Urbanistica

Il terremoto di Agadir, o la costruzione dell’identità

Di Edoardo Bernasconi

Il 29 febbraio del 1960, un terremoto rade al suolo la città di Agadir, in Marocco, seppellendone l’immagine tra le macerie. Nella distruzione, perdono la vita 20.000 persone.

L’antica Qasba, eretta sopra un promontorio a presidio del territorio, e il quartiere di fondazione berbera conosciuto come Yachech scompaiono in pochi attimi, mentre gli edifici dei quartieri Founti e Talborjt, costruiti rispettivamente tra il 1920 e il 1930 e tra il 1935 e il 1950, subiscono gravi crolli e danni strutturali irreparabili (Falconer, 1966).

La catastrofe scuote profondamente l’intero Paese, eppure, da questo scenario atroce, si solleva prontamente un vigoroso élan vital unanime che conduce un intero popolo a mobilitarsi su tutti i fronti e a concentrare gli impegni nella realizzazione di una grande opera urbanistica e architettonica corale.

Questo carattere di bene comune connota Agadir sin dal momento della sua fondazione: il suo nome, in lingua Amazigh, significa letteralmente “granaio collettivo fortificato”. Tale aspetto fornisce un indizio che lascia comprendere quale sia sempre stata la portata strategica e la natura identificativa di questo luogo per la regione e per le genti che l’hanno popolata.

Agadir si trova, infatti, in una posizione territoriale cruciale, dove i monti dell’Atlante si abbassano per sfiorare le rive dell’oceano, a presidiare la fertile vallata del Wadi Souss. La facilità di navigazione delle acque e l’abbondanza di pescato fanno sì che, ai piedi dell’agadir, si vada a insediare un modesto villaggio di pescatori berberi che, nel corso dei secoli, successivamente alla conquista portoghese, acquista un importante ruolo come scalo delle rotte navali mercantili diventando Santa Cruz do Cabo de Gué. Nel 1505, queste sue peculiarità la conducono ad assumere il ruolo di porto principale del Marocco meridionale, rendendo necessaria la costruzione di fortificazioni militari a proteggere le crescenti ricchezze. La città mantiene questa carica anche a seguito delle lotte che portano alla deposizione del governatore Guterre de Monroy da parte delle tribù locali nel 1541, perdendola solamente nel 1760, quando, a causa dell’instabilità politica della regione, il sultano Sidi Mohammed Ben Abdullah decide di deviare definitivamente tutte le rotte sul porto di Essaouira. Il borgo viene infine occupato dall’esercito francese il 14 giugno 1913, ma trovandosi in un’area remota del territorio marocchino, difficile da controllare dal punto di vista politico e militare, non viene ritenuta idonea per un utilizzo commerciale e strategico intensivo, lasciando la località in una posizione economicamente marginale. Ciò nonostante, l’abbondanza di pesce nelle acque circostanti comporta lo svilupparsi di una fiorente attività di pesca e di un’importante industria di manifattura e conservazione del pescato (Dartois, 2008). Per questa ragione, dai primi anni Venti, il governo coloniale incarica il service de l’Urbanisme, l’organo deputato allo sviluppo urbano e territoriale del Marocco diretto dall’architetto e urbanista Henri Prost, di trasformare il modesto villaggio in una città modello (Cohen & Eleb, 2004).

Il piano dell’ingegnere Jean Raymond è evidentemente caratterizzato dall’intento di separare la popolazione locale dai coloni, prevedendo l’edificazione di due aree lungo la costa, nettamente distaccate, seppure accomunate sul piano progettuale da un disegno urbano di matrice eclettica (Raymond, 1923).

La borgata a ovest, situata ai piedi del promontorio sormontato dalla Qasba, viene concepita con lo scopo di ospitare la popolazione locale – il Talborjt, che in dialetto tachelit significa “piccolo fortino” –, mentre il quartiere a est, contraddistinto dalla sua forma a ferro di cavallo, situato oltre il Wadi Tildi, è destinato ad accogliere la popolazione europea.

A seguito dell’ingentissimo sviluppo industriale dei primi anni del secondo dopoguerra, il Marocco si trova a dover affrontare una grave emergenza: la mancanza di un vero centro economico strategico nel sud del paese provoca un graduale spopolamento delle aree rurali, dovuto a un’emigrazione massiva verso le grandi città industriali come Casablanca o Rabat (Embarek, 1965).

Così, sia per porre un argine ai problemi di ordine pubblico e sanitario derivanti dal sovraffollamento dei centri del nord, sia per motivare le popolazioni a non spostarsi da una regione così ricca di risorse agricole e minerarie, il governo del protettorato inizia a impiegare mezzi per la creazione di un nuovo capoluogo regionale del Souss.

Jean Raymond, Schéma de la future ville d’Agadir, 1923. Piano di espansione della città. A pagina 339 dell’articolo di J. Raymond, “Dans le Sous mystérieux, Agadir”, in La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, n. 3, marzo 1923, pp. 321-340.
Jean Raymond, Schéma de la future ville d’Agadir, 1923. Piano di espansione della città. A pagina 339 dell’articolo di J. Raymond, “Dans le Sous mystérieux, Agadir”, in La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, n. 3, marzo 1923, pp. 321-340.
La città di Agadir prima del terremoto del 1960. Pianta. Da sinistra: la Quasba, il Talborjt, il Quartiere Amministrativo, il Quartiere Europeo, compreso tra il Wadi Tildi e il Wadi Tanaout e il Quartiere Industriale. Elaborazione dell’Autore.
La città di Agadir prima del terremoto del 1960. Pianta. Da sinistra: la Quasba, il Talborjt, il Quartiere Amministrativo, il Quartiere Europeo, compreso tra il Wadi Tildi e il Wadi Tanaout e il Quartiere Industriale. Elaborazione dell’Autore.

Contemporaneamente, al fine di rendere ben chiara la presenza del protettorato in questa regione, Agadir viene trasformata strategicamente in una prospera località di villeggiatura per abbienti turisti, accentuando la suddivisione in zone funzionali, razionalmente compartimentate da un progetto di Michel Ecochard, allora a capo del Service de l’Urbanisme.

