Industrial design

Innovazione di prodotto e di processo nelle aziende della ceramica

Di Giorgio Gaino

Appare evidente che, a seguito della violenta crisi economico/finanziaria degli ultimi anni, alcuni parametri di valutazione di aspetti legati alla produzione industriale debbano essere riconsiderati sulla base di una serie di aspetti:

1. la crisi (peraltro ancora senza un nome) ha portato a fenomeni di delocalizzazione della produzione;

2. la crisi ha portato ad una diversa realtà di produzione dei beni industriali;

3. l’evoluzione delle tecnologie produttive sta portando a nuovi modelli di produzione.

Soprattutto questo ultimo aspetto va considerato nell’ottica del disegno industriale: le metodologie progettuali consolidate, scalfite e mutate in seguito all’introduzione dell’informatica, sono ora fortemente sollecitate da nuovi approcci innovativi, che mettono in dubbio le basi della produzione industriale di massa consolidate da decenni.

Non è più pensabile una produzione di massa concentrata in grandi stabilimenti, in ampi spazi produttivi, con tirature di milioni di pezzi, per due motivi fondamentali:

1. la velocità di invecchiamento dei prodotti “bruciati” da logiche non legate a funzionalità, ad un rapporto di forma funzione, ma connesse a valutazioni più simili ad aspetti effimeri legati a mode/a passeggere;

2. l’impossibilità di prevedere gli effettivi volumi di produzione e di valutarne i relativi ammortamenti di attrezzature per la realizzazione dei progetti.

È in quest’ottica, velocemente falsata, che un materiale millenario quale la ceramica, legato all’evoluzione stessa del prodotto industriale – valga per tutti, quale esempio, la Wedgewood con alcuni pezzi in produzione dal 1777 tutt’oggi invariati – può trovare nuove applicazioni se associato alle nuove tecnologie informatiche, come la stampa 3D, unendo tradizione e innovazione.

Ceramiche Maroso,1http://www.ceramichemaroso.com/it/home.php azienda con una quarantennale storia alle spalle, inserita in un tessuto produttivo con tradizione millenaria legata alla ceramica, dal 2008 ha intrapreso una nuova strada nella produzione e nell’approccio alla produzione di oggetti in ceramica.

È importante collocare l’azienda geograficamente e temporalmente: siamo in provincia di Vicenza, a Nove, città famosa fin dal settecento produzione della ceramica artistica; la crisi ha segnato fortemente le aziende della zona, molte hanno chiuso, altre, è il caso, fra le altre, di Ceramiche Maroso, hanno cercato nell’innovazione di prodotto, nel design, nell’innovazione di processo una possibile ricollocazione.

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Nella produzione della ceramica si possono evidenziare due tipologie principali: l’oggetto con funzione e l’oggetto decorativo; alla prima tipologia appartengono, ad esempio tutte le funzioni legate al cibo, ma non si dimentichi l’ampio uso del passato quale isolante elettrico; alla seconda, gli oggetti decorativi, siano essi i vasi da arredo, o, purtroppo, peraltro, i galli decorati, per citare un esempio.

A tutto ciò si può aggiungere, e si deve aggiungere, negli ultimi anni un nuovo filone che possiamo definire della ceramica tecnica, in cui il materiale viene associato o inserito insieme ad altri materiali in oggetti di varie tipologie merceologiche, dove risulta necessaria una stabilità dimensionale e tolleranze costruttive che i produttori di oggetti tradizionali in ceramica raramente hanno considerato, trattandosi quasi esclusivamente di oggetti mono-materiale, con nessun rapporto con altre componenti.

Ecco che ora troviamo ceramica in oggetti quali le cappe da cucina, associata/sostenuta da elementi metallici, in lampade, in rivestimenti di stufe, in amplificatori acustici, sempre in contesti in cui il materiale ceramico porta ad un aumento considerevole del valore del manufatto nel suo insieme.

La sfida e al tempo stesso l’obiettivo del percorso di innovazione del prodotto ceramico intrapreso da Ceramiche Maroso, nell’ambito del progetto finanziato dalla Comunità Europea tramite la Regione Veneto, è quello di cogliere l’occasione data dalle nuove tecnologie, di portare il materiale ceramico verso nuove metodologie produttive, in cui non vi sia più il vincolo dato da uno stampo, invariato da millenni, peraltro; nuove sperimentazioni formali, nuovi concetti possono ora essere portati in un settore tradizionalmente legato a metodi produttivi fortemente radicati in cui le aziende legato al solo oggetto decorativo sono in estrema difficoltà a causa della radicalizzazione del mercato, in senso di prezzo al cliente e in senso di razionalizzazione del criterio di scelta, orientato all’uso.

Il settore della ceramica è stato poco “frequentato” dal design; pochi pezzi di altissimo costo per alcuni designer di fama, spesso con la sola funzione decorativa, poche le riflessioni sul materiale, sulle sue specifiche caratteristiche, le potenzialità inesplorate, le interconnessioni con altri materiali.

Ciò che si sta sperimentando, nel progetto citato, è proprio un diverso approccio al materiale ceramico, in cui si ponga una grande attenzione ad una caratteristica poco considerata, ossia il basso impatto ambientale, aspetto particolarmente importante nell’ottica delle normative future sul disassemblaggio dei prodotti industriali.

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Riassumendo il progetto vuole portare ad una rilettura delle peculiarità del materiale puntando su:

– bassi investimenti per gli stampi e quindi rapidità di modifiche del design degli oggetti;

_ possibilità formali inesplorate in funzione delle nuove tecnologie di stampa 3D direttamente in argilla per tirature limitate o per modifiche immediate, pezzo per pezzo;

– l’utilizzo di nuove tecnologie di modellazione digitale, gestendo le superfici con strumenti di valutazione propri di altri settori del disegno industriale per poter verificare immediatamente il prodotto;

– sviluppare il settore dell’illuminazione portando il valore aggiunto di un materiale tradizionale con enormi capacità espressive;

– associazione di altri materiali per ottenere particolari effetti materici e di luce

Più nel dettaglio l’utilizzo di software avanzati di modellazione digitale sta portando a ridurre notevolmente i tempi di sviluppo dei nuovi prodotti, passando dal modello 3D al modello, che sia esso realizzato con la tecnologia additiva della stampa 3D o con una tecnologia sottrattiva, in un breve lasso di tempo, soprattutto potendo verificare ogni aspetto della progettazione e della interconnessione tra i vari materiali.

Software di valutazione delle superfici permettono una precisa verifica dell’effetto finale, permettendo un approccio completamente diverso al processo produttivo tradizionale, tipico delle aziende del settore; risulta evidente come la precisione del passaggio dal CAS (Computer Aided Styling) al CAM (Computer Aided Manufacturing) possa aprire nuovi scenari per la ceramica.

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Tuttavia non bisogna scendere verso la realizzazione di oggetti stampati in 3D, precedentemente non realizzabili, con l’unico scopo di stupire: l’oggetto realizzato a tal scopo ha vita breve, l’attimo di uno sguardo; è la complessità dell’espressione progettuale, della forma, del significato della sperimentazione del design che va ricercata nella rilettura del processo progettuale e produttivo, e, mi sia concesso, anche nel diverso approccio necessario nell’ultimo passaggio, peraltro fondamentale, ossia la vendita del prodotto. La comunicazione del prodotto, del processo che ne ha portato all’evoluzione e alla realizzazione deve divenire parte integrante dell’intero percorso, solo in questo modo si valorizza la tradizione, il design, l’azienda e la sua storia, il Made in Italy.

Negli ultimi anni Ceramiche Maroso, in collaborazione con uno studio di design, ha già sperimentato il processo produttivo che porta ad un perfetto controllo dimensionale dei prodotti, consapevole che questo approccio sia concettualmente valido per poter dialogare con altri partner nella realizzazione di prodotti multimaterici: solo a fronte di una stabilità dimensionale l’industria può pensare di utilizzare la ceramica, solo con tolleranze ben definite e controllabili.

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Fondamentale è stata l’esperienza pluridecennale, i milioni di pezzi prodotti e il dialogo tra progettisti e azienda che, da sempre, fin dal Werkbund tedesco, è alla base del successo del prodotto industriale: solo in presenza di un progetto ben definito, che comprende ogni aspetto della produzione si può pensare di aver ottimizzato l’intero processo produttivo.

Il settore dell’illuminazione è stato, da sempre molto attivo, vivo e ricco di proposte, soprattutto in ambiti legati alla residenza, tipologia di prodotto da sempre molto attenta all’uso dei materiali; è in quest’ottica che l’azienda sta sviluppando una gamma di prodotti che interpretano il materiale in funzione della diffusione luminosa, sperimentando effetti ottici e di luce. Come ogni cambio/salto tecnologico l’introduzione dell’illuminazione a LED comporta delle mutazioni nell’architettura stessa della gestione della luce, non ci si è ancora resi conto di quanto si possa innovare, di quanto si tratti di un oggetto il cui design può, ora, divenire estremamente libero, senza vincoli di ingombri obbligati.

