Il 29 febbraio del 1960, un terremoto rade al suolo la città di Agadir, in Marocco, seppellendone l’immagine tra le macerie. Nella distruzione, perdono la vita 20.000 persone.
L’antica Qasba, eretta sopra un promontorio a presidio del territorio, e il quartiere di fondazione berbera conosciuto come Yachech scompaiono in pochi attimi, mentre gli edifici dei quartieri Founti e Talborjt, costruiti rispettivamente tra il 1920 e il 1930 e tra il 1935 e il 1950, subiscono gravi crolli e danni strutturali irreparabili (Falconer, 1966).
La catastrofe scuote profondamente l’intero Paese, eppure, da questo scenario atroce, si solleva prontamente un vigoroso élan vital unanime che conduce un intero popolo a mobilitarsi su tutti i fronti e a concentrare gli impegni nella realizzazione di una grande opera urbanistica e architettonica corale.
Questo carattere di bene comune connota Agadir sin dal momento della sua fondazione: il suo nome, in lingua Amazigh, significa letteralmente “granaio collettivo fortificato”. Tale aspetto fornisce un indizio che lascia comprendere quale sia sempre stata la portata strategica e la natura identificativa di questo luogo per la regione e per le genti che l’hanno popolata.
Agadir si trova, infatti, in una posizione territoriale cruciale, dove i monti dell’Atlante si abbassano per sfiorare le rive dell’oceano, a presidiare la fertile vallata del Wadi Souss. La facilità di navigazione delle acque e l’abbondanza di pescato fanno sì che, ai piedi dell’agadir, si vada a insediare un modesto villaggio di pescatori berberi che, nel corso dei secoli, successivamente alla conquista portoghese, acquista un importante ruolo come scalo delle rotte navali mercantili diventando Santa Cruz do Cabo de Gué. Nel 1505, queste sue peculiarità la conducono ad assumere il ruolo di porto principale del Marocco meridionale, rendendo necessaria la costruzione di fortificazioni militari a proteggere le crescenti ricchezze. La città mantiene questa carica anche a seguito delle lotte che portano alla deposizione del governatore Guterre de Monroy da parte delle tribù locali nel 1541, perdendola solamente nel 1760, quando, a causa dell’instabilità politica della regione, il sultano Sidi Mohammed Ben Abdullah decide di deviare definitivamente tutte le rotte sul porto di Essaouira. Il borgo viene infine occupato dall’esercito francese il 14 giugno 1913, ma trovandosi in un’area remota del territorio marocchino, difficile da controllare dal punto di vista politico e militare, non viene ritenuta idonea per un utilizzo commerciale e strategico intensivo, lasciando la località in una posizione economicamente marginale. Ciò nonostante, l’abbondanza di pesce nelle acque circostanti comporta lo svilupparsi di una fiorente attività di pesca e di un’importante industria di manifattura e conservazione del pescato (Dartois, 2008). Per questa ragione, dai primi anni Venti, il governo coloniale incarica il service de l’Urbanisme, l’organo deputato allo sviluppo urbano e territoriale del Marocco diretto dall’architetto e urbanista Henri Prost, di trasformare il modesto villaggio in una città modello (Cohen & Eleb, 2004).
Il piano dell’ingegnere Jean Raymond è evidentemente caratterizzato dall’intento di separare la popolazione locale dai coloni, prevedendo l’edificazione di due aree lungo la costa, nettamente distaccate, seppure accomunate sul piano progettuale da un disegno urbano di matrice eclettica (Raymond, 1923).
La borgata a ovest, situata ai piedi del promontorio sormontato dalla Qasba, viene concepita con lo scopo di ospitare la popolazione locale – il Talborjt, che in dialetto tachelit significa “piccolo fortino” –, mentre il quartiere a est, contraddistinto dalla sua forma a ferro di cavallo, situato oltre il Wadi Tildi, è destinato ad accogliere la popolazione europea.