Il piano prevede, oltre all’ampliamento del porto, un’ulteriore estensione della città verso sud, che ha lo scopo di separare le attività turistiche da quelle produttive attraverso l’edificazione di un vasto quartiere industriale e relativa zona residenziale (Ecochard, 1923).

È, tuttavia, la collocazione geografica di Agadir, origine della sua fortuna, la cagione stessa del suo annullamento. Proprio dove sorge, infatti, la porzione dell’Atlante Sahariano che ripiega verso sud, entra in contatto con la Zolla Africana, creando una grande faglia – la linea sud-atlasica – che si estende per circa 2000 chilometri da Gabès, in Tunisia, passando da Biskra, Laghouat e Fuguig, giungendo ad Agadir. Questa condizione rende l’intero limite sud della catena montuosa ad alto rischio sismico (Duffaud, Rothé, Debrach, Erimesco, Choubert & Faure-Muret, 1962).

La tragica calamità naturale si rivela essere un punto focale per la vicenda della città, specialmente perché occorre in un momento storico segnato da una delicata fase di transizione del regno che, da soli quattro anni, aveva ottenuto la sovranità politica dalla Francia, ma che lottava ancora per affermare la propria autonomia culturale.
In questo contesto, dunque, il problema di come fronteggiare l’emergenza diventa il simbolo di una volontà di riscatto e di asserzione dell’identità di un popolo. La criticità della situazione non è solo dovuta alla necessità di ridare nel più breve tempo possibile un tetto ai sopravvissuti, ma anche di affermare la legittimità dell’indipendenza di una nazione.

Il 3 marzo, il re Mohammed V annuncia pubblicamente l’avviamento dei lavori per la ricostruzione di Agadir, e ancora prima dell’estate il Service del l’Urbanisme con il Ministero dei Lavori Pubblici redigono un documento dove vengono riportate le prime indicazioni per il tracciamento di un Piano Regolatore. Una commissione di geologi viene incaricata di tracciare i confini delle aree a rischio sismico e di trovarne altre adatte all’edificazione. Gli studi portano a ritenere necessario uno slittamento verso sud dell’intero perimetro cittadino.

L’evento catastrofico causa preoccupazione in tutto il mondo. A impegnare le proprie risorse sono, in modo particolare, Francia e Stati Uniti. Tuttavia, l’impegno di questi paesi si riduce a occuparsi del problema degli aiuti umanitari per i terremotati (Nadau, 1992). Un mese dopo l’accaduto, l’ambasciatore di Francia invita Le Corbusier a visitare Agadir, con la speranza di convincere il maestro e il governo marocchino a collaborare al progetto di ricostruzione. Gli incontri non hanno seguito. Ciò nonostante Le Corbusier trova il modo di lasciare il proprio segno sottolineando, in un’intervista radiofonica rilasciata durante il suo soggiorno, come l’aspetto di maggiore importanza per la buona riuscita del progetto sia la coesione del fronte d’azione formato da architetti e urbanisti uniti.1La registrazione della trasmissione può essere ascoltata su INA.fr – Institut National Audiovisuel, disponibile presso http://boutique.ina.fr/audio/P13276317/le-corbusier-a-propos-de-la-reconstruction-d-agadir.fr.html (ultimo accesso febbraio 2017)

L’idea che fosse necessario pensare al progetto urbano e a quello architettonico come una cosa sola era stato preso ad assunto fondamentale durante l’ultimo decennio del protettorato dall’urbanista francese Michel Ecochard, direttore del Service de l’Urbanisme.

Sotto molti aspetti, la figura di Ecochard è fondamentale per la formazione e lo sviluppo del pensiero architettonico in Marocco. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, il Service de l’Urbanisme accoglie un considerevole numero di giovani architetti, marocchini e non, provenienti dagli studi in Europa – che in quegli anni si trovava ad affrontare una forte crisi economica – in cerca di esperienza, dando loro una formazione e un metodo (Cohen, 1992; Eleb, 2000; Chaouni, 2010).

Così facendo, con la fine del protettorato, il Marocco si trova ad avere a disposizione un consistente gruppo di pianificatori, urbanisti, paesaggisti e architetti esperti, nonostante la giovane età, accomunati dallo stesso modo di guardare al progetto grazie alle competenze maturate sotto il tetto del Service de l’Urbanisme, la cui direzione è ora affidata all’architetto Mourad Ben Embarek.2 La vicenda è descritta da Ben Embarek stesso in un intervista la cui visione è possibile su aMush.org presso http://www.amush.org/blog/55-videos/245-hommage-a-mourad-ben-embarek.html (ultimo accesso febbraio 2017). Lo stesso Ben Embarek si assume il compito di raccogliere e diffondere il pensiero di questo gruppo di progettisti attraverso la rivista a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, da lui ideata e della quale saranno pubblicati sei numeri tra il 1964 e il 1968.

Tuttavia, l’aspetto fondamentale che rende la realizzazione di Agadir un caso esemplare, risiede soprattutto nel fatto che, in questa occasione, l’idea progettuale di architetti e urbanisti trovi supporto nell’operato delle amministrazioni e degli organi di governo.

La fase di stesura del piano si svolge in controtendenza rispetto alla logica del pronto intervento, finalizzato al contenimento del danno. I terreni edificabili vengono espropriati sistematicamente, ignorando gli interessi fondiari privati dei singoli, così da rendere possibile la realizzazione di un disegno urbano articolato e unitario.

Il progetto è sviluppato partendo dai princìpi della Carta di Atene (Le Corbusier, 1943) di salubrità, esposizione e circolazione, ma nella sua configurazione spaziale dimostra una profonda lettura della tradizione insediativa locale. Questa non è vista come fondo dal quale attingere forme ed espedienti stilistici, ma come sorgente da cui dedurre le dinamiche a-temporali dell’abitare, da usare alla stregua dei materiali da costruzione, strumenti operativi per la realizzazione della nuova architettura. Tali dinamiche trovano la propria raison d’être nel rapporto bidirezionale con gli aspetti fisici e simbolici dell’ambiente naturale e del territorio.