E’ in questo settore che, sempre all’interno del progetto finanziato, si stanno sperimentando e realizzando prototipi con un approccio al design diverso, giocando con volumi ben definiti, geometrici e precisi unitamente a “segni” che portano i millenni della storia del materiale; segni che fanno parte della tradizione, della manualità, curve che trovano una loro armonia solo se poste vicino ad altre similari, fatte di rapporti stretti di una geometria organica e meno definita, che rende l’oggetto prodotto in serie comunque distinguibile e unico.

Sono questi gli aspetti fondamentali che si sta cercando di integrare nel progetto, soprattutto sfruttare con un vantaggio competitivo la possibilità offerta dalle nuove tecnologie di innovare i processi produttivi della ceramica dopo millenni: per la prima volta è possibile dare forme precedentemente impossibili agli oggetti, aumentando le possibilità espressive del materiale, senza perderne le caratteristiche di tradizione, di valore aggiunto e di piacere materico che da sempre ne deriva.

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Cuoio, pelle sintetica e materiali compositi. Caratteristiche, degrado e conservazione

Di Valentina Perzolla, Chris Carr, Stephen Westland
Questo articolo rappresenta un’introduzione allo studio specialistico di materiali compositi che, per varie ragioni illustrate nel testo, potrebbero entrare presto a far parte di collezioni museali.
Nella prima parte vengono descritte alcune caratteristiche e proprietà (chimiche e fisiche) del cuoio conciato al cromo, mentre nella seconda parte si presentano le pelli sintetiche. Entrambi i materiali risultano indispensabili per comprendere a pieno i compositi di natura collagenosa, i quali sono costituiti da fibre di collagene e rivestiti con materiale polimerico. Tali compositi sono studiati per replicare l’aspetto e le proprietà del cuoio oltre che per ragioni ambientali. La terza parte, infine, espone le ragioni dello studio dei materiali innovativi con finalità sia conservative che industriali. L’articolo si chiude sottolineando l’importanza della conservazione preventiva e come la parziale comunanza di interessi dei due ambiti, quello della conservazione e quello dell’industria, possa costituire un punto di partenza essenziale per introdurre nuove pratiche conservative.

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Esempi di varie tipologie di pelli sottoposte a differenti metodi di concia e finitura

Introduzione

La lavorazione delle pelli animali è considerata da alcuni studiosi come il primo esempio di manifattura a opera dell’uomo (Forbes, 1957). Se è vero che questo processo ha iniziato a diffondersi già in tempi antichi, bisogna ricordare che i primi trattamenti non consistevano in veri e propri processi ci concia. Prima di arrivare a produrre un materiale complesso quale il cuoio sono stati necessari millenni di tentativi, errori, innovazioni e progressi tecnologici (Thomson, 2011). Nella seconda metà dell’800 è stata introdotta la pelle sintetica, caratterizzata da un supporto in tessuto e l’aggiunta di un rivestimento polimerico (Fung, 2002).

Da un decennio a questa parte è comparsa, accanto a pelli naturali e sintetiche, la pelle composita. Tale prodotto è caratterizzato dalla compresenza di fibre provenienti dalla lavorazione del cuoio, tessuti e sostanze polimeriche di rivestimento. Se da un lato la presenza di un rivestimento plastico può sminuire il fascino tipico della pelle, in questi compositi l’innovazione tecnologica si sposa con l’interesse per la sostenibilità ambientale.

Oggetti in pelle provenienti da diversi periodi storici sono facilmente individuabili all’interno di innumerevoli collezioni museali (Ravilio, 2010) e il numero di testimonianze culturali, storiche e artistiche in pelle sintetica è in continuo aumento. Per tale ragione entrambe le tipologie di prodotti hanno avuto modo di essere esaminate sotto il profilo scientifico-conservativo, valutando il degrado e i meccanismi che lo determinano oltre ai metodi per migliorarne la conservazione. I nuovi materiali che giungono sul mercato, al contrario, sono testati per misurare le loro performance ma non per la resistenza al degrado; questo determina una notevole quantità di incognite sia per il quotidiano impiego del materiale che per la sua vita in museo. Il percorso dei nuovi materiali compositi verso una riduzione dell’impatto ambientale dovrebbe essere accompagnato dalla volontà di studiare anticipatamente i meccanismi di degrado e le possibili soluzioni a eventuali futuri problemi. Un simile approccio sarebbe non solo in linea con le attuali tematiche della sostenibilità, ma anche con il percorso, già segnato da anni, della conservazione preventiva in ambito museale.

La pelle e la sua composizione

I termini pelle e cuoio, che in inglese vengono riassunti dal sostantivo leather, rientrano in una categoria di materiali realizzati a partire dalla pelle animale. A seconda del tipo di animale e dell’applicazione per cui si vuole utilizzare il supporto si possono avere prodotti molto diversi. Le caratteristiche sono strettamente legate ai processi che precedono la concia, al tipo di concia e alla qualità dei reagenti impiegati nelle varie fasi di produzione. Quindi, per comprendere il comportamento macroscopico del cuoio è indispensabile sia capirne la composizione chimica sia quali sono i fenomeni che, seppur avvenendo a livello microscopico, influenzano l’intera struttura.

In primo luogo, non si puo’ parlare di pelle e di cuoio senza citare il collagene, ossia la molecola principale che ne caratterizza la composizione. Nonostante esistano 28 tipi di collagene (Kadler, Baldock, Bella & Boot-Handford, 2007), quello più presente nella pelle è il tipo I. Essendo una proteina, il collagene è costituito da una serie di aminoacidi (definiti α o β a seconda della loro chiralità) uniti attraverso legami peptidici che si instaurano tra i gruppi amminico e carbossilico di due strutture aminoacidiche (vedi Figura 1).

Figura 1: Rappresentazione schematica della formazione di un legame peptidico
Figura 1: Rappresentazione schematica della formazione di un legame peptidico

Dal punto di vista chimico, la reazione è una condensazione e avviene per eliminazione di una molecola d’acqua; tale reazione è reversibile e dunque, in presenza di acqua e determinate sostanze che fungono da catalizzatori, la molecola può venire idrolizzata (Covington & Covington, 2009). Il processo di idrolisi ha un ruolo centrale durante l’intera lavorazione della pelle e anche in seguito, quando il prodotto è in uso ed è sottoposto all’azione del tempo e degli agenti deteriogeni.

L’organizzazione del collagene è molto elevata e comincia dalla ripetizione di triplette di aminoacidi: la glicina occupa generalmente la prima posizione e costituisce un terzo del totale degli aminoacidi, seguita da prolina e idrossiprolina. Si formano delle strutture chiamate α-eliche che, unendosi ancora a gruppi di tre, danno luogo alla tripla elica di protocollagene di dimensioni 300 x 1.5 nanometri (Covington & Covington, 2009). Le estremità delle triple eliche contengono una regione detta telopeptide che non ha la medesima struttura ad elica; tale zona è responsabile di legare una molecola di protocollagene a un’altra. Le diverse triple eliche iniziano poi a interagire e si formano delle fibrille nelle quali le triple eliche sono distanziate – in lunghezza – di 67 nanometri. Solo a questo punto si formano le vere e proprie fibre di collagene (Florian, 2011).

In questa struttura l’acqua si presenta in varie forme e con diverse funzioni: conferisce stabilità alle eliche facenti parte della molecola di collagene grazie alla formazione di forti legami; crea collegamenti inter- e intra-fibrillari; funge da solvente e quindi consente la circolazione degli agenti chimici durante i processi di lavorazione (Reich, 2005). Dal momento che ciascuna funzione dell’acqua è legata a un determinato livello strutturale del collagene, appare chiaro che anche l’eliminazione del composto assume un’importanza diversa e può causare problematiche differenti. Questo aspetto diventa centrale nel momento in cui si effettuano indagini sul degrado o i meccanismi di deterioramento.

Esaminando la pelle a un ingrandimento minore si possono fare ulteriori considerazioni. Osservando la struttura in sezione trasversale si identificano tre macroregioni: il grain, che costituisce la parte superiore della pelle e comprende le radici pilifere; il corium, subito sotto le radici ed esteso fino ai muscoli e tessuti grassi; e il flesh, la parte subito sotto la pelle che quindi forma la carne viva (Haines, 2011).

La pelle di ogni animale possiede uno spessore tipico di tale stratificazione e una distribuzione dei pori piliferi ben definita. Queste caratteristiche sono legate al tipo di animale e ad altri fattori quali l’ambiente di vita, alla sua dieta e all’età. Le diverse stratificazioni delle pelli influenzano le proprietà fisiche quali la flessibilità, la resistenza alla trazione e all’applicazione di pressioni e la compressibilità.

Processi di preparazione, concia e finitura

Sebbene la concia costituisca uno dei processi più noti che riguardano la lavorazione della pelle, di certo non è l’unico. In Figura 2 sono riportati i tipici trattamenti subiti dalla pelle dal momento in cui viene ottenuta come scarto dell’industria alimentare fino a quando non diviene un prodotto finito.