A seguito dell’ingentissimo sviluppo industriale dei primi anni del secondo dopoguerra, il Marocco si trova a dover affrontare una grave emergenza: la mancanza di un vero centro economico strategico nel sud del paese provoca un graduale spopolamento delle aree rurali, dovuto a un’emigrazione massiva verso le grandi città industriali come Casablanca o Rabat (Embarek, 1965).
Così, sia per porre un argine ai problemi di ordine pubblico e sanitario derivanti dal sovraffollamento dei centri del nord, sia per motivare le popolazioni a non spostarsi da una regione così ricca di risorse agricole e minerarie, il governo del protettorato inizia a impiegare mezzi per la creazione di un nuovo capoluogo regionale del Souss.
Contemporaneamente, al fine di rendere ben chiara la presenza del protettorato in questa regione, Agadir viene trasformata strategicamente in una prospera località di villeggiatura per abbienti turisti, accentuando la suddivisione in zone funzionali, razionalmente compartimentate da un progetto di Michel Ecochard, allora a capo del Service de l’Urbanisme.
Il piano prevede, oltre all’ampliamento del porto, un’ulteriore estensione della città verso sud, che ha lo scopo di separare le attività turistiche da quelle produttive attraverso l’edificazione di un vasto quartiere industriale e relativa zona residenziale (Ecochard, 1923).
È, tuttavia, la collocazione geografica di Agadir, origine della sua fortuna, la cagione stessa del suo annullamento. Proprio dove sorge, infatti, la porzione dell’Atlante Sahariano che ripiega verso sud, entra in contatto con la Zolla Africana, creando una grande faglia – la linea sud-atlasica – che si estende per circa 2000 chilometri da Gabès, in Tunisia, passando da Biskra, Laghouat e Fuguig, giungendo ad Agadir. Questa condizione rende l’intero limite sud della catena montuosa ad alto rischio sismico (Duffaud, Rothé, Debrach, Erimesco, Choubert & Faure-Muret, 1962).
La tragica calamità naturale si rivela essere un punto focale per la vicenda della città, specialmente perché occorre in un momento storico segnato da una delicata fase di transizione del regno che, da soli quattro anni, aveva ottenuto la sovranità politica dalla Francia, ma che lottava ancora per affermare la propria autonomia culturale.
In questo contesto, dunque, il problema di come fronteggiare l’emergenza diventa il simbolo di una volontà di riscatto e di asserzione dell’identità di un popolo. La criticità della situazione non è solo dovuta alla necessità di ridare nel più breve tempo possibile un tetto ai sopravvissuti, ma anche di affermare la legittimità dell’indipendenza di una nazione.
Il 3 marzo, il re Mohammed V annuncia pubblicamente l’avviamento dei lavori per la ricostruzione di Agadir, e ancora prima dell’estate il Service del l’Urbanisme con il Ministero dei Lavori Pubblici redigono un documento dove vengono riportate le prime indicazioni per il tracciamento di un Piano Regolatore. Una commissione di geologi viene incaricata di tracciare i confini delle aree a rischio sismico e di trovarne altre adatte all’edificazione. Gli studi portano a ritenere necessario uno slittamento verso sud dell’intero perimetro cittadino.
L’evento catastrofico causa preoccupazione in tutto il mondo. A impegnare le proprie risorse sono, in modo particolare, Francia e Stati Uniti. Tuttavia, l’impegno di questi paesi si riduce a occuparsi del problema degli aiuti umanitari per i terremotati (Nadau, 1992). Un mese dopo l’accaduto, l’ambasciatore di Francia invita Le Corbusier a visitare Agadir, con la speranza di convincere il maestro e il governo marocchino a collaborare al progetto di ricostruzione. Gli incontri non hanno seguito. Ciò nonostante Le Corbusier trova il modo di lasciare il proprio segno sottolineando, in un’intervista radiofonica rilasciata durante il suo soggiorno, come l’aspetto di maggiore importanza per la buona riuscita del progetto sia la coesione del fronte d’azione formato da architetti e urbanisti uniti.1La registrazione della trasmissione può essere ascoltata su INA.fr – Institut National Audiovisuel, disponibile presso http://boutique.ina.fr/audio/P13276317/le-corbusier-a-propos-de-la-reconstruction-d-agadir.fr.html (ultimo accesso febbraio 2017)
L’idea che fosse necessario pensare al progetto urbano e a quello architettonico come una cosa sola era stato preso ad assunto fondamentale durante l’ultimo decennio del protettorato dall’urbanista francese Michel Ecochard, direttore del Service de l’Urbanisme.
