Il recycle come opzione e come necessità

Di Ezio Micelli
Alla luce dell’attuale scenario economico, l’autore individua nella pratica del riciclo una delle principali agende della cultura architettonica del futuro, proponendo un insieme di linee guida utili a indirizzare il progetto entro condizioni favorevoli perché l’azione di riciclo possa tradursi anche in vantaggio economico, produttivo e culturale.

0. Introduzione

La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile pensare e promuovere gli interventi nelle città.

Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sosteniblità, consenso e sviluppo.

Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate quando non del tutto infondate.

Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock – di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare nella città del prossimo futuro.

1. Il new normal dell’economia e delle città italiane

L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%).

L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da parte delle amministrazioni a tutti i livelli 1Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.
– e sui mercati immobiliari delle nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori.

Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte: Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte: Ance e Banca d’Italia).

Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione.

La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012).

Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta.

Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infra- strutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più precisamente, dei “sistemi territoriali locali” (Calafati, 2009) in cui le città si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati.

2. Valore, forme, energia

La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città.

Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione.

La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012).

Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori nei confronti della trasformazione dell’esistente.

3. La selezione necessaria

Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate.

In un recente saggio (2013), Marini sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni – si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale, da quelle prive di un simile potenziale.

Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale.

Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile, perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni esito del riciclo stesso.

4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente

Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione possibile.

Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa seguito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali.

In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area.

Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi.

Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di va- lore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente.

Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella & Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente.

Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea massimizzazione di rendite e profitti.

5. Quando il recycle è l’unica opzione

Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città.

I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non proprio marginali.

In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate al Piano Casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente.

A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che è stata definita la “rottamazione” della città del dopoguerra in vista di futuri investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a “concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti” (Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento dovranno dedicarsi con rinnovato impegno.

6. Una necessaria estetica del riuso

La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evi- denti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile.

Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli interventi, costituisce un problema di non poco conto.

La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della “città dei ricchi e la città dei poveri”, esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie – in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Ciorra & Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza.

Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata.

Originariamente pubblicato in:

Marini, S., & Roselli, S. (a cura di). (2014). Re-Cycle Op.Positions I. Roma: Aracne. Disponibile presso: http://recycleitaly.net/quaderno/05-re-cycle-op-positions-i/

Bibliografia

Calafati, A. (2007). Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia. Roma: Donzelli.

Camagni, R. (marzo 2012). La città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione. Eyesreg – Giornale di Scienze Regionali, 2(2), pp. 60-63.

Catella, M., & Doninelli, L. (2013). Milano si alza. Porta nuova, un progetto per l’Italia. Milano: Feltrinelli.

Ciorra, P. (2011). Senza architettura. Le ragioni di una crisi. Bari: Laterza.

Ciorra, P., & Marini, S. (a cura di). (2012). Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta. Milano: Electa.

Coppola, A. (2012). Apocalyse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana. Bari: Laterza.

Marini, S. (2013). Post-produzioni o del problema della scelta. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland (pp. 13-17). Roma: Aracne.

Owen, D. (2009). Green Metropolis. Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys to Sustainability. New York: Riverhead Books.

Secchi, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari: Laterza.

Viganò, P. (2012). Elements for a Theory of the City as Renwable Resource. In L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (a cura di), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion (pp. 12-13). Pordenone 2012: Giavedoni.

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1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.