Figura 2: Processi di lavorazione della pelle e relativi prodotti intermedi
Figura 2: Processi di lavorazione della pelle e relativi prodotti intermedi

Esistono numerosi modi per conciare la pelle, ossia per effettuare trattamenti che la rendano non putrescibile e conferiscano alla struttura maggior stabilità idrotermica e resistenza al degrado (Beghetto, Matteoli, Scrivanti, Zancanaro & Pozza, 2013). Fino all’introduzione della concia al cromo nel 1884, il processo di produzione principale è stato la concia vegetale. Questo metodo si basava sull’immersione delle pelli, precedentemente preparate per rendere la struttura del collagene adeguatamente recettiva, in fosse contenenti acqua ed estratti di piante; le pelli venivano lasciate in questi bagni almeno per un anno, fino a quando non veniva raggiunto il colore desiderato e i capi potevano essere lavati, ulteriormente trattati e infine asciugati (Thomson, 2011). In genere la reazione che avviene tra tannini vegetali e collagene consiste nella formazione di legami come quello a idrogeno (Covington, 1997); tali legami garantiscono una discreta stabilità ma la loro resistenza è certamente inferiore a quella di altri legami.

La scoperta del processo di concia al cromo ha decisamente modificato la situazione per due ragioni principali: richiede meno tempo e l’efficienza del metodo è molto elevata. Non è un caso che, ancora oggi, tra l’80 e il 90 % delle pelli vengano conciate a cromo. Sebbene esistano ancora alcuni dubbi sull’esatto meccanismo di interazione tra cromo e collagene, la formazione di complessi di coordinazione e legami covalenti è data per assodata (Mann and McMillan, 2008). Uno dei principali miglioramenti che la concia al cromo introduce nella molecola di collagene riguarda la stabilità idrotermica, che costituisce uno dei parametri più utilizzati per testare la stabilità della pelle.

Pelli sintetiche

Nell’arco degli ultimi 150 anni sono comparsi sul mercato numerosi materiali artificiali che imitano quelli naturali. Inizialmente i sostituti artificiali vennero introdotti sul mercato per far fronte all’elevato costo delle pelli naturali che faceva anche aumentare il prezzo degli oggetti finiti da esse costituiti. Si iniziarono quindi a valutare dei metodi alternativi che consentissero all’industria di abbassare i costi e di rendere oggetti e capi di abbigliamento più facilmente accessibili a una quantità superiore di utenti. Varie tipologie di fibre (naturali e sintetiche) e tessuti iniziarono a essere utilizzate come supporto per i neo-introdotti polimeri che, grazie alla loro versatilità, si prestavano a questo genere di utilizzo. Attualmente le pelli sintetiche costituiscono un’ampia fetta del mercato legato ai rivestimenti da arredamento, alle imbottiture per sedili e all’abbigliamento (per esempio nell’ambito delle calzature).

I polimeri vengono utilizzati su molti tessuti, talvolta poco pregiati o costituiti da fibre poco tenacemente aderenti le une alle altre, in modo da aumentare il valore e ampliare le possibilità di impiego del prodotto finito. I processi di laminazione (lamination) e di rivestimento (coating) rappresentano le due categorie in cui si possono inscrivere le modalità di applicazione dei polimeri ai tessuti (Figura 3). La maggior differenza riscontrabile tra i tessuti laminati e quelli rivestiti è nella presenza o assenza di una sostanza con funzione di adesivo tra lo strato polimerico e il tessuto (Sen, 2008).

Figura 3: Rappresentazione schematica di un tipico tessuto laminato (a) e uno rivestito (b) in materiale polimerico
Figura 3: Rappresentazione schematica di un tipico tessuto laminato (a) e uno rivestito (b) in materiale polimerico

Va però detto che, proprio in virtù della grande varietà di tecniche disponibili, la distinzione tra i due processi è andata lentamente assottigliandosi. Questo genere di prodotti offre alcuni vantaggi rispetto alla pelle. Essendo un materiale prevalentemente sviluppato dall’uomo può essere modellato a seconda delle esigenze e del tipo di applicazione. Ciò significa che non è necessario adattare un substrato esistente a una specifica necessità, ma è invece possibile adoperarsi per creare un supporto su misura. Flessibilità e facilità di cucitura e lavorazione sono alcuni importanti aspetti tipici delle pelli sintetiche che influiscono sulla varietà di utilizzo (Fung, 2002). Altro vantaggio riguarda la gamma di colori disponibili, che è decisamente elevata per non dire virtualmente infinita.

Nonostante i vantaggi, la presenza di materiale polimerico e l’associazione con il termine finta pelle hanno determinato negli anni la sedimentazione di uno scetticismo diffuso nei confronti della pelle sintetica. Se da un lato bisogna riconoscere che l’origine del prodotto non è stata quella di un materiale pregiato, il livello di specializzazione oggi richiesto per la produzione di alcune tipologie è decisamente elevato.

Problematiche ambientali

È stato menzionato inizialmente che la lavorazione del cuoio rappresenta una delle più antiche industrie specializzate nella storia dell’essere umano. Se è vero che si è passati da metodi poco a molto efficienti e da condizioni di lavoro scarsamente a gradualmente dignitose, bisogna ammettere che i processi che conducono alla concia e la concia stessa (soprattutto quella al cromo) sono considerati altamente inquinanti. Per tale ragione il mondo delle concerie ha visto incrementare in maniera consistente in numero di restrizioni e regolamenti che ne governano l’attività, in particolar modo nell’area dell’Unione Europea. Questo ha determinato un deciso aumento delle esportazioni dei capi, nello stato wet blue, verso zone del pianeta meno interessate alle condizioni di lavoro degli operatori e alle tematiche ambientali. Il risultato è che solo un ristretto numero di concerie, rispetto a quelle presenti anche solo una quindicina di anni fa, è riuscito a sopravvivere e ad adeguarsi alle nuove norme (COTANCE and Industrial All, 2012).

I maggiori problemi associati ai processi di produzione della pelle sono l’impiego di prodotti chimici inquinanti e il trattamento delle acque impiegate durante la lavorazione (Mann & McMillan, 2008), i quali si vanno a unire alla quantità di inquinanti atmosferici derivanti non solo dai processi pre-concia ma anche da quelli di finitura. Inoltre, la quantità di collagene che esce dalle concerie sotto forma di pelle è circa il 50 % del totale, il che indica una notevole mole di scarto che deve trovare nuovo utilizzo o venire trasferita in discarica (Reich, 2005). Purtroppo la seconda opzione è quella che viene maggiormente messa in atto.

Studio del degrado con finalità conservative e industriali

In passato si è assistito innumerevoli volte all’introduzione di materiali innovativi in ambienti museali, soprattutto in seguito allo sviluppo delle plastiche. Questo è probabilmente imputabile a una serie di ragioni: la varietà di applicazioni e la versatilità che ciascun prodotto polimerico è capace di offrire; la curiosità di artisti e designer nei confronti dei nuovi prodotti sul mercato; la mancata consapevolezza della velocità con cui i processi di degrado possono avere luogo.

Partendo da queste considerazioni si può riflettere su come lo studio del degrado dei materiali in ambito conservativo possa risultare utile anche in quello industriale. Se negli ultimi vent’anni il numero di studi sui materiali plastici nelle collezioni museali sono aumentati notevolmente, creando un nuovo insieme di conoscenze nell’ambito del degrado della plastica (Shashoua, 2006; Lavédrine, Fournier & Martin, 2012; Waentig, 2008), rimane l’incognita dei materiali compositi e di tutti quei materiali che vengono introdotti sul mercato ignorando il loro futuro comportamento.

Partendo dagli aspetti positivi e dalle problematiche tipici delle pelli e dei sostituti sintetici, si possono ricavare informazioni importanti sulle proprietà e i comportamenti dei materiali compositi costituiti dagli stessi elementi. Questo approccio assume una duplice valenza: si propone come un metodo pionieristico di collaborazione tra la conservazione preventiva nel settore museale e l’indagine della stabilità dei prodotti condotta industrialmente; promuove l’attitudine alla ricerca della sostenibilità. Infatti, indagando anticipatamente i possibili meccanismi di degrado e i migliori metodi per prevenirlo, si promuovono non solo la prevenzione ma anche lo sviluppo di materiali più duraturi.

In conclusione, questo studio punta alla collaborazione tra l’industria e i musei sottolineando come tale approccio su ampia scala, favorirebbe lo sviluppo di un’etica comune che abbia come finalità il raggiungimento della sostenibilità.

Bibliografia

Beghetto, V., Matteoli, U., Scrivanti, A., Zancanaro, A. & Pozza, G. (2013). The Leather Industry: A Chemistry Insight Part I: an Overview of the Industrial Process. Sciences at Ca’ Foscari, 1, 13-22.

COTANCE and Industrial All. (2012). Social and Environmental Report – The European leather industry. Bruxelles: COTANCE.