Proprio a partire da questi presupposti, il disegno del Piano Regolatore è realizzato sotto la doppia supervisione dell’urbanista Pierre Mas, erede morale di Ecochard, e del paesaggista Jean Challet. Il progetto cerca, pertanto, di reinventare le tecniche canonizzate dell’urbanistica moderna tramite gli strumenti messi a disposizione dalla disciplina della progettazione del paesaggio che proprio in quegli anni inizia ad assumere importanza nel dibattito internazionale e a prendere le forme e le modalità che oggi conosciamo.

Pierre Mas con Haut commissariat à la reconstruction d’Agadir, Le parti: choix du site, répartition des activités, circulations principales, espaces libres, 1966. Disegno schematico del piano di ricostruzione di Agadir. A pagina 12 dell’articolo di P. Mas, “Plan directeur et plan d’aménagement”, in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, n.4, 1966, pp. 6-17.
Pierre Mas con Haut commissariat à la reconstruction d’Agadir, Le parti: choix du site, répartition des activités, circulations principales, espaces libres, 1966. Disegno schematico del piano di ricostruzione di Agadir. A pagina 12 dell’articolo di P. Mas, “Plan directeur et plan d’aménagement”, in a+u – Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, n.4, 1966, pp. 6-17.

Successivamente Challet pubblica nel terzo numero di a+u (1965) un articolo intitolato Urbanisme et paysage nel quale descrive il paesaggio come l’elemento capace di rendere possibile il rapporto tra il sito fisico e le sfere percettive e sentimentali dell’essere umano. Per il paesaggista il sito è «una porzione di spazio terrestre che offra un’unità geografica, biologica o umana» (p. 16).3Traduzione dell’Autore Questa unità è ciò che permette di riconoscere e riconoscersi e che, di conseguenza, consente la formazione di un’identità.

Per questo motivo, la logica fondativa di Agadir è concepita sulla presa di coscienza del fatto che, a differenza di quello europeo, lo spazio degli insediamenti marocchini non si forma su esigenze estetiche prospettiche: gli assi viari non determinano inquadrature forzate su elementi prestabiliti, ma le architetture sono disposte in modo che la vista vari in continuazione lungo il tragitto (Nadau, 1992).

Il progetto, dunque, integra in continuità pragmatismo e idealità. La costa, per esempio, è lasciata libera dalle costruzioni per due motivi: il primo, di natura poetica, al fine di lasciarne intatta l’immagine, così assiduamente presente nella memoria collettiva degli abitanti, nelle fotografie e nelle cartoline spedite per il mondo; il secondo di natura pratica, per mettere al sicuro le nuove abitazioni nell’evenienza che un nuovo terremoto, se sviluppato al largo della costa, avesse causato onde anomale.

Diversamente dal progetto di Raymond, nato con l’intento di dividere la città per tenere separata la popolazione, il nuovo progetto prevede di ordinare la città per settori con l’intento di favorire l’identificazione degli abitanti con il luogo, mantenendo, per ciascuna zona, caratteri specifici chiaramente riconoscibili, così da apparire domestici nonostante il linguaggio dell’architettura sia inequivocabilmente nuovo.

L’ambizione è di dimostrare falso l’assunto che “modernità” e “tradizione” siano termini antitetici, sostenendo, al contrario, che la modernità non sia altro che un momento di metamorfosi di un pensiero architettonico continuativo; ovvero che essa non fenomeni dalla tabula rasa di ciò che era venuto prima, ma anzi che da questo discenda.

La città si aggrega attorno a un core amministrativo cui rigore inconfutabilmente razionalista, pur rasentando il parossismo, dialoga con la natura domestica e introversa dei quartieri residenziali costruiti per aggregazione di unità abitative mono-familiari a corte, reinterpretando, in chiave contemporanea, la spazialità della medina tradizionale.

I percorsi all’interno della città sono pensati per un transito principalmente pedonale: le strade ad alta affluenza scaricano il traffico fuori dal centro, mentre l’andamento “a baionetta” di quelle urbane non permette alte velocità e facilita gli attraversamenti.

I “pezzi” così definiti sono ricomposti all’interno di un disegno urbano unitario da un sistema di parchi che si estendono, dalla costa all’entroterra, seguendo l’andamento dei wadi che, con il secolare alternarsi di piene e secche, hanno determinano l’orografia del terreno.

L’opera di “cucitura” delle zone urbane non avviene solo sul piano del paesaggio. Le macerie del terremoto sono utilizzate per colmare il letto del Wadi Tanaout, cui flusso stagionale viene canalizzato in acquedotto. Questo wadi aveva segnato, prima del terremoto, il confine tra il quartiere europeo e la zona industriale, dove risiedeva la popolazione operaia marocchina. La cancellazione di questo limite geografico ha, quindi, il sapore di una dichiarazione politica e simbolica che esprime tutta la volontà di lasciarsi alle spalle un’epoca per costruire una nazione unita.

La nuova Agadir. A sinistra, il core di Agadir a confronto con il quartiere residenziale “Nuovo Talborjt”; a destra, il progetto per Saint-Dié di Le Corbusier a sistema con un quartiere della medina di Fèz. Elaborazione dell’Autore.
La nuova Agadir. A sinistra, il core di Agadir a confronto con il quartiere residenziale “Nuovo Talborjt”; a destra, il progetto per Saint-Dié di Le Corbusier a sistema con un quartiere della medina di Fèz. Elaborazione dell’Autore.

Ad accentuare questa immagine, gli architetti Louis Riou e Henri Tastemain costruiscono una delle architetture più emblematiche di Agadir: l’immobile “A”. Edificio per abitazioni, parte dell’organismo del core della città, si colloca in modo da formare un ponte sul luogo esatto dove un tempo scorreva il Tanaout. La sua struttura su pilotis è pensata così che, alla sua base, si venga a formare un luogo coperto, adatto alle attività commerciali. In questo modo, urbanisti, paesaggisti e architetti assieme trasformano un luogo simbolo della segregazione in un vitale mercato cittadino.