Sotto molti aspetti, la figura di Ecochard è fondamentale per la formazione e lo sviluppo del pensiero architettonico in Marocco. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, il Service de l’Urbanisme accoglie un considerevole numero di giovani architetti, marocchini e non, provenienti dagli studi in Europa – che in quegli anni si trovava ad affrontare una forte crisi economica – in cerca di esperienza, dando loro una formazione e un metodo (Cohen, 1992; Eleb, 2000; Chaouni, 2010).
Così facendo, con la fine del protettorato, il Marocco si trova ad avere a disposizione un consistente gruppo di pianificatori, urbanisti, paesaggisti e architetti esperti, nonostante la giovane età, accomunati dallo stesso modo di guardare al progetto grazie alle competenze maturate sotto il tetto del Service de l’Urbanisme, la cui direzione è ora affidata all’architetto Mourad Ben Embarek.2 La vicenda è descritta da Ben Embarek stesso in un intervista la cui visione è possibile su aMush.org presso http://www.amush.org/blog/55-videos/245-hommage-a-mourad-ben-embarek.html (ultimo accesso febbraio 2017). Lo stesso Ben Embarek si assume il compito di raccogliere e diffondere il pensiero di questo gruppo di progettisti attraverso la rivista a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, da lui ideata e della quale saranno pubblicati sei numeri tra il 1964 e il 1968.
Tuttavia, l’aspetto fondamentale che rende la realizzazione di Agadir un caso esemplare, risiede soprattutto nel fatto che, in questa occasione, l’idea progettuale di architetti e urbanisti trovi supporto nell’operato delle amministrazioni e degli organi di governo.
La fase di stesura del piano si svolge in controtendenza rispetto alla logica del pronto intervento, finalizzato al contenimento del danno. I terreni edificabili vengono espropriati sistematicamente, ignorando gli interessi fondiari privati dei singoli, così da rendere possibile la realizzazione di un disegno urbano articolato e unitario.
Il progetto è sviluppato partendo dai princìpi della Carta di Atene (Le Corbusier, 1943) di salubrità, esposizione e circolazione, ma nella sua configurazione spaziale dimostra una profonda lettura della tradizione insediativa locale. Questa non è vista come fondo dal quale attingere forme ed espedienti stilistici, ma come sorgente da cui dedurre le dinamiche a-temporali dell’abitare, da usare alla stregua dei materiali da costruzione, strumenti operativi per la realizzazione della nuova architettura. Tali dinamiche trovano la propria raison d’être nel rapporto bidirezionale con gli aspetti fisici e simbolici dell’ambiente naturale e del territorio.
Proprio a partire da questi presupposti, il disegno del Piano Regolatore è realizzato sotto la doppia supervisione dell’urbanista Pierre Mas, erede morale di Ecochard, e del paesaggista Jean Challet. Il progetto cerca, pertanto, di reinventare le tecniche canonizzate dell’urbanistica moderna tramite gli strumenti messi a disposizione dalla disciplina della progettazione del paesaggio che proprio in quegli anni inizia ad assumere importanza nel dibattito internazionale e a prendere le forme e le modalità che oggi conosciamo.
Successivamente Challet pubblica nel terzo numero di a+u (1965) un articolo intitolato Urbanisme et paysage nel quale descrive il paesaggio come l’elemento capace di rendere possibile il rapporto tra il sito fisico e le sfere percettive e sentimentali dell’essere umano. Per il paesaggista il sito è «una porzione di spazio terrestre che offra un’unità geografica, biologica o umana» (p. 16).3Traduzione dell’Autore Questa unità è ciò che permette di riconoscere e riconoscersi e che, di conseguenza, consente la formazione di un’identità.