Covington, A. D. (1997). Modern tanning chemistry. Chemical Society Reviews, 26(2), 111-126.

Covington, A. D. & Covington, T. (2009). Tanning Chemistry: The Science of Leather. London: Royal Society of Chemistry.

Florian, M. L. (2011). Collagen: the leathermaking protein. In: M. Kite & R. Thomson (a cura di), Conservation of leather and related materials (2° ed.) (pp. 4-10). Abingdon, OX: Routledge.

Forbes, R. J. (1957). Leather in Antiquity. Studies in Ancient Technology. Leiden, Netherlands: Brill, E. J.

Fung, W. (2002). Coated and Laminated Textile. Boca Raton, NW: Taylor & Francis Group.

Haines, B. M. (2011). The fibre structure of leather. In: M. Kite, & R. Thomson (a cura di), Conservation of leather and related materials (2° ed.) (pp. 11-21). Abingdon, OX: Routledge.

Kadler, K. E., Baldock, C., Bella, J. & Boot-Handford, R. P. (2007). Collagen at a Glance. Journal of Cell Science, 120, 1955-1958.

Lavédrine, B., Fournier, A. & Martin, G. (a cura di). (2012). Preservation of Plastic Artefacts in Museum Collections. Paris: CTHS.

Mann, B. R. & McMillan, M. M. (2008). The Chemistry of the Leather Industry. Unpublished.

Ravilio, K. (2010). World’s oldest leather shoe found – stunningly preserved. “Astonishingly modern” shoe preserved by sheep dung and dryness. National Geographic.

Reich, G. (2005). Leather. In F. Ullmann (a cura di), Ullmann’s Encyclopedia of Industrial chemistry (pp.621-664). Weinheim: Wiley-VCH Verlag.

Sen, A. K. (2008). Coated Textiles – Principles and applications (2° ed.). Boca Raton, NW: CRC Press.

Shashoua, Y. (2006). Inhibiting the inevitable; current approaches to slowing the deterioration of plastics. Macromolecular Symposia, 238(1), 67-77.

Thomson, R. (2011). The manufacture of leather. In M. Kite & R. Thomson (a cura di), Conservation of leather and related materials (2° ed.) (pp. 66-81). Abingdon, OX: Routledge.

Waentig, F. (2008). Plastics in Art. A study from the conservation point of view. Petersberg: Michael Imhof Verlag.

Futuro “chiavi in mano”

Di Vincenza Santangelo
Sostanziata dallo studio di materiali d’archivio, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa occasione per rileggere agli occhi della contemporaneità il peculiare modello organizzativo alla base di un laboratorio creativo dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Alle soglie della terza rivoluzione industriale si prefigura un futuro in cui saremo chiamati a confrontarci con la post-produzione e l’evanescenza della produzione materiale (Sassen, 2004), ereditando nuove terre con cui fare i conti (Marini, 2011). Il processo di migrazione della produzione di beni e servizi verso nuovi paradisi economici sta innescando un processo di ritrazione delle aziende dal territorio italiano (Moretti, 2013), producendo inevitabilmente degli scarti. Scarti materiali come lo svuotamento, anche di senso, degli stabilimenti delle aziende italiane: uno scenario di oltre 9.000 ettari di aree inutilizzate, che fisicamente si concretizza in un vasto ed articolato patrimonio materiale dismesso, dai nodi delle grandi piattaforme industriali alle minute costellazioni di capannoni medio-piccoli. Scarti immateriali come la dissolvenza delle competenze specifiche maturate nelle aziende nel corso dei decenni, tra cui l’attività progettuale svolta nel XX secolo – a cavallo fra gli anni Trenta e Settanta – all’interno delle grandi aziende italiane dagli Uffici Tecnici. Segmento del periodo d’oro delle imprese italiane rimasto nell’ombra, sono stati laboratori di anonimi disegnatori, capi progetto, direttori dei dipartimenti, tecnici, architetti, ingegneri, geometri che hanno esplorato contesti e situazioni differenti, ibridando i saperi e contribuendo alla trasformazione del territorio italiano e oltreconfine, disegnando luci e ombre di un’idea di mondo-azienda (Marini & Santangelo, 2014).

Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973 Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

La ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine – sostanziata dallo studio di materiali d’archivio e dal dialogo con la Fondazione Dalmine – diventa occasione per esplorare l’attività progettuale e costruttiva di questi laboratori dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Il futuro oltreoceano. Il ponte con gli Stati Uniti

Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

A partire dalla seconda rivoluzione industriale si innesca un processo di industrializzazione in Europa e negli Stati Uniti che nel giro di pochissimi anni conduce alla creazione di grandi aziende in determinati settori come la petrolchimica, l’energia, la siderurgia, i trasporti e la grande edilizia industriale (Cariati, Cavallone, Maraini & Zamagni, 2013). Il salto di scala produttivo determina sempre più spesso l’ampliamento fisico degli spazi del lavoro dell’azienda, facendo sì che negli Stati Uniti, già verso la fine dell’800, si iniziano ad introdurre nelle principali aziende industriali degli Uffici Tecnici, interni quindi alle case madri, destinati a gestire l’ampliamento organizzativo e fisico degli stabilimenti.

Nel 1906 l’azienda tedesca Mannesmann, specializzata nella produzione di tubi in acciaio senza saldatura, fonda un nuovo stabilimento nell’area rurale bergamasca denominata Dalmine. Al sorgere dello stabilimento si affiancano ben presto le infrastrutture di base che segneranno le premesse per la fondazione e lo sviluppo di una vera e propria company town: realizzazione delle case per i dirigenti e gli operai secondo diverse tipologie residenziali; introduzione di servizi come la scuola elementare, la caserma dei carabinieri, il refettorio, il garage, gli uffici postali; introduzione di standard minimi per gli spazi verdi e le strutture igieniche, in linea con i primi esempi di città-giardino di quegli anni. Nel frattempo il conflitto mondiale e l’entrata in guerra contro la Germania segnano il definitivo distacco dell’azienda italiana dall’azienda madre tedesca, con la successiva creazione di una nuova società tutta italiana (Dalla Valentina, 2006).

Gli anni Venti rappresentano l’inizio della fase di grande espansione dell’azienda in diversi mercati: tubi per condotte, impianti termici, conduzione di gas e trivellazioni, tralicci. Ciò evidenzia l’esigenza di rinnovare sia gli stabilimenti aziendali ma anche i principi organizzativi, che cominciano ad essere obsoleti. Inizia in tal senso a manifestarsi l’interesse della Dalmine, ma anche di molte altre aziende italiane come Olivetti e Fiat, ad esplorare la cultura aziendale e tecnica oltre l’Atlantico, dove le grandi aziende nordamericane con i loro Uffici Tecnici sono assunti come modello per mettere in atto i piani di espansione e modernizzazione (Banham, 1990; Castronovo, 1977; Olivetti, 1968).

A partire dal 1926 Agostino Rocca, direttore dei laminatoi e consulente della Dalmine, si reca negli Stati Uniti per delle “missioni tecniche e viaggi” (Lussana, 1998), visitando aziende come la National Tube Company, la Pittsburgh Steel Products, la United States Steel Corporation, la Ford e la Westinghouse Electriced entrando in contatto con i relativi Uffici Tecnici, dove tutte le competenze tecniche, le varie fasi e azioni e le relazioni che vi intercorrono sono rigidamente organizzate e sorvegliate dalla figura centrale del project engineer. All’interno del settore Engineering design & drafting si lavora affinché si riesca ad ottenere un tipo di progettazione spinta al dettaglio: dal collocamento sul sito di tutte le apparecchiature necessarie ai dettagliatissimi computi metrici dell’intero materiale occorrente (Rase & Barrow, 1957), cominciando ad adottare la strategia simile al just in time. L’iter progettuale è suddiviso per specialità (processo, civili, strumenti, ispezioni, supervisione ai montaggi ecc.) e ogni progetto è coordinato da un project manager, a cui viene affidato non solo il potere decisionale, ma soprattutto la responsabilità assoluta sulla riuscita del progetto. Viene introdotta la funzione “controllo del progetto” che dal punto di vista operativo consente di verificare l’andamento e la previsione dei costi e dei tempi di esecuzione del progetto, con dettagliate analisi di valutazione dei rischi, mentre la coordination procedure organizza per ogni progetto i ruoli, le competenze, le informazioni, i disegni e le loro revisioni attraverso un articolato processo di uniformazione delle modalità di trasmissione.

Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltreoceano: i viaggi di Agostino Rocca negli Stati Uniti, con l’assorbimento dei principi del taylorismo e il confronto con gli Uffici Tecnici nordamericani, diventano la molla per creare anche all’interno della Dalmine un Ufficio Tecnico con lo sguardo rivolto al modello nordamericano. I saperi, le informazioni, gli incontri di Rocca fatti durante i suoi molteplici viaggi diventano il punto di partenza per introdurre un Ufficio Tecnico che sostituisse quello ormai obsoleto e insufficiente creato alla fondazione dell’azienda stessa.