Studiando i progetti, è evidente come la maggior parte delle risorse intellettuali di coloro che se ne sono occupati fossero indirizzate a ottenere principalmente una città in grado di funzionare e soddisfare le principali necessità degli abitanti, tuttavia le scelte che hanno condotto alla ricostruzione di Agadir hanno anche un valore simbolico che ci permette di vederle come operazioni di riscrittura del paesaggio, al fine di portare alla luce quegli aspetti che determinano lo spirito del luogo.

La nuova Agadir, 1966. Fotografia aerea della città ancora in fase di costruzione. È chiaramente riconoscibile l’immobile “A” (Louis Riou, Henri Tastemain) posto trasversalmente rispetto segno del sedime del Wadi Tanaout. Sullo sfondo, in nuovo Talborjt. Fotografia di Robert Papini.
La nuova Agadir, 1966. Fotografia aerea della città ancora in fase di costruzione. È chiaramente riconoscibile l’immobile “A” (Louis Riou, Henri Tastemain) posto trasversalmente rispetto segno del sedime del Wadi Tanaout. Sullo sfondo, in nuovo Talborjt. Fotografia di Robert Papini.

L’aspetto più rilevante che appare dallo studio di questo caso risiede nel suo essere concretizzazione, in un momento di grave emergenza, di un pensiero comune, declinato nei domìni delle diverse discipline in campo. Il suo insegnamento può fornire strumenti applicabili in svariati ambiti: dal governo del territorio, alla pianificazione urbana, alla progettazione architettonica; dimostrando che essi non vanno intesi come settori separati, ma possono collaborare alla costruzione di un unico disegno.

Dal punto di vista della composizione architettonica, si può trarre una valida lezione dal particolare modo di affrontare il problema del rapporto con la tradizione. Essa diventa vero e proprio strumento, atto a costruire quella base sulla quale si radicano le scelte che portano alla forma dell’architettura della città.

Originariamente pubblicato in:

Fabian, L., & Marzo, M. (a cura di). (2015). La ricerca che cambia. Atti del primo convegno nazionale dei dottorati italiani dell’architettura, della pianificazione e del design. Siracusa: Letteraventidue.

Bibliografia

Ben Embarek, M. (1965). Urbanisme et aménagement du territoire dans les pays sous-développés. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 3.

Challet, J. (1965) Urbanisme et paysage. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 3, 16.

Chaouni, A. (2010) Depolicizing Group Gamma: Contesting Modernism in Morocco. In D. Lu (a cura di), Third World Modernism; Architecture Developement and Identity (pp. 57-84). New York: Routeledge.

Cohen, J.-L. (1992). Il Gruppo degli Architetti Marocchini e “L’Habitat du plus grand nombre”. Rassegna, 52, 58-67.

Cohen, J.-L., & Eleb, M. (2004). Casablanca: mythes et figures d’une adventure urbaine. Parigi: Hazan.

Dartois, M. F. (2008). Agadir et le Sud marocain. À la recherche du temp passé. Des origines au tremblement de terre du 29 février 1960. Parigi: Courcelles Publishing.

Duffaud, F., Rothé, J. P., Debrach, J., Erimesco, P., Choubert, G. & Faure-Muret, A. (1962). Le séisme d’Agadir du 29 février 1960. Notes et mémories du Service Géologique, 154.

Ecochard, M. (1932). Les quartiers industriels des villes du Maroc. Urbanisme, 11-12.

Eleb, M. (2000). An alternative to Functionalist Universalism; Ecochard, Candilis, and ATBAT- Afrique. In S.W. Goldhagen & R. Legault (a cura di), Anxious modernism: experimentation in postwar architectural culture (pp. 55-73). Cambridge: MIT Press.

Falconer, B. H. (1996). Agadir, Morocco, reconstruction work six years after the earthquake of february 1960. New Zeland Society for Earthquake Engeneering Quarterly Buletin, 1(2), 72-91.

Le Corbusier. (1943). La Charte d’Athenes. Parigi: Plon.

Mas, P. (1966). Plan directeur et plan d’aménagement. a+u – Revue africaine d’architecture et urbanisme, 4, 6-17.

Nadau, T. (1992). La reconstruction d’Agadir ou le destin de l’architecture moderne au Maroc. In M. Culot, J.-M. Thiveaud, Architectures françaises outre-mer (pp. 147-75). Liegi: Mardaga.

Raymond, J. Dans le Sous mystérieux, Agadir. La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, 3, 321-340.

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1. La registrazione della trasmissione può essere ascoltata su INA.fr – Institut National Audiovisuel, disponibile presso http://boutique.ina.fr/audio/P13276317/le-corbusier-a-propos-de-la-reconstruction-d-agadir.fr.html (ultimo accesso febbraio 2017)
2. La vicenda è descritta da Ben Embarek stesso in un intervista la cui visione è possibile su aMush.org presso http://www.amush.org/blog/55-videos/245-hommage-a-mourad-ben-embarek.html (ultimo accesso febbraio 2017).
3. Traduzione dell’Autore

Il recycle come opzione e come necessità

Di Ezio Micelli
Alla luce dell’attuale scenario economico, l’autore individua nella pratica del riciclo una delle principali agende della cultura architettonica del futuro, proponendo un insieme di linee guida utili a indirizzare il progetto entro condizioni favorevoli perché l’azione di riciclo possa tradursi anche in vantaggio economico, produttivo e culturale.

0. Introduzione

La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile pensare e promuovere gli interventi nelle città.

Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sosteniblità, consenso e sviluppo.

Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate quando non del tutto infondate.

Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock – di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare nella città del prossimo futuro.

1. Il new normal dell’economia e delle città italiane

L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%).

L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da parte delle amministrazioni a tutti i livelli 1Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.
– e sui mercati immobiliari delle nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori.

Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte: Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte: Ance e Banca d’Italia).

Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione.

La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012).

Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta.

Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infra- strutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più precisamente, dei “sistemi territoriali locali” (Calafati, 2009) in cui le città si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati.

2. Valore, forme, energia

La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città.

Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione.

La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012).

Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori nei confronti della trasformazione dell’esistente.

3. La selezione necessaria

Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate.

In un recente saggio (2013), Marini sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni – si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale, da quelle prive di un simile potenziale.

Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale.

Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile, perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni esito del riciclo stesso.

4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente

Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione possibile.

Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa seguito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali.

In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area.

Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi.

Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di va- lore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente.

Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella & Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente.

Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea massimizzazione di rendite e profitti.

5. Quando il recycle è l’unica opzione

Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città.

I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non proprio marginali.

In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate al Piano Casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente.

A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che è stata definita la “rottamazione” della città del dopoguerra in vista di futuri investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a “concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti” (Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento dovranno dedicarsi con rinnovato impegno.

6. Una necessaria estetica del riuso

La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evi- denti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile.

Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli interventi, costituisce un problema di non poco conto.

La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della “città dei ricchi e la città dei poveri”, esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie – in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Ciorra & Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza.

Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata.

Originariamente pubblicato in:

Marini, S., & Roselli, S. (a cura di). (2014). Re-Cycle Op.Positions I. Roma: Aracne. Disponibile presso: http://recycleitaly.net/quaderno/05-re-cycle-op-positions-i/

Bibliografia

Calafati, A. (2007). Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia. Roma: Donzelli.

Camagni, R. (marzo 2012). La città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione. Eyesreg – Giornale di Scienze Regionali, 2(2), pp. 60-63.

Catella, M., & Doninelli, L. (2013). Milano si alza. Porta nuova, un progetto per l’Italia. Milano: Feltrinelli.

Ciorra, P. (2011). Senza architettura. Le ragioni di una crisi. Bari: Laterza.

Ciorra, P., & Marini, S. (a cura di). (2012). Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta. Milano: Electa.

Coppola, A. (2012). Apocalyse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana. Bari: Laterza.

Marini, S. (2013). Post-produzioni o del problema della scelta. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland (pp. 13-17). Roma: Aracne.

Owen, D. (2009). Green Metropolis. Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys to Sustainability. New York: Riverhead Books.

Secchi, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari: Laterza.

Viganò, P. (2012). Elements for a Theory of the City as Renwable Resource. In L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (a cura di), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion (pp. 12-13). Pordenone 2012: Giavedoni.

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1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.

Re-Cycle Veneto

Di Lorenzo Fabian e Stefano Munarin
La pubblicazione Re-Cycle Veneto riassume gli esiti del lavoro svolto da alcuni docenti, assegnisti di ricerca e studenti della laurea magistrale dell’università Iuav di Venezia che, nell’ambito della più vasta ricerca Recycle Italy, si sono organizzati in dieci “tavoli di lavoro” per indagare le possibilità di riciclo del territorio veneto. Le sperimentazioni progettuali e le mosse di ricerca illustrate esplorano da angolazioni differenti i concetti base e condivisi della ricerca, ossia l’avvio di nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture esistenti, dismesse o obsolete, entro strategie di progettazione che intervengano in particolare sui temi ambientali, energetici e della mobilità. Il territorio veneto è qui inteso quale elemento in continuo divenire, mai fisso ma neanche mai morto: supporto e “patria artificiale”, che offre resistenze ma al tempo stesso è plasmabile e adattabile agli orizzonti di senso che le esplorazioni progettuali individuano.

Il volume Re-Cycle Veneto, in corso di pubblicazione nella collana dei Quaderni del PRIN Re-Cycle Italy, riassume gli esiti del lavoro svolto da alcuni docenti, assegnisti di ricerca e studenti della laurea magistrale dell’Università Iuav di Venezia che, nell’ambito della più vasta ricerca Recycle Italy, si sono organizzati in dieci “tavoli di lavoro” per indagare le possibilità di riciclo del territorio Veneto e, al contempo, utilizzare questo contesto per indagare alcune possibile articolazioni dell’idea di riciclo. Le ricerche e le sperimentazioni progettuali che illustrati esplorano da angolazioni differenti i concetti base e condivisi della ricerca, ossia la possibilità di avviare nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture esistenti, dismesse o obsolete, entro strategie di progettazione che si interrogano su diversi temi, che vanno dalle questioni ambientali, energetici e della mobilità alla percezione e fruizione di alcuni specifici paesaggi o alla riflessione intorno al concetto di patrimonio.

Questo specifico progetto, della durata di un anno e intitolato Re-Cycle Veneto Lab,1 Recycle Veneto Lab (TURISMO, TERRITORIO, RICICLO: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza “lenta” nell’area veneta, Università Iuav di Venezia, marzo 2014 – marzo 2015), è un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, con i finanziamenti erogati dal Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma operativo 2007- 2013 della Regione. Le ricerche del Recycle Veneto Lab si fondano sulla trasformazione dell’offerta turistica nel territorio veneto, in rapporto ad un’idea di riciclo come pratica virtuosa: sia in considerazione della presenza di infrastrutture ed edifici dismessi sia rispetto a una idea di turismo compatibile e di sostenibilità ambientale. si è concluso con il workshop di progettazione Ve.Net,2Il workshop di progettazione Ve.Net, (3 -12 ottobre 2014, Venezia, Pieve di Soligo) organizzato dall’Università Iuav di Venezia con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, ha coinvolto tredici aziende Venete, dieci docenti, 15 assegnisti di ricerca e 85 studenti della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università Iuav di Venezia. Il programma del workshop ha in particolare previsto un seminario inaugurale a Pieve di Soligo cui sono stati invitati i rappresentanti di tutte le aziende coinvolte, cinque giorni di lavoro collettivo a Venezia nella sede Iuav dell’Ex-Cotonificio Veneziano, e infine un seminario di illustrazione degli esiti e di dibattito generale con la partecipazione di ricercatori della rete nazionale Recycle Italy, di esperti, associazioni e amministratori locali. tenutosi nell’ottobre 2014 all’Università Iuav di Venezia e presso la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo. Al progetto hanno partecipato, insieme ai docenti, studenti e ricercatori dell’Università Iuav i rappresentanti di associazioni di categoria, amministrazioni, aziende e imprese, coinvolti in una comune riflessione volta ad esplorare le possibili ricadute economiche e strategiche di un’ipotesi di radicale trasformazione del territorio veneto. Nel workshop, come nella pubblicazione, i dieci tavoli sono stati suddivisi in tre parti, cui corrispondono anche differenti ambiti tematici e geografici.