Per questo motivo, la logica fondativa di Agadir è concepita sulla presa di coscienza del fatto che, a differenza di quello europeo, lo spazio degli insediamenti marocchini non si forma su esigenze estetiche prospettiche: gli assi viari non determinano inquadrature forzate su elementi prestabiliti, ma le architetture sono disposte in modo che la vista vari in continuazione lungo il tragitto (Nadau, 1992).
Il progetto, dunque, integra in continuità pragmatismo e idealità. La costa, per esempio, è lasciata libera dalle costruzioni per due motivi: il primo, di natura poetica, al fine di lasciarne intatta l’immagine, così assiduamente presente nella memoria collettiva degli abitanti, nelle fotografie e nelle cartoline spedite per il mondo; il secondo di natura pratica, per mettere al sicuro le nuove abitazioni nell’evenienza che un nuovo terremoto, se sviluppato al largo della costa, avesse causato onde anomale.
Diversamente dal progetto di Raymond, nato con l’intento di dividere la città per tenere separata la popolazione, il nuovo progetto prevede di ordinare la città per settori con l’intento di favorire l’identificazione degli abitanti con il luogo, mantenendo, per ciascuna zona, caratteri specifici chiaramente riconoscibili, così da apparire domestici nonostante il linguaggio dell’architettura sia inequivocabilmente nuovo.
L’ambizione è di dimostrare falso l’assunto che “modernità” e “tradizione” siano termini antitetici, sostenendo, al contrario, che la modernità non sia altro che un momento di metamorfosi di un pensiero architettonico continuativo; ovvero che essa non fenomeni dalla tabula rasa di ciò che era venuto prima, ma anzi che da questo discenda.
La città si aggrega attorno a un core amministrativo cui rigore inconfutabilmente razionalista, pur rasentando il parossismo, dialoga con la natura domestica e introversa dei quartieri residenziali costruiti per aggregazione di unità abitative mono-familiari a corte, reinterpretando, in chiave contemporanea, la spazialità della medina tradizionale.
I percorsi all’interno della città sono pensati per un transito principalmente pedonale: le strade ad alta affluenza scaricano il traffico fuori dal centro, mentre l’andamento “a baionetta” di quelle urbane non permette alte velocità e facilita gli attraversamenti.
I “pezzi” così definiti sono ricomposti all’interno di un disegno urbano unitario da un sistema di parchi che si estendono, dalla costa all’entroterra, seguendo l’andamento dei wadi che, con il secolare alternarsi di piene e secche, hanno determinano l’orografia del terreno.
L’opera di “cucitura” delle zone urbane non avviene solo sul piano del paesaggio. Le macerie del terremoto sono utilizzate per colmare il letto del Wadi Tanaout, cui flusso stagionale viene canalizzato in acquedotto. Questo wadi aveva segnato, prima del terremoto, il confine tra il quartiere europeo e la zona industriale, dove risiedeva la popolazione operaia marocchina. La cancellazione di questo limite geografico ha, quindi, il sapore di una dichiarazione politica e simbolica che esprime tutta la volontà di lasciarsi alle spalle un’epoca per costruire una nazione unita.
Ad accentuare questa immagine, gli architetti Louis Riou e Henri Tastemain costruiscono una delle architetture più emblematiche di Agadir: l’immobile “A”. Edificio per abitazioni, parte dell’organismo del core della città, si colloca in modo da formare un ponte sul luogo esatto dove un tempo scorreva il Tanaout. La sua struttura su pilotis è pensata così che, alla sua base, si venga a formare un luogo coperto, adatto alle attività commerciali. In questo modo, urbanisti, paesaggisti e architetti assieme trasformano un luogo simbolo della segregazione in un vitale mercato cittadino.
Studiando i progetti, è evidente come la maggior parte delle risorse intellettuali di coloro che se ne sono occupati fossero indirizzate a ottenere principalmente una città in grado di funzionare e soddisfare le principali necessità degli abitanti, tuttavia le scelte che hanno condotto alla ricostruzione di Agadir hanno anche un valore simbolico che ci permette di vederle come operazioni di riscrittura del paesaggio, al fine di portare alla luce quegli aspetti che determinano lo spirito del luogo.