Il futuro oltre l’azienda. L’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine
Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

La disamina degli ordini di servizio della Dalmine e dei verbali dei Consigli degli organi dell’azienda è il punto di partenza per la ricostruzione puntuale dell’evoluzione della struttura dell’Ufficio Tecnico della Dalmine, evidenziando come nel 1926 1All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”., a partire dalla reinvenzione dell’ufficio preesistente ormai obsoleto, si avvia una sorta di smembramento in gruppi e divisioni sempre più specializzati, per fronteggiare la crescente complessità dei progetti affrontati e per ampliare il campo di intervento dell’azienda stessa. Si passa dalla struttura dell’Ufficio Tecnico destinato alla manutenzione degli impianti esistenti e alla progettazione e studio di nuove strutture, alla creazione di diversi Uffici Tecnici specializzati: l’IMA-Gruppo manutenzione ed esecuzione impianti, incentrato sulle operazioni di controllo del corretto funzionamento degli impianti esistenti e alla sorveglianza dei cantieri di quelli in costruzione; il TEI-Gruppo Tecnico Impianti, destinato a gestire l’apparato amministrativo e tecnico inerente costruzioni meccaniche, carpenterie e gru sia delle macchine che delle costruzioni edili; il PAS-Servizio Partecipazioni, Soci e Immobili che comprendeva sia la parte amministrativa degli immobili dell’impresa che la parte progettuale e di manutenzione dei medesimi immobili; il CAT-Centro Carpenteria Tubolare orientato nella sperimentazione, progettazione e realizzazione di strutture in tubolari come coperture, padiglioni espositivi, palificazioni e ponti.

Negli anni Venti l’Ufficio Tecnico è impegnato con l’esigenza di una riconfigurazione e ristrutturazione aziendale per essere competitiva a livello europeo. Ciò determina la modernizzazione dell’azienda dal punto di vista produttivo espandendosi soprattutto nel mercato dei pali elettrici e tralicci per le imprese ferroviarie, consolidando il rapporto con le Ferrovie dello Stato. Al consolidamento nel mercato si affianca anche quello dell’omonima company town che nel frattempo cominciava ad ampliarsi, affidando la progettazione delle infrastrutture, delle abitazioni destinate ai dipendenti e degli edifici pubblici all’architetto milanese Giovanni Greppi, delineando così un processo di urbanizzazione che sarà sancito con la nascita dal punto di vista amministrativo del comune di Dalmine nel 1927.

Giovanni Greppi, Quartiere operai, planimetria, Dalmine, anni Venti – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere operaio, planimetria, Dalmine, anni Venti. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Negli anni Trenta, con l’entrata in guerra, la Dalmine sposta la produzione verso materiali bellici, facendo sì che l’Ufficio Tecnico si confronti con una committenza militare ma anche nel completamento del centro di Dalmine con piazze ed edifici pubblici, sempre su progetto di Greppi, e nella realizzazione del nuovo stabilimento ad Apuania, che comprenderà anche la realizzazione di un complesso residenziale e attività commerciali, a cui seguiranno poi gli stabilimenti di Sabbio Bergamasco, Costa Volpino e Torre Annunziata.

Alla fine degli anni Quaranta, con la conclusione del secondo conflitto mondiale e l’inizio della modernizzazione del territorio italiano, l’Ufficio Tecnico comincia a mettere a frutto le conoscenze maturate, soprattutto le innovazioni riguardanti le strutture tubolari, per affiancare lo Stato nella progettazione e realizzazione di autostrade, gasdotti, oleodotti, elettrodotti, ponti tubolari, come ad esempio l’impianto NATO di La Spezia, il terminale per l’oleodotto a Falconara Marittima e l’acquedotto per l’approvvigionamento idrico di Ischia e Procida che vince il premio ANIAI 1958.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta il boom del settore petrolifero porta l’Ufficio Tecnico a confrontarsi con dei progetti oltre i confini nazionali, in quelli che all’epoca venivano definiti paesi emergenti, come la piattaforma di attracco delle petroliere nel Mar Rosso e la raffineria del Canale di Suez, che si configuravano come piccole isole artificiali di acciaio al largo delle coste totalmente autosufficienti, dotate di ogni comfort per gli addetti e collegate alla terraferma attraverso tubazioni sottomarine.

Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma del CAT-Centro Carpenteria Tubolare, 1958
Ricostruzione dell’organigramma del CAT- Centro Carpenteria Tubolare, 1958

Negli anni Sessanta esplode il boom economico e vengono introdotti i Piani Casa. Si concretizzano degli accordi con l’InaCasa che portano all’acquisto di alcuni lotti di case a Milano, a cui seguiranno investimenti per case popolari a Bergamo e nei comuni limitrofi a Dalmine, e la partecipazione al programma Gestione Case Lavoratori per la realizzazione di abitazioni a Milano e Roma (Lussana, 2014).

Publifoto, Fiera campionaria. Stand Dalmine, Milano 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Publifoto, Fiera campionaria, stand Dalmine, Milano 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltre i confini dell’azienda: l’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine dagli anni Venti agli anni Sessanta diventa cartina al tornasole della sfida di andare sempre oltre, di affrontare progetti sempre più complessi e di coinvolgere ed integrare competenze sempre più diversificate. L’azienda non è più solo il luogo fisico della produzione materiale, ma dove alle competenze progettuali si affianca una forte visione d’insieme dell’economia e della società. L’articolazione dettagliata e specializzata dell’Ufficio Tecnico consente alla Dalmine di valicare i “perimetri” aziendali, avviando e consolidando un esteso processo di progettazione degli spazi del lavoro e delle relative infrastrutture di servizio, ma anche di modernizzazione del territorio, configurando la Dalmine come dispositivo di progetto e strutturazione di paesaggi nazionali e internazionali.

Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro oltre la crisi. La Fondazione Dalmine

A partire dagli anni Settanta il ciclo degli Uffici Tecnici inizia un graduale esaurimento con l’affermarsi della società post-industriale e l’affiorante obsolescenza della piattaforma industriale italiana. Nel caso della Dalmine, l’acquisizione di nuovi stabilimenti da altre imprese pubbliche porta all’esaurimento del ruolo dell’Ufficio Tecnico nelle sue diverse declinazioni implicando una dismissione del sapere tecnico accumulato nei decenni precedenti. Si dissolve la capacità di prefigurazione del mondo, vengono a mancare visioni di futuro per i territori ed il ruolo del lavoro come elemento fondativo della città e dello spazio, l’anonimato cede il passo al protagonismo degli imprenditori, si affievolisce il dialogo fra pubblico e privato nel disegno dello spazio. Si dismette l’impegno progettuale delle aziende sul territorio e nel disegno degli spazi del lavoro, per cedere il passo a società di ingegneria con orientamenti fortemente tecnicisti e finanziari, ma spesso aride di nuove visioni di futuro. Nel quadro complessivo della delicata congiuntura di crisi economica e di dislocazione della produzione verso i paesi emergenti, si intravede tuttavia dei primi germi del progressivo innesco di un ciclo di inversione della delocalizzazione del Made in Italy e di ritorno al territorio italiano in termini di investimenti, per riconquistare e riconfigurare la sua piattaforma industriale (Bertagna, Gastaldi & Marini, 2012), puntando sulla nuova generazione di lavoratori e sul passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza (Florida, 2003).

La Dalmine, attraverso la creazione dell’omonima Fondazione, prova a reinventare l’azienda come luogo di formazione, insegnamento, rilancio. La sua storia e i suoi saperi maturati nel corso dei decenni, testimoniati dai ricchi materiali d’archivio in fase di sistematizzazione e valorizzazione, sono l’eredità culturale da cui partire.

Il futuro è oltre la crisi: in un momento in cui si riciclano materiali, ma anche idee, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa cartina al tornasole per leggere la trasformazione fisica e strutturale delle aziende nel territorio italiano, ma anche le possibili future traiettorie progettuali degli spazi del lavoro. Una vicenda entro cui rintracciare le mo­dalità di strutturazione di un laboratorio culturale ed architettonico per ripensare l’impegno progettuale delle aziende sul territorio italiano, il ruolo dell’architettura nel disegno degli spazi del lavoro, sviluppare riflessioni sul modello industriale di progetto dei territori, ritornare ad un possibile futuro “chiavi in mano” che consenta di andare oltre la crisi, il tecnicismo imperante, la dismissione materiale e immateriale, recuperandone i fattori competitivi e riaffermando l’azienda che torna a progettare il territorio, superando l’attuale scollamento e mettendo in gioco nuovi cicli che vanno oltre l’evanescenza della produzione.

Questo contributo prende le mosse dalla ricerca “Dalla Fabbrica al mondo. Gli Uffici Tecnici delle grandi aziende italiane” svolta all’interno dell’Assegno di Ricerca di Ateneo coordinato dalla Prof.ssa Sara Marini, Dipartimento di Culture del Progetto, Università IUAV di Venezia, Gennaio 2013 – Gennaio 2014.

Bibliografia

Banham, R. (1990). L’Atlantide di cemento. Edifici industriali americani e architettura moderna europea 1900-1925. Roma: Laterza.

Bertagna, A., Gastaldi, F., Marini, S. (a cura di). (2012). L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto. Macerata: Quodlibet.

Cariati, V., Cavallone, S., Maraini, E., & Zamagni, V. (a cura di). (2013). Storia delle società italiane di ingegneria e impiantistica. Bologna: Il Mulino.

Castronovo, V. (1977). Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945. Torino: Einuadi.

Della Valentina, G. (2006). Dalmine: un profilo storico. In F. Amatori, S. Licini (a cura di), Dalmine: 1906-2006. Un secolo di industria (pp. 31-80). Dalmine: Fondazione Dalmine.

Florida, R. (2003). L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni. Milano: Mondadori.

Lussana, C. (giugno 1998) Misure di razionalizzazione nella Dalmine degli anni Trenta. Sistemi & Impresa, 5.

Lussana, C. (2014) Fonti e spunti di ricerca dall’archivio della Fondazione Dalmine. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Gli Uffici Tecnici delle granzi aziende italiane. Progetti di esportazione di un fare collettivo (pp. 83-114). Padova: Il Poligrafo.

Marini, S. & Santangelo, V. (a cura di). (2014). Gli Uffici Tecnici delle granzi aziende italiane. Progetti di esportazione di un fare collettivo. Padova: Il Poligrafo.

Marini, S. (2011). Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto. Macerata: Quodlibet Studio.

Moretti, E. (2013). La nuova geografia del lavoro. Milano: Mondadori.

Olivetti, C. (1968). Lettere americane. Milano: Edizioni Comunità.

Rase, H.F., Barrow, M.H. (1957). Project Engineering of Process Plant. New York: John Wiley & Sons Inc.

Sassen, S. (2004). La città nell’economia globale. Bologna: Il Mulino.

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1. All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”.

Ceramica Made in Umbria

Intervista a Elisabetta Furin
La storia del territorio umbro è strettamente legata a quella del suo rapporto con l’arte della lavorazione della ceramica. Il progetto Ceramica Made in Umbria, avviato nel 2013, interpreta il recupero di tale tradizione come opportunità per aggregare una rete di imprese del settore e rilanciare la produzione locale sui mercati nazionali e internazionali.

Quando, come e perché nasce il progetto Ceramica Made in Umbria?

Il progetto nasce nel 2013, quando il servizio per l’internazionalizzazione, lo sviluppo economico e il credito alle imprese della Regione Umbria ha intrapreso un’indagine in merito alla situazione di crisi in cui attualmente versa lo scenario locale della lavorazione della ceramica. A scapito di un passato glorioso che lo ha reso famoso in tutto il mondo, quello della ceramica umbra appare ormai da anni come un settore in grave difficoltà, in cui all’assenza di investimenti finalizzati a generare innovazione ha corrisposto la dismissione di un ingente numero di imprese. È stato quindi per approfondire le cause di tale crisi che la Regione ha avviato una mappatura delle aziende ceramiche attualmente operanti in area umbra, nell’ottica di individuare quali, fra di esse, apparissero più adeguatamente “attrezzate” a supportare un’azione di rilancio produttivo e merceologico del settore. Lo studio, condotto in collaborazione con la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Perugia, ha portato alla selezione di una ventina di soggetti su più di un centinaio, fra singoli artigiani, micro-imprese e aziende di dimensioni più cospicue. Di qui è nata l’idea di un “contributo operativo” alla ricerca, volto alla progettazione di una serie di oggetti in ceramica in grado di intercettare più efficacemente le esigenze dei nuovi mercati nazionali ed esteri. Questo compito è stato affidato a me in qualità di docente dell’Istituto Italiano di Design, l’unica scuola in Umbria a includere il design del prodotto nella propria offerta formativa.

Elisabetta Furin
Elisabetta Furin

Quali sono dunque le cause di tale crisi?

La ceramica umbra ha tradizionalmente goduto di un elevato grado di consenso da parte del mercato, raggiungendo un picco fra gli anni ‘80 e ‘90 del XX secolo. La crisi finanziaria globale, da un lato, e le rinnovate esigenze manifestate dal pubblico in termini economici ed estetici, dall’altro, hanno fatto sì che tale domanda calasse drasticamente nel giro di pochi anni, cogliendo le aziende del distretto del tutto impreparate a far fronte alla situazione. Le tecniche produttive e gli stilemi formali a cui esse si attenevano erano ancora quelli che hanno fatto celebre la storia della maiolica umbra, ma che al giorno d’oggi, per varie ragioni, non risultano più sostenibili (basti pensare che un piattino del diametro di 20 cm completamente dipinto a mano può arrivare a costare intorno ai 300 euro). Per anni queste aziende hanno vissuto di rendita senza prendere in considerazione le future evoluzioni del mercato, e ciò ha finito per mettere in crisi il settore stesso, e i modelli di produzione e fruizione su cui esso si era fino ad allora basato.

Case, set di vassoi in due dimensioni. L'Antica Deruta, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Case, set di vassoi in due dimensioni. L’Antica Deruta, Deruta (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Quante aziende sono coinvolte nel progetto, e in che modo sono state selezionate?

Il progetto coinvolge 21 aziende, selezionate in base a prerogative che denotassero una particolare propensione a innovare e internazionalizzare la propria attività produttiva: un solido apparato tecnico e organizzativo, una buona percentuale di esportazioni all’estero, l’adozione di strategie di comunicazione e vendita online… E via dicendo. Al tempo stesso, la selezione ha tentato di riflettere la ricchezza e la varietà delle tecniche di lavorazione ceramica storicamente diffuse sul territorio umbro: le aziende che partecipano al progetto appartengono non solo all’area di Deruta (il centro produttivo più noto e rinomato), ma anche a realtà come Gubbio, Gualdo Tadino, Orvieto e altre ancora, ciascuna con le sue caratteristiche e peculiarità. È stato principalmente questo aspetto a suggerirmi l’idea di una collezione di prodotti che, a partire dalla tradizione della ceramica umbra intesa nella sua unitarietà, sapesse anche rispecchiare e valorizzare le specificità locali.

Coppa, ciotoline con cucchiaino, anche cocotte da forno, in due grandezze. Azienda Mastro Giorgio, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Coppa, ciotoline con cucchiaino, anche cocotte da forno, in due grandezze. Mastro Giorgio, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Che tipo di modello produttivo ed economico risiede alla base della nuova collezione di prodotti?

Per agevolare economicamente le imprese senza per questo penalizzare la prestazione del designer, oltre ai costi di realizzazione degli stampi e dei prototipi la Regione Umbria ha scelto di coprire anche quelli di progettazione. I diritti della collezione appartengono alla Regione, e ogni impresa coinvolta ne produce uno o più pezzi, svincolata dal pagamento di royalty nei confronti del progettista e facendosi carico unicamente dei costi legati ai processi di produzione degli articoli avuti in concessione. In questo modo i prodotti della collezione valorizzano anche le abilità specifiche delle singole aziende, a partire dalla loro identità storica e dalle tipologie di prodotti già consolidate verso i loro abituali clienti di riferimento.

Maschio e Femmina, set di bicchierini per shot e finger food . Rampini, Gubbio (PG). © Foto di Michele Tortoioli
Maschio e Femmina, set di bicchierini per shot e finger food . Rampini, Gubbio (PG). © Foto di Michele Tortoioli

Perché ritieni importante recuperare la tradizione della ceramica umbra?

In un territorio come l’Umbria, ricco di boschi e fiumi, l’argilla si offre spontaneamente, e fin dai tempi degli Etruschi la produzione di oggetti in ceramica ha rappresentato un’importante testimonianza di evoluzione economica, artistica e culturale. È tuttavia con il Rinascimento che il settore raggiunge la sua soglia di massimo sviluppo, quando artisti come Raffaello, Pinturicchio e il Perugino commissionano agli artigiani ceramisti la messa in forma di oggetti elaborati a partire dai dettagli presenti nelle proprie opere, dando vita agli esemplari che possiamo ammirare oggi in alcuni dei musei più importanti del mondo. Lavorando alla nuova linea di prodotti ho ritenuto imprescindibile confrontarmi con una tradizione che ha segnato a tal punto l’identità storica della nostra regione: ho anzi sentito che, per realizzare qualcosa che fosse al tempo stesso innovativo e tipicamente umbro, era necessario partire proprio dal recupero di questa tradizione, proiettandola nella contemporaneità tramite una rilettura che agisse analogamente sul piano produttivo, funzionale ed estetico.

Fiasca, Brocca da 1.5 l per bevande e ampolla da 200 ml per condimenti. Bizzirri, Città di Castello (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Fiasca, brocca da 1.5 l per bevande e ampolla da 200 ml per condimenti. Bizzirri, Città di Castello (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Cos’è il Banchetto Contemporaneo, e a che categoria di pubblico si rivolge?