La prima parte, Riciclare i territori del Piave e del pedemonte, fa riferimento agli ambiti compresi fra le Alpi e l’alta pianura asciutta, territori dinamici, oggi interessati dai cambiamenti indotti dalla realizzazione dell’autostrada pedemontana e alla ricerca di una nuova e più chiara definizione. La seconda parte, Riciclare i territori dei fiumi e delle infrastrutture, fa riferimento al deposito di acque, strade e ferrovie regionali che hanno strutturato la pianura e la città diffusa veneta, al loro necessario ripensamento alla luce dell’emergere di nuovi temi ambientali, del welfare e della valorizzazione del paesaggio. La terza parte, Riciclare i territori della produzione, fa riferimento alla conclusione di un lungo ciclo economico-produttivo e al necessario ripensamento, anche concettuale, dei suoi spazi. Infine un’ultima parte, cui corrisponde anche un ultimo tavolo di lavoro, è dedicata, fra storytelling e processo, alla narrazione del territorio come possibile forma del progetto.

Un nuovo ciclo di trasformazione

Anche in Veneto, come in altri territori contemporanei, è sempre più chiara la percezione che un lungo ciclo di costruzione della città si stia chiudendo. Nel rapporto sul mercato delle costruzioni del centro studi CRESME (2011) tale percezione si rende manifesta in un grafico che illustra il susseguirsi dei cicli del mercato immobiliare in Italia dal 1950 ad oggi. Il grafico, che mostra l’alternarsi dei momenti di espansione e di contrazione del mercato, si conclude con un ultimo grande ciclo edilizio – il sesto in ordine di tempo – iniziato a metà degli anni novanta del XX secolo e che oggi è in fase conclusiva e di intensa deflazione. Caratterizzato dalla dirompente crescita dei volumi edilizi e del suolo urbanizzato, esso fa luce su una strategia di trasformazione che, nei quindici anni a cavallo dei due millenni, ha applicato al territorio le tipiche dinamiche del mercato di consumo: una trasformazione senza riciclo, avvenuta perché ciò che esisteva non sembrava più adeguato a rispondere alle esigenze di una società in rapido e profondo cambiamento o al fine di alimentare artificialmente la crescita “squilibrata” di un mercato delle costruzioni ormai saturo.

Naturalmente il processo non è stato senza conseguenze. L’ultimo ciclo edilizio, oltre ad aver consumato nuove consistenti porzioni di territorio sottraendole all’agricoltura, ha depositato sul suolo scarti di forma e dimensioni differenti che oggi, anche alla luce dei rischi ambientali e della crisi economica, rendono evidente le fragilità del territorio e introducono ad alcuni possibili slittamenti di senso dei temi del progetto.

Ricicli

Anche alla luce di questi problemi, recentemente, e in particolare a partire dalla crisi del 2007, si è cominciato a guardare anche al territorio Veneto mettendone in evidenza i processi di abbandono e dismissione edilizia. Se si prova però a rilevare il fenomeno, a costruire delle mappe dell’abbandono ci si trova nella necessità di articolare le categorie analitiche, riconoscendo che se si cerca ciò che è completamente e univocamente abbandonato si trova poco mentre diventa assai più interessante segnare ciò che è solo parzialmente utilizzato, ciò che è momentaneamente vuoto, sottoutilizzato o sta cambiando destinazione, ciò che è in attesa di diventare altro, ecc. La dismissione, la chiusura e l’abbandono cioè, qui nel Veneto, appaiono come fenomeno articolato, sia spazialmente (con situazioni economiche ed insediative che reggono, altre che si trasformano ma continuano e altre ancora che soffrono e chiudono) sia nelle forme e nei processi.

Se si cammina nelle zone industriali del Veneto osservando i processi di dismissione ci si trova spesso di fronte a situazioni spurie, dove accanto a pochi eclatanti ed univoci abbandoni si ritrovano tante altre situazione intermedie. Se si osserva l’area di Bassano, la valle del Chiampo o la grande zona industriale di Vittorio Veneto si nota che il capannone e la zona industriale cambiano, si evolvono, diventano altro, ma assai più raramente vengono semplicemente abbandonati. La dismissione qui appare fenomeno opaco, micro, frammentato, richiedendo sguardi più attenti e progetti e politiche più articolati e mirati.

Un ingente patrimonio immobiliare sottoutilizzato o dismesso si scopre invece se si osserva l’edilizia residenziale. I due idealtipi prevalenti – la casa isolata e la piccola palazzina – che pervadono il territorio veneto costituendo quasi la nota di base, oggi sembrano improvvisamente subire un precoce invecchiamento, appaiono obsoleti e non più congrui rispetto alle nuove domande sociali. Obsoleto, male utilizzato o abbandonato appare spesso anche quel vasto supporto costituito dalle reti di acque, strade e ferrovie minori che nel tempo lungo ha reso estensivamente abitabile il territorio, permettendo di attraversarlo e stabilirsi praticamente ovunque. I canali, i fossi e le scoline che, come i fossati di cui ci parla Richard Mabey, sembrano “vocaboli superstiti dell’antico idioma della terra… e anche se l’antico tracciato è interrotto in più punti […], sembrano criptiche trincee scavate in ere remote per assolvere a molteplici funzioni […]. Di sicuro, un fossato non è mai un fossile, una cosa inerte, ma è l’elemento di una narrazione della terra, tenace e adattabile come una buona storia tramandata da generazioni” (2010, pp. 105-106).

