appunto, gli inerti – e passa soprattutto attraverso l’accurata progettazione delle attività di demolizione, nel senso di giungere a una “vera” demolizione selettiva.

A livello di regolamenti e di quadri di riferimento normativi prodotti dagli Enti locali, la Provincia Autonoma di Trento ha elaborato un apposito Piano Provinciale per lo Smaltimento dei Rifiuti con specifico stralcio per la gestione dei rifiuti speciali inerti non pericolosi provenienti da costruzione e demolizione; le Norme Tecniche Ambientali per la produzione dei materiali riciclati e posa nella costruzione e manutenzione di opere edili, stradali e recuperi ambientali (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011, n.1333 – All. B) e le Linee Guida per la corretta gestione di un impianto di recupero e trattamento rifiuti e per la produzione di materiali riciclati da impiegare nelle costruzione (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011 – All. A). La necessità della dotazione di tali strumenti nasceva proprio dalle specifiche condizioni dei settori produttivi trainanti dell’economia trentina, specie caratterizzata dall’attività estrattiva. Inoltre la Regione Emilia Romagna ha più recentemente predisposto il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti che, tra i numerosi obiettivi e priorità, ha posto la promozione di strumenti operativi finalizzati a favorire una gestione dei rifiuti ambientalmente corretta e sostenibile, anche finalizzata a dare nuovo impulso allo sviluppo economico di vari settori imprenditoriali.

Ben diverso appare lo stato di avanzamento dei quadri di riferimento normativi e delle ricadute sui processi produttivi se si guarda all’area veneta. Questo contesto regionale appare significativo per sue condizioni intrinseche: non solo per la localizzazione e il numero di impianti di recupero sul territorio ma anche (dato, questo, che sembrerebbe in controtendenza) la ridotta operatività degli stessi a fronte della quantità di domanda di movimentazione di materiali generata e supportata dalle specifiche condizioni del tessuto produttivo e delle attività edilizie. In questo contesto territoriale, a fronte di un elevato indice di innovazione di processo e di prodotto, molte lavorazioni e sperimentazioni non risultano possibili o ancora economicamente vantaggiose a causa di ritardi e lacune dei sistemi e degli strumenti normativi oltre che delle specifiche condizioni del settore di produzione dei materiali riciclati. Tra le altre cose, vale la pena ricordare l’assenza di un piano generale sistematico di gestione dei rifiuti o di regolamentazione delle attività estrattive, condizione per cui se da un lato è cresciuta negli ultimi anni la localizzazione di impianti di recupero sul territorio, dall’altro (e parallelamente) si assiste ancora al rilascio di licenze per lo sfruttamento delle attività estrattive che generano ulteriori consumi di risorse naturali e di territorio. E questa condizione appare rafforzata dall’attuale crisi del settore edilizio che ha generato anche una riduzione delle “convenienze” in termini di costi di produzione, di vendita e di trasporto di materiali riciclati rispetto a quelli naturali, di cava. Da ciò, la non primaria necessità e importanza dell’aggiornamento dei capitolati d’appalto e una sostanziale riduzione della disponibilità degli attori di processo alla valutazione di scenari alternativi di produzione edilizia.

Inerti riciclati e progetto di architettura, di territorio, di paesaggio

Il bilanciamento tra opportunità d’uso dei materiali riciclati ed elementi ostativi del loro impiego – li si è detti di carattere normativo, di processo di produzione, di filiera e di applicazioni possibili – restituisce parimenti “saldo positivo” e sostiene ugualmente la tendenza all’innovazione. Tra le varie possibilità, risulta particolarmente in grado di aprire nuovi scenari l’impiego degli inerti riciclati in opere “sopra-suolo” e, più specificatamente, nel progetto di architettura, di territorio e di paesaggio. Il lavorare con gli inerti riciclati offre infatti ampie potenzialità multiscalari che vanno dalla scala del singolo manufatto edilizio e delle sue componenti alla ristrutturazione territoriale e sua nuova infrastrutturazione secondo logiche differenti rispetto a quelle ormai consolidate nelle pratiche progettuali. Rispetto alle attuali condizioni di contesto – e con riferimento non solo al livello nazionale italiano, ma soprattutto ai contesti regionali e, specie, in aree quali quella veneta – il settore degli inerti riciclati per meglio esprimere le potenzialità dei materiali stessi necessita della garanzia di adeguatezza della lavorazione dei materiali negli impianti di trattamento (in termini di efficacia ed efficienza) e di disponibilità dei prodotti recuperati nel territorio; della rispondenza delle caratteristiche dei prodotti recuperati ai requisiti di idoneità previsti dalle specifiche normative di settore; dell’individuazione di condizioni di applicabilità degli inerti, opportunamente verificati e certificati, alle varie occasioni progettuali; del perseguimento dell’obiettivo del raggiungimento di livelli prestazionali in opera simili o confrontabili tra aggregati riciclati e di origine naturale anche attraverso una attenta valutazione dei benefici ambientali ed economici.

Tali condizioni possono generarsi anche e soprattutto attraverso un’alterazione dell’attuale network di relazioni –ancora in contesto veneto molto limitate – che coinvolge il sistema delle aziende che si occupano di recupero ecologico, ipotizzando prospettive di apertura verso ulteriori categorie di interlocutori.

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1. L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione.
2. La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.
3. La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione.