“Le mot et la chose sont modernes”, la parola e la cosa sono moderne: è questo l’incipit con cui Eugène Viollet-le-Duc apre la voce “Restauration” nel Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVe siècle (1865). E’ una frase tanto breve quanto illuminante, con la quale l’architetto francese evidenzia come il termine restauro – sebbene di origine antica – abbia assunto nell’Ottocento un diverso significato rispetto ai secoli precedenti in relazione a una nuova concezione della storia e ad una diversa sensibilità verso le attestazioni del passato. Una tale definizione potrebbe essere mutuata anche per la parola “riciclo”: le diverse accezioni del suo significato, infatti, non possono essere comprese senza fare riferimento al panorama culturale del XX secolo e, più in dettaglio, alla crisi della società dei consumi e del relativo modello di crescita, basato sul continuo processo di dismissione/distruzione dei propri prodotti quale principale premessa per la realizzazione del nuovo (Emery, 2011). Il riciclo si configura come una delle alternative possibili per reimmettere in un circuito di produzione e significato quei materiali, oggetti, architetture, o addirittura parti di città che seguendo un ciclo di vita lineare quanto mai contratto, possono essere diventati obsoleti o trasformati in scarti. Alla luce di tali considerazioni, appare scontato osservare che una condizione come quella appena descritta è molto lontana dal periodo in cui opera Andrea Palladio, contraddistinto da un altro modo di intendere le parole “tempo”, “consumo”, “durata” e “produzione”. Sarebbe quindi improprio parlare di riciclo nell’architettura del Cinquecento, ma, semmai, di riuso: inglobare, trasformare, ricollocare pezzi o intere parti di fabbriche preesistenti nelle nuove costruzioni è infatti una consuetudine della prassi edificatoria sin dal mondo antico, rispetto alla quale le architetture palladiane non fanno eccezione.
Per lungo tempo, l’immagine di Palladio è stata quella veicolata attraverso I Quattro Libri dell’Architettura (1570): sfogliando le pagine del trattato, i disegni per i palazzi, le ville, le opere pubbliche e religiose emergono dallo spazio bianco del foglio senza dare indicazioni sulle soluzioni materiche e tecnologiche adottate, sulle esigenze dettate dal cantiere, sulla presenza o meno nel sito di costruzione di manufatti più antichi. La principale ragione di questa scelta dipende dalla visione teorica che sottende alla stesura dell’opera scritta: per presentare i modelli di quella “usanza nuova” di cui è ambasciatore, Palladio elabora delle versioni perfezionate dei propri lavori, frutto molte volte di vere e proprie riprogettazioni eseguite nell’ultima fase della vita alla luce di una diversa maturità (Burns, 2009). La realtà costruita è quindi spesso molto distante da quelle xilografie: già nel Settecento il palladianista Ottavio Bertotti Scamozzi (1776-1783) sottolineava le numerose discrepanze tra ciò che era raffigurato ne I Quattro Libri e quanto effettivamente realizzato, ma solo a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, sulla scia degli apporti della cultura materiale, l’effettiva consistenza fisica degli edifici palladiani è divenuta oggetto di studi approfonditi, aprendo a nuove prospettive con cui indagare l’attività di questo architetto. Un dato d’immediata evidenza, desumibile sia dalla bibliografia edita che dall’osservazione diretta di alcune fabbriche realizzate, è che almeno in ventidue delle opere sicuramente autografe e il cui cantiere inizia prima del 1580 – anno della morte di Palladio – si rilevano strutture precedenti più o meno antiche e di consistenza variabile, a cui la nuova costruzione si affianca o si imposta direttamente. 1Si rimanda a questo proposito alla ricerca “Andrea Palladio: materiali tecniche e finiture”, svolta nel 2014 presso l’Università IUAV di Venezia in partnership con il Ministero dei Beni Culturali e il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, i cui esiti sono stati esposti al XIV seminario internazionale sul restauro architettonico “Andrea Palladio: cantieri di carta, calce e mattoni” a cura di D. Paternò, M. Piana, U. Soragni (Albettone 27 novembre 2014).
La scelta di non demolire ma di riutilizzare ciò che è già esistente è principalmente dettata dalla necessità di “lasciar da parte […] le superflue spese” (Palladio, 1570, I, p. 5) e rappresenta una condizione di partenza che spesso influenza non solo le modalità costruttive adottate, ma anche quelle formali e compositive.
Nella villa Gazzotti, ad esempio, vengono completamente inglobate le strutture murarie appartenenti a una torre di difesa di epoca medievale, il cui ingombro – come si evince anche solo osservando lo spessore più consistente delle murature nella pianta del piano nobile – corrisponde all’ambiente a destra della loggia (Winter & Fuchs, 2011). L’assenza d’intonaco di finitura permette di avanzare puntuali osservazioni stratigrafiche e di leggere chiaramente sia all’interno che sul prospetto orientale lo sviluppo di tale manufatto e le trasformazioni occorse prima del XVI secolo: la parte cinquecentesca si imposta direttamente sulla preesistenza e sfruttando anche i resti di una casa quattrocentesca, la villa Pagello, si estende verso ovest e verso nord. Il prospetto principale a meridione, invece, si configura come una nuova quinta muraria di spessore pari a quattro teste in corrispondenza delle paraste addossata alla torre, la cui presenza, però, obbliga Palladio ad adottare su questa porzione soluzioni che in apparenza contraddicono le regole di simmetria del Trattato. Le due piccole aperture sul basamento dell’ala est, infatti, non sono centrate rispetto alle finestre del superiore piano nobile, pur essendo realizzate contemporaneamente al resto della muratura. E’ un’eccezione dettata dal totale mantenimento della volta a botte al piano seminterrato della preesistenza, la quale essendo contraddistinta sul lato sud da lunette e unghie a definizione dei suddetti varchi murari, obbligava a rispettarne la posizione.
Cingere con nuove murature strutture già esistenti, reimpostando così le facciate è una ‘strategia’ ricorrente che appare anche in altre opere; solo per citarne alcune, si pensi a villa Trissino a Meledo, dove ai resti di edifici adibiti ad attività molitoria viene aggiunto esternamente un possente paramento in bugnato rustico lapideo (Battilotti, D’Incau, Franceschi, Lazzari & Piana, 2012), o a villa Thiene a Quinto Vicentino, le cui paraste sui prospetti esterni rivestono in alcune parti murature precedenti, quest’ultime ancora parzialmente riconoscibili per le caratteristiche dei laterizi e per le tracce di finitura a regalzier (Gabbiani, 2000; Ghisetti Giavarina, 2003; Gabbiani, 2011).
Proprio villa Thiene è forse uno dei casi più significativi per comprendere lo scarto tra la versione pubblicata nel 1570 (Palladio, II, p. 64) e l’effettiva realizzazione; quest’ultima si configura come una vera e propria operazione di trasformazione e ampliamento di una casa dominicale del XV secolo, ragione a cui probabilmente ascrivere la peculiare distribuzione degli ambienti rispetto ad altri edifici palladiani della medesima tipologia. Dalla testimonianza di Francesco Muttoni (1740) e dalle indagini compiute in occasione dei restauri degli anni ‘90 del XX secolo (Gabbiani 2003; Gabbiani 2011), sappiamo che la fabbrica cinquecentesca era contraddistinta da un corpo centrale con un’ampia loggia, fiancheggiato da ali aventi distribuzione planimetrica speculare; in quella meridionale la casa quattrocentesca era stata integralmente mantenuta nelle sue forme e dimensioni, mentre nella porzione a settentrione – l’unica sopravvissuta alle profonde trasformazioni e demolizioni avvenute tra fine Settecento e inizi Ottocento – era stata in parte inglobata in una nuova costruzione dall’aspetto classico.
L’esigenza di mantenere e adattare fabbriche più antiche è una condizione ancora più stringente quando Palladio interviene in tessuti densamente edificati come quello della città di Vicenza; è una permessa che caratterizza sin dalle prime fasi l’iter progettuale di due tra le sue opere più famose, palazzo Barbaran da Porto e la Basilica: in entrambe egli sviluppa soluzioni asimmetriche sia in pianta che in alzato, in cui vengono adottate specifiche scelte compositive atte ad assorbire l’irregolarità dimensionale data dalle preesistenze.
Nel caso delle logge che cingono il palazzo della Ragione, la necessità di rispettare gli allineamenti dei percorsi che al piano terra attraversavano trasversalmente il corpo medievale comporta l’elaborazione di una vera e propria ‘macchina elastica’, basata sull’iterazione del sistema a serliana (Beltramini, 2008). Tenendo costante la luce degli archi e variando quella dei due architravi laterali, Palladio realizza così delle facciate che si percepiscono come regolari, ma in cui la dimensione delle campate varia sempre in relazione alle aperture e ai passaggi del più antico palazzo pubblico.