Allo stesso modo, le ferrovie minori e le piccole stazioni, le strade bianche, le carrarecce, le rive dei fiumi, i “trosi”, appaiono come tante piccole opere che, come ci ricorda Robert Macfarlane parlando in modo particolare dei sentieri, costituiscono una sorta di “labirinti di libertà, supporto mondano nel senso migliore del termine perché appartengono al mondo, sono aperti a tutti», e come i sentieri, spesso, sono «tracce di esperienze collettive [che] senza manutenzione collettiva e collettivo impiego spariscono” (2013, pp. 17-20).

Questo elenco aperto di infrastrutture, edifici e attrezzature ci invita ad andare a fondo sul concetto di “crisi”, dismissione e possibili scenari di “riciclo”, ricordandoci subito che diventa interessante e necessario riconoscere vari gradi di dismissione, che l’idea di riciclo se applicata ai sistemi insediativi rinvia all’idea di “ciclo di vita” (Viganò 2011). Ai processi di continuo cambiamento che attraversano la città e il territorio, al grado di disponibilità alla trasformazione che i diversi materiali urbani consentono, alla malleabilità del patrimonio esistente, che se vogliamo continui ad essere veramente patrimonio dobbiamo continuamente reinventare e riadattare e quindi alla possibilità di prospettare nuove interessanti visioni di cambiamento senza utilizzare ulteriore suolo libero, senza “urbanizzare” nuovo suolo agricolo ma facendo diventare diversamente abitabile ciò che abbiamo fin qui già edificato. Tra l’altro, ricordando che proprio attraverso un continuo processo di riciclo dell’esistente nei secoli scorsi abbiamo prodotto i centri antichi che ora tanto ci affascinano.

Più in generale le trasformazioni in atto nel territorio veneto ci segnalano che il sesto ciclo edilizio ha qui prodotto una competizione non solo tra attività produttive e tendenze speculative, ma anche tra le parti di territorio che richiedono operazioni di recupero e quelle dove sono ancora possibili nuove urbanizzazioni di suolo agricolo: se nel prossimo futuro lasceremo che le nuove energie economiche e sociali (gli investimenti e le idee imprenditoriali) producano nuovi edifici in territori agricoli (operazioni facili) difficilmente troveremo altre energie in grado di rilavorare l’enorme quantità di edifici e spazi che hanno concluso un loro primo ciclo di vita e richiedono l’avvio di nuovi processi d’uso e attribuzione di senso.

Muovendo dal presupposto che il sistema insediativo contemporaneo non rappresenta lo stato conclusivo di un lungo processo di modificazione e stratificazione ma solamente una sua fase, appare evidente come proprio a partire dalla “crisi” che stiamo vivendo si possa avviare un nuovo sforzo di immaginazione volto a definire futuri assetti territoriali. Nuovi assetti che devono certamente rispondere a criteri di sostenibilità (anche economica) ma dimostrarsi al contempo maggiormente inclusivi, garantire sicurezza idraulica ed ambientale, essere capaci di rispondere alle domande espresse da nuove popolazioni (immigrate e non) immaginando un nuovo ruolo sia per gli innumerevoli edifici e spazi dismessi sia per il patrimonio costituito dagli spazi del welfare, elementi che nell’insieme possono diventare nuovi assi portanti dell’assetto territoriale complessivo.

Occorre domandarsi quindi come un vasto insieme di manufatti e spazi costruiti nel corso di più di mezzo secolo possano costituire oggi il punto di partenza per una grande trasformazione del territorio veneto, per l’avvio di nuovi cicli di vita basati sulla reinterpretazione e riconcettualizzazione dell’esistente, sulla logica delle tre “R” (“riduci”, “riusa”, “ricicla”).

Osservando il territorio veneto ci troviamo di fronte ad un sistema insediativo dinamico, che certamente sta attraversando e deve affrontare sfide assai rilevanti: è un territorio nel quale il tumultuoso processo di sviluppo economico dei decenni passati ha lasciato un ingente patrimonio di spazi in disuso o comunque potenzialmente riusabili; è un territorio che si scopre sempre più spesso a rischio idraulico, nel quale occorre tornare ad osservare attentamente lo spazio occupato dall’acqua e il suo ruolo nella formazione del paesaggio sotto molteplici forme (dal grande fiume fino al più piccolo fosso, dalle aree depresse e umide agli ambiti di risorgiva, ecc.); è un territorio non sempre e non da tutti facile da abitare, nel quale la mobilità è privilegio degli adulti in possesso dell’automobile; è un territorio che si deve confrontare con l’arrivo di nuove e diverse popolazioni con il relativo sviluppo di tensioni e innovazioni sociali; è un territorio in cui si assiste all’incessante processo di trasformazione della sua base economica e produttiva, con i distretti in continuo mutamento, spesso capaci di ripresentarsi sotto forme nuove, sorprendenti, proprio mentre se ne sta studiando la presunta fine.

Un territorio abitato, caratterizzato dalla compresenza di diversi sistemi insediativi, certo non immune da difetti e limiti ma dinamico, che appare ai nostri occhi dotato di una buona resilienza, capacità di mutare, “adattarsi” al cambiamento, un sistema insediativo “intrigante” proprio perché difficile da ridurre entro un’unica immagine riassuntiva (positiva o negativa che sia). Un sistema insediativo interessante perché formato da diversi “modelli urbani” posti vicino l’uno all’altro e che consentono stili di vita diversi: dalla città antica, che ha in Venezia l’esempio esemplare, all’abitare nella rada “città inversa” che si è sviluppata lungo le strade della centuriazione romana; dai quartieri di edilizia residenziale pubblica, troppo spesso criticati sulla base di pregiudizi mentre invece con la loro ricca dotazione di servizi costituiscono una sorta di “isole del welfare” cui fanno riferimento anche gli abitanti delle lottizzazioni private di case su lotto spesso prive dei servizi elementari, alle parti di città compatta costruite a partire dal secondo dopoguerra attorno ai nuclei antichi, parti che grazie alla loro relativa alta densità permettono lo sviluppo di “strade corridoio” con i negozi al piano terra e servite dal trasporto pubblico. Un sistema insediativo nel quale diventa interessante prestare attenzione al contempo agli spazi, ai diversi materiali che vi si sono depositati e alle pratiche, ai soggetti e ai processi sociali che li attraversano reinterpretandoli.