Il Banchetto Contemporaneo è una collezione composta da 45 articoli (in prevalenza oggetti da tavola, ma anche altre differenti tipologie di prodotti), che fa riferimento a un mercato contract e retail di alto livello nel campo della ristorazione e dell’ospitalità. Nel reinterpretare un tema ricorrente nella tradizione della ceramica umbra, quello del banchetto, la collezione tenta di intercettare i nuovi scenari della socialità condivisa, concentrandosi principalmente su situazioni conviviali quali catering, degustazioni, aperitivi. Gli oggetti della collezione nascono per connotare scenograficamente lo spazio collettivo e, pur non escludendo un loro possibile uso nel privato delle mura domestiche, si prestano maggiormente a essere impiegati nell’ambito di occasioni speciali piuttosto che a una fruizione quotidiano e di routine. La scelta di una vendita al dettaglio (pensiamo ad esempio agli hotel e ai ristoranti italiani all’estero) è stata motivata anche dai limiti tecnici e funzionali del materiale: la maiolica è molto fragile e, pur essendo un materiale povero, al contrario di impasti come porcellana e grès, non risulta particolarmente adatta a un utilizzo di vasta scala.

L’intera collezione

Quali sono gli aspetti del processo tradizionale di lavorazione della maiolica che il progetto va a recuperare?

La lavorazione tradizionale è legata all’uso del tornio, alle forme di rotazione, alla circolare perfezione descritta ne I tre libri del vasaio di Cipriano Piccolpasso, in cui il trattatista cinquecentesco raccoglie e sintetizza le conoscenze tecniche sulla produzione della ceramica fino ad allora codificate. Gli oggetti che compongono la collezione richiamano le geometrie realizzabili al tornio, ma sono prodotti tramite stampi in gesso a colaggio: tecnologia, anch’essa di origini antichissime, che permette di ottenere forme anche complesse con costi ridotti e logica di serialità, facendo eco a una standardizzazione di tipo industriale pur rimanendo un procedimento essenzialmente artigianale. Un’ulteriore prerogativa della collezione fa riferimento a un’istanza di astrazione estetica e formale. Storicamente la maiolica è dipinta, fattore che portato, nel corso del tempo, ad assimilare tale lavorazione alla stregua di una vera e propria forma d’arte, tradendone in un certo senso il principio originario: quello di abbellire gli oggetti d’uso quotidiano. Nel mio progetto ho privato la pittura di questo ruolo centrale attribuendolo invece alla materia, tramite la creazione di motivi in rilievo ispirati alle decorazioni pittoriche tradizionali; il colore è invece ridotto a poche pennellate, che, a seconda di come il pigmento si distribuisce fra una rientranza e l’altra, creano effetti unici e irripetibili che contribuiscono a rimarcare il carattere artigianale di ciascun prodotto.

Bacile, piatto da portata. Pimpinelli, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Bacile, piatto da portata. Pimpinelli, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli

E in che modo il progetto mette in relazione tale tradizione produttiva con il panorama delle tecnologie attuali?

Le texture che appaiono in rilievo sulla superficie dei pezzi sono state disegnate attraverso un software CAD e successivamente trasferite su maschere in lamiera metallica da imprimere sul materiale in fase di stampaggio. Oltre al fatto che sarebbe stato assurdo chiedere allo stampista di riprodurre delle forme così regolari e minute direttamente all’interno dello stampo, tale procedura asseconda tecnicamente l’idea di decoro applicato come strato materico anziché cromatico. Un secondo aspetto riguarda l’utilizzo di un codice QR, leggibile tramite smartphone e altri dispositivi mobili, in luogo del classico marchio di fabbrica con cui ogni bottega usava siglare i propri pezzi per denotarne la provenienza. Grazie a questo sistema, ciascun pezzo rimanda interattivamente a un contenuto online correlato, che permette di rintracciare, insieme ai dati dell’azienda produttrice, alle specifiche tecniche del prodotto e alle informazioni sull’acquisto, anche un approfondimento storico sul dettaglio della tradizione locale a cui l’articolo in questione si ricollega.

Mug, set di tazze impliabili. G & P. di Gialletti e Pimpinelli © Foto di Michele Tortoioli
Mug, set di tazze impliabili. G & P. di Gialletti e Pimpinelli © Foto di Michele Tortoioli

Quali sono state le strategie di comunicazione legate al progetto?

L’identità visiva trae ispirazione dagli elementi tipici del processo produttivo della ceramica: il logo, ad esempio, richiama il profilo del parallelepipedo di argilla, il blocco di materia grezza da cui la lavorazione ha inizio per svilupparsi attraverso configurazioni via via sempre più articolate. Dal punto di vista comunicativo, un ruolo predominante è stato affidato al sito web, realizzato con la logica dell’app e pertanto facilmente fruibile su dispositivi sia desktop che mobile. Interamente gestito dallo studio perugino Salt & Pepper, il progetto di immagine coordinata e comunicazione di Ceramica Made in Umbria è stato di recente selezionato per la partecipazione all’edizione 2016 di ADI Design Index.

Ceramica Made in Umbria, logo del progetto
Ceramica Made in Umbria, logo del progetto
Ceramica Made in Umbria, sito web del progetto
Ceramica Made in Umbria, sito web del progetto

Che tipo di impatto economico ha riscontrato il progetto a livello sia nazionale che internazionale?

Il Banchetto Contemporaneo è stato presentato per la prima volta nell’ambito della grande mostra dedicata a Steve McCurry tenuta a Perugia nel 2014. Successivamente è stato proposto in diverse altri circostanze – in occasione delle manifestazioni milanesi del Salone del Mobile e Homi, ad esempio, e anche all’estero, nel contesto della sede newyorchese di Eataly –, in ciascuna delle quali ha ricevuto riscontri molto favorevoli e incoraggianti da parte del pubblico. Tuttavia, nonostante l’interesse suscitato dal progetto in ambito sia nazionale che internazionale, è venuta a mancare la creazione di una struttura commerciale in grado di gestire tale richiesta a livello di brand unitario. Per suo stesso statuto la Regione non può assumere ruoli e fini commerciali, per cui ad assolvere questo compito avrebbero dovuto essere le aziende, cooperando nella messa a punto delle strategie di produzione, promozione e distribuzione dell’intera collezione. Purtroppo, anziché una propensione al lavoro in squadra, le aziende coinvolte nel progetto hanno dato prova di una certa tendenza all’individualismo che ha inibito in partenza la possibilità di agire entro una dimensione che fosse effettivamente di rete. L’aggregazione, come sottolineano le direttive emanate a tal riguardo dall’Unione Europea, è l’unica opzione che queste aziende hanno oggi per rilanciare la propria produzione all’interno del mercato globale: un’opzione che il sistema dell’imprenditoria umbra sembra non essere ancora pienamente maturo ad accogliere.

Breaking the Mould.

Intervista con AUT
Nel panorama italiano della produzione artigianale, il contesto dell’isola di Murano possiede una posizione di indubbio rilievo per la sua millenaria tradizione nel settore relativo alla lavorazione del vetro soffiato. A fronte di tale specificità, tuttavia, il distretto muranese vive ormai da anni una condizione di lento declino, causato in prima istanza dalla difficoltà che le aziende locali sperimentano nel mettersi al passo con le sempre più incalzanti esigenze del mercato. È in questo scenario che, a partire dal 2011, si colloca Breaking the Mould: un progetto di ricerca analitica e sperimentale che ragiona sulla possibilità di recuperare le tecniche tradizionali di soffiatura del vetro muranese integrandole con le opportunità innovative offerte dall’attuale contesto tecnologico, con l’intento di approdare all’individuazione di approcci produttivi in grado di coniugare proficuamente tradizione e innovazione.

Come e quando nasce Breaking the Mould?

In seguito a varie sperimentazioni condotte individualmente da alcuni di noi sul vetro soffiato a bocca, alla fine del 2011 abbiamo sentito l’esigenza di creare uno spazio di condivisione di saperi ed esperienze, il più possibile aperto e multidisciplinare: una vera e propria piattaforma di ricerca e sperimentazione, che coinvolgesse non soltanto designer, ma anche artigiani, tecnici, scienziati dei materiali, videomaker, architetti. Ciò che ci interessava maggiormente allora, e ci interessa tutt’ora, è creare piccoli cortocircuiti all’interno del mondo tradizionale e consolidato del vetro artigianale, che riescano a introdurre un qualsiasi grado di innovazione formale, tipologica o produttiva. Ovviamente è un processo non sempre facile, di mediazione, con risultati a medio e a lungo termine.

BTM 01 / The Mould – Esperimento 02a
BTM 01 / The Mould: esperimento 02A
Quali sono i principali aspetti del processo tradizionale di soffiatura del vetro muranese su cui avete concentrato le vostre sperimentazioni?