L’aspetto più rilevante che appare dallo studio di questo caso risiede nel suo essere concretizzazione, in un momento di grave emergenza, di un pensiero comune, declinato nei domìni delle diverse discipline in campo. Il suo insegnamento può fornire strumenti applicabili in svariati ambiti: dal governo del territorio, alla pianificazione urbana, alla progettazione architettonica; dimostrando che essi non vanno intesi come settori separati, ma possono collaborare alla costruzione di un unico disegno.
Dal punto di vista della composizione architettonica, si può trarre una valida lezione dal particolare modo di affrontare il problema del rapporto con la tradizione. Essa diventa vero e proprio strumento, atto a costruire quella base sulla quale si radicano le scelte che portano alla forma dell’architettura della città.
Originariamente pubblicato in:
Fabian, L., & Marzo, M. (a cura di). (2015). La ricerca che cambia. Atti del primo convegno nazionale dei dottorati italiani dell’architettura, della pianificazione e del design. Siracusa: Letteraventidue.
Ben Embarek, M. (1965). Urbanisme et aménagement du territoire dans les pays sous-développés. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 3.
Challet, J. (1965) Urbanisme et paysage. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 3, 16.
Chaouni, A. (2010) Depolicizing Group Gamma: Contesting Modernism in Morocco. In D. Lu (a cura di), Third World Modernism; Architecture Developement and Identity (pp. 57-84). New York: Routeledge.
Cohen, J.-L. (1992). Il Gruppo degli Architetti Marocchini e “L’Habitat du plus grand nombre”. Rassegna, 52, 58-67.
Cohen, J.-L., & Eleb, M. (2004). Casablanca: mythes et figures d’une adventure urbaine. Parigi: Hazan.
Dartois, M. F. (2008). Agadir et le Sud marocain. À la recherche du temp passé. Des origines au tremblement de terre du 29 février 1960. Parigi: Courcelles Publishing.
Duffaud, F., Rothé, J. P., Debrach, J., Erimesco, P., Choubert, G. & Faure-Muret, A. (1962). Le séisme d’Agadir du 29 février 1960. Notes et mémories du Service Géologique, 154.
Ecochard, M. (1932). Les quartiers industriels des villes du Maroc. Urbanisme, 11-12.
Eleb, M. (2000). An alternative to Functionalist Universalism; Ecochard, Candilis, and ATBAT- Afrique. In S.W. Goldhagen & R. Legault (a cura di), Anxious modernism: experimentation in postwar architectural culture (pp. 55-73). Cambridge: MIT Press.
Falconer, B. H. (1996). Agadir, Morocco, reconstruction work six years after the earthquake of february 1960. New Zeland Society for Earthquake Engeneering Quarterly Buletin, 1(2), 72-91.
Le Corbusier. (1943). La Charte d’Athenes. Parigi: Plon.
Mas, P. (1966). Plan directeur et plan d’aménagement. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 4, 6-17.
Nadau, T. (1992). La reconstruction d’Agadir ou le destin de l’architecture moderne au Maroc. In M. Culot, J.-M. Thiveaud, Architectures françaises outre-mer (pp. 147-75). Liegi: Mardaga.
Raymond, J. Dans le Sous mystérieux, Agadir. La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, 3, 321-340.
1. | ⇡ | La registrazione della trasmissione può essere ascoltata su INA.fr – Institut National Audiovisuel, disponibile presso http://boutique.ina.fr/audio/P13276317/le-corbusier-a-propos-de-la-reconstruction-d-agadir.fr.html (ultimo accesso febbraio 2017) |
2. | ⇡ | La vicenda è descritta da Ben Embarek stesso in un intervista la cui visione è possibile su aMush.org presso http://www.amush.org/blog/55-videos/245-hommage-a-mourad-ben-embarek.html (ultimo accesso febbraio 2017). |
3. | ⇡ | Traduzione dell’Autore |