Strategie analoghe vengono attuate quasi venti anni dopo dall’inizio del cantiere per la Basilica nel palazzo Barbaran da Porto, l’unico edificio che Palladio riuscirà a terminare in vita nella città berica. L’area su cui insiste l’edificio può essere interpretata come un vero e proprio palinsesto che racconta un brano della storia di Vicenza. Le indagini archeologiche condotte durante l’ultima campagna di restauri (Rigoni, 2000) hanno infatti riscontrato i resti del primo decumano minore del settore destrato del municipium di Vicentia e di murature fondazionali appartenenti a fabbriche di periodo romano e medievale, su cui poi era successivamente sorto un complesso edilizio nel corso del Quattrocento. Articolato in più corpi intorno a un cortile centrale (Beltramini, 2000b), tale complesso era stato negli anni venti del Cinquecento diviso tra i due rami della famiglia Barbarano: una casa alta e poco profonda che occupava il lato settentrionale del lotto e alcuni ambienti sul fronte sud verso contra’ Porti erano stati ereditati da Montano Barbarano, il committente del palazzo palladiano. Un edificio con un doppio loggiato caratterizzava invece il lato sud ed era di proprietà dei cugini; un alto muro di cinta con ballatoio, dove era ubicato anche il portone, delimitava l’area a nord. I limiti dettati dall’impossibilità di demolire le fabbriche esistenti e l’acquisto a cantiere avviato della porzione dei cugini da parte di Montano spingono anche in questo caso Andrea a elaborare una soluzione finale in cui si distanzia nettamente dai suoi schemi abituali e dove rinuncia a qualsiasi soluzione simmetrica. Egli non interviene sul fronte ovest e si limita solamente a regolarizzare le aperture dell’edificio a nord, sul cui prospetto esterno affacciato su contra’ Riale è ancora chiaramente riconoscibile il basamento a scarpa con toro lapideo superiore. Invertendo l’accesso principale di 180° gradi e spostandolo su contra’ Porti, realizza sul lato orientale un atrio il cui sviluppo planimetrico – sebbene percepito come perfettamente rettangolare- presenta invece un andamento trapezoidale, essendo pesantemente vincolato dall’andamento sghembo delle strutture murarie preesistenti. L’espediente che adotta è assimilabile a quello delle serliane della Basilica, in quanto la distanza tra le colonne centrali su cui imposta le volte è sempre la medesima, ma cambia progressivamente la dimensione delle architravi laterali. Allo stesso tempo evita che gli angoli acuti ed ottusi dell’ambiente vengano percepiti come tali, introducendo nei punti di congiunzione tra le pareti dei quarti di colonne. Scelta simile si ripete anche nella facciata principale, dove la differente luce delle campate, dettata sempre dal problema dagli allineamenti con le preesistenze, è mascherata mantenendo costante la dimensione delle finestre rettangolari e variando quella delle spalle (Beltramini, 2000a; Beltramini & Gros, 2008).
Ultimo caso da citare in questo breve excursus è il teatro Olimpico, progetto il cui cantiere inizia pochi mesi prima dalla morte dell’architetto cinquecentesco. In questo caso lo schema del teatro romano mutuato da Vitruvio viene opportunamente reinterpretato per rispettare i confini dell’area a disposizione e sfruttare al meglio le murature medievali appartenenti alle vecchie prigioni; la cavea diventa così ellittica e viene inserita all’interno della lunga stanza trapezoidale preesistente, il cui muro verso sud è parzialmente demolito per permettere la realizzazione del palcoscenico e della scena (Burns, 2008; Danzi, 2011).
L’Olimpico è il ‘testamento spirituale’ di Palladio sotto molteplici aspetti: per la capacità di reinterpretare i dettami degli antichi, per l’uso di materiali economici come legno, mattoni e intonaco a simulazione di più ricche superfici marmoree e non ultimo per la capacità di riutilizzare quanto già presente, trasformando i vincoli imposti dal sito come occasioni di per fare una nuova architettura. Proprio quest’ultimo aspetto è uno dei meno indagati nell’ambito della storiografia palladiana: è un tema che però potrebbe aprire nuove prospettive con cui osservare l’opera dello scalpellino Andrea e che al tempo stesso – in un momento come quello odierno in cui il dibattito architettonico ruota intorno al problema del ‘costruire nel costruito’, rigenerando, riciclando e ripensando l’esistente – rappresenta una lezione di grande attualità.
Battilotti, D., D’Incau, B., Franceschi, S., Lazzari, A. & Piana, M. (2012). Nuove osservazioni dagli archivi e dal cantiere su villa Trissino a Meledo. Annali di Architettura, 24, 19-36.
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Beltramini, G. (2008). La Basilica. In G. Beltramini & H. Burns (a cura di), Palladio (pp. 80-89). Venezia: Marsilio.
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Danzi, E. (2011). Il Teatro Olimpico: alcune trasformazioni costruttive osservate con l’ausilio dell’analisi stratigrafica. In M. Piana & U. Soragni (a cura di), Palladio materiali tecniche restauri in onore di Renato Cevese (pp. 12-22). Venezia: Marsilio.
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1. | ⇡ | Si rimanda a questo proposito alla ricerca “Andrea Palladio: materiali tecniche e finiture”, svolta nel 2014 presso l’Università IUAV di Venezia in partnership con il Ministero dei Beni Culturali e il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, i cui esiti sono stati esposti al XIV seminario internazionale sul restauro architettonico “Andrea Palladio: cantieri di carta, calce e mattoni” a cura di D. Paternò, M. Piana, U. Soragni (Albettone 27 novembre 2014). |