I primi tre progetti si sono concentrati sul processo di soffiatura a stampo, inteso come una delle principali tecnologie produttive attraverso cui è possibile dare forma al vetro. È una decisione che abbiamo preso per il valore culturale che questo particolare processo possiede, dovuto al suo legame con la storia e l’identità del contesto produttivo muranese. È stato, infatti, il metodo tradizionalmente più utilizzato a Murano per la realizzazione di oggetti in vetro, in particolar modo per quelli di uso comune. È certamente meno spettacolare, meno “artistico” delle lavorazioni a mano libera, ma è altrettanto interessante perché, per sua natura, sottintende un legame quotidiano con la lavorazione del vetro e le sue implicite dinamiche. Insomma: con la vita di tutti i giorni di una tipica fornace muranese.

BTM 03 / Venice>>Future –  In Salviati durante le fasi di soffiaggio
BTM 03 / Venice>>Future: in fornace durante le fasi di soffiaggio (Salviati)
E in che modo, di contro, avete messo in relazione le specificità implicite in tale tradizione produttiva con il panorama delle tecnologie attuali?

Le prime due fasi del progetto (BTM 01/The Mould e BTM 02/Pattern) questo processo produttivo è stato alterato: i tradizionali stampi in legno di pero, usati per formare il vetro, sono stati sostituiti da “tubolari” cuciti con tessuti “tecnici” a matrice ceramica e silicea (solitamente utilizzati in ambito siderurgico e quindi studiati per resistere a temperature estemamente elevate). Con BTM 03 / Venice>>Future, l’ultimo progetto realizzato (e presentato al FuoriSalone 2015), abbiamo esplorato invece le possibilità di implementazione di questo processo attraverso l’utilizzo di alcuni elementi prodotti mediante una stampante 3D per ceramiche e porcellane.

BTM 01 / The Mould
BTM 01 / The Mould: l’intera famiglia
BTM 02 / Pattern
BTM 02 / Pattern: l’intera famiglia
BTM 03 / Venice>>Future  – Famiglia
BTM 03 / Venice>>Future: l’intera famiglia
Che generi di professionalità sono coinvolte nel progetto, e quali ritenete siano stati i relativi contributi alla sua evoluzione?

Proiettarsi verso una ricerca “attiva”, che rispetti la tradizione ma ne proponga al contempo una una lettura alternativa – in questo caso coniugandola, per quanto possibile, con mirate innovazioni tecnologiche – non può prescindere dal coinvolgimento di persone con competenze differenti, capaci di arricchire il progetto conferendo ad esso stabilità e ampio respiro. Ognuno mette a disposizione del progetto la propria esperienza per cercare di raggiungere un obiettivo soddisfacente e condiviso. Quindi, come detto, progettisti e “tecnici”, ma anche esperti di comunicazione e videomaker. Siamo infatti convinti che un’adeguata gestione degli strumenti comunicativi sia fondamentale per divulgare opportunamente il progetto nella sua interezza e complessità.

BTM 01 / The Mould – In fornace durante le fasi di soffiatura (Salviati)
BTM 01 / The Mould: in fornace durante le fasi di soffiatura (Salviati)
BTM 02 / Pattern – Workshop a Londra coordinato da Rebecca Hoyes per la produzione di una serie di tessuti tubolari in tessuti silicei
BTM 02 / Pattern: workshop a Londra coordinato da Rebecca Hoyes per la produzione di una serie di tessuti tubolari in materiale siliceo
Quali sono le principali categorie di pubblico a cui il progetto si rivolge?

La ricerca, in alcuni casi, può accrescere il proprio impatto culturale se viene appositamente concepita per essere condivisa. In tal senso, comunicare il proprio operato per singoli passi rappresenta una modalità estremamente efficace per verificare la loro effettiva validità. Dal nostro punto di vista, proviamo a fare questo su due fronti opposti: da un lato, attraverso selezionati momenti espositivi, cerchiamo di mostrare i risultati ottenuti a un pubblico internazionale (come è avvenuto recentemente con il terzo step del progetto, Venice>>Future), dall’altro crediamo sia necessario divulgare il nostro operato a livello locale, cercando il dialogo con le istituzioni (università in primis, stazione sperimentale del vetro di Murano) e le altre aziende vetrarie.

BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012
BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012
BTM / Threads – Evolutionary steps in glass, Galleria Venice Art Factory, Venezia, 2014
BTM / Threads – Evolutionary steps in glass, Galleria Venice Art Factory, Venezia, 2014, invito
Nel corso della storia, diversi altri designer e artisti si sono confrontati con il processo produttivo del vetro muranese e con il più ampio contesto culturale in cui esso si colloca. Rispetto a tali interventi, ritenete che il vostro lavoro si collochi in una relazione di rottura o di continuità?

La storia della produzione vetraria veneziana ha vissuto momenti in cui si è assistito a un’accelerazione nell’evoluzione tecnologica e formale, che ha portato, nella maggior parte dei casi, a risultati eccezionali. L’ultima fase caratterizzata da questa spinta alla ricerca, questa spinta a innovare e rinnovarsi, è rilevabile tra gli anni venti e quaranta del secolo scorso, e il suo esempio più limpido rimane la collaborazione tra Carlo Scarpa e l’azienda Venini. Scarpa riscoprì alcune tecniche produttive cadute in disuso, ne inventò di nuove, lavorò a stretto contatto con i maestri vetrai: in sostanza riuscì ad attuare una perfetta sinergia tra progettazione e produzione.
Fu in grado di pensare al vetro non solo come a un materiale legato alla tradizione, ma anche e soprattutto come a un vasto argomento di ricerca e sperimentazione, capace di dare adito a soluzioni innovative sia dal punto di vista formale che tecnologico. Ed è in questo senso che ci sentiamo di lavorare in piena continuità.

BTM 03 / Venice>>Future – in fornace Salviati
BTM 03 / Venice>>Future: in fornace (Salviati)
Quali sono, a vostro avviso, le cause della condizione di crisi economica e produttiva in cui attualmente versa il distretto produttivo muranese, e in che modo il vostro progetto tenta di rispondervi?

Le cause sono molteplici. Fra le più eclatanti rientrano indubbiamente la crisi economica internazionale, la concorrenza sul mercato e la mancanza di una politica di sostegno capace di tutelare le specificità produttive del nostro paese. Ma esistono anche problematiche più profonde, radicate alla specificità del contesto locale: fra queste, in prima istanza, rileviamo la progressiva perdita di identità e obiettivi condivisi che, negli ultimi decenni, ha interessato sempre più insistentemente la realtà del distretto produttivo muranese. Nel relazionarsi con una situazione così complessa e sfaccettata, il progetto non aspira ad avanzare risposte certe o soluzioni definitive, ma piuttosto a inserirsi nella produzione del vetro di Murano confrontandosi con tale materiale in maniera analitica e sperimentale: in che modo è possibile aggiornare un processo produttivo artigianale senza snaturarne le prerogative essenziali? Come ampliare l’immaginario collettivo connesso con la dimensione degli oggetti in vetro arricchendolo di nuovi e inediti punti di vista? Qual’è il ruolo dell’artigianato, e nella fattispecie della lavorazione del vetro, in relazione al contesto contemporaneo?

BTM 02 / Pattern Esperimento 09
BTM 02 / Pattern: esperimento 09
BTM 03 / Venice>>Future – Esperimento 09
BTM 03 / Venice>>Future: esperimento 09
I presupposti di tale crisi risiedono evidentemente anche nella difficoltà che il distretto muranese sperimenta al giorno d’oggi nel promuoversi, comunicarsi, esplicitare la propria identità. È una componente, questa, che l’identità in continua evoluzione di Breaking the Mould prova a rispecchiare?

Il problema della “giusta” rappresentazione e della mancanza di attenzione comunicativa è evidente. L’immaginario del vetro artigianale Muranese nella maggior parte dei casi è cristallizzato e stereotipato. La comunicazione di BTM invece segue la sperimentazione. Possiamo considerarla al pari degli esperimenti “imprevedibile” perchè nasce e si sviluppa sul campo non prima o dopo. E una fotografia scattata in corsa, senza cavalletto né post-produzione. Un’identità instabile, che assimila errori, variazioni e che ingloba le caratteristiche delle professionalità che si aggiungono alla piattaforma.

BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012, manifesto
BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012, manifesto
BTM / Learning in glass, Aram Gallery, Londra, 2013
BTM / Learning in glass, The Aram Gallery, Londra, 2013, cartolina
BTM / Venice>>Future – Subalterno 1, Milano, 2015, brochure
BTM / Venice>>Future, Subalterno 1, Milano, FuoriSalone 2015, brochure
Quali sono le prospettive future del progetto?

Continueremo a lavorare per far sì che questa piattaforma rimanga culturalmente e produttivamente attiva. Nello specifico l’intenzione è quella di esplorare ulteriormente la relazione tra vetro e tecnologie di stampa 3D della ceramica, coinvolgendo una realtà locale con grande conoscenza del mondo vetrario muranese e una internazionale che rappresenta un punto di riferimento in fatto di innovazione legata alle nuove tecnologie.

BTM 03 / Venice>>Future – stampa 3D di componenti in ceramica refrattaria
BTM 03 / Venice>>Future: stampa 3D di componenti in ceramica refrattaria