Osservare gli spazi riflettendo sul concetto di “capacità”, sulle possibilità che questi offrono, misurando il benessere sulla base di ciò che gli individui possono fare ed essere, piuttosto che su ciò che possiedono. Pensando che anche di fronte ai problemi e alle crisi del territorio, sia utile cercare di ridurre le forme di ingiustizia (che limita ciò che possiamo fare ed essere) piuttosto che puntare alla realizzazione di un mondo perfettamente giusto (finendo con il riflettere più sulle forme istituzionali che sulla concreta giustizia). Un atteggiamento pragmatico ed incrementale forse, che si alimenta anche di più suggestive ed ampie immagini utopiche ma che ci sembra interessante perché non parte dalla condanna preventiva di ciò che stiamo osservando (cioè modi di abitare il mondo, qui ed ora).

Interpretando il deposito materiale realizzato e più volte riscritto nel corso del tempo come lascito imprescindibile, “supporto” fisico a partire dal quale è possibile sviluppare nuove immagini e idee, nuovi “modi di stare al mondo” che non devono necessariamente fare riferimento all’idea tradizionale di città o di campagna, ma ad inediti spazi di civitas che consentano lo sviluppo di forme di “democrazia sostanziale”.

Le conseguenze del nuovo ciclo di trasformazione dell’esistente, 3Il CRESME indica il ciclo che si sta aprendo e che caratterizzerà il mercato della costruzione dei prossimi anni come una nascente fase di “trasformazione dell’esistente”, di essa nel rapporto si intuiscono i temi prevalenti – la ristrutturazione del patrimonio edificato, la manutenzione del territorio, l’adeguamento infrastrutturale ed edilizio al rischio sismico e idrogeologico – ma non ancora l’intensità o la durata. se applicate al territorio veneto, implicheranno una revisione radicale dei modi d’uso dello spazio, degli stili di vita, delle forme della mobilità, dei sistemi di produzione delle merci, delle principali razionalità energetiche. E’ anche su queste sfide, sulla necessità di immaginare un prossimo ciclo futuro del territorio basato sulla radicale riconcettualizzazione dell’esistente, che può essere interpretata la domanda di progetto che è implicita nelle esplorazioni progettuali documentate nel Quaderno.

Recycle Veneto

Pochi dei temi esplorati in questa pubblicazione sono inediti per i gruppi veneziani coinvolti nella ricerca. Molti di essi precedono la ricerca Recycle Italy e, probabilmente, proseguiranno anche oltre ad essa. In questo senso, le numerose ricerche condotte sul territorio Veneto e che in queste pagine sono sintetizzate, con le loro differenti angolazioni, ambiscono attraverso le ipotesi e le esplorazioni progettuali a produrre nuova conoscenza sul tema della “trasformazione dell’esistente” declinando in diverse forme e prospettive il tema generale del riciclo.

Le ricerche indagano il territorio Veneto e, attraverso il concetto di riciclo, ne osservano i materiali costitutivi, il suo deposito e le attrezzature. Parafrasando Max Black (1983, pp. 87-88), possiamo dire che, attraverso il paradigma del riciclo, i progetti illustrati consentono di “versare nuovo contenuto in vecchie bottiglie”. Grazie al riciclo è infatti possibile traguardare alcuni temi e luoghi già esplorati producendo nuova conoscenza per il territorio veneto e la città diffusa e, contemporaneamente, proprio grazie al lavoro sui casi studio il concetto di riciclo può assumere nuovi significati e legittimità. Considerando che “una metafora efficace ha il potere di mettere due domini separati in relazione cognitiva ed emotiva usando il linguaggio direttamente appropriato all’uno come una lente per vedere l’altro; le implicazioni, le associazioni, i valori costitutivi intrecciati nell’uso letterale dell’espressione metaforica ci permettono di vedere un nuovo argomento in un nuovo modo”, agendo sul territorio come una metafora radicale il riciclo ci permette di vedere cose nuove. Il riciclo è così una metafora che consente di illuminare il territorio alla ricerca di cicli di vita in fase di conclusione e di ipotizzare per essi una nuova e radicale concettualizzazione.

Prese singolarmente le ipotesi di ricerca e le esplorazioni progettuali avanzate dai dieci tavoli di lavoro, rilevano dei tanti modi attraverso cui il riciclo diventa una metafora radicale, capace di parlare della trasformazione dell’esistente e delle sue tante prospettive progettuali.

Il riciclo può, ad esempio, diventare un modo per attribuire valore ai tanti oggetti ordinari che compongono il paesaggio della città diffusa veneta: case, fabbriche, campi coltivati, l’immenso armamentario di elementi che attraversano il territorio veneto sono in questa prospettiva, un deposito di fatiche e energia grigia, risorse rinnovabili di una urbs in horto che idealizza lo spazio del quotidiano ed aspira ad un riciclo completo delle sue parti. Spostando parzialmente il punto di vista nello spazio e nel tempo, adottando lo sguardo del militare e osservando il deposito delle tante rovine e macerie con cui la Grande Guerra ha inciso le montagne, il riciclo diventa anche una modalità di reinvenzione del paesaggio veneto. Lo sguardo strategico in questo caso, da un lato, proiettivamente, prova ad avviare un nuovo ciclo per i teatri della Grande guerra e, da un altro lato, retrospettivamente, consente di imparare dalla tattica del militare: un albero e un campanile possono diventare punti di vista per l’esplorazione del paesaggio, le corrugazioni della terra possono diventare punti di attestamento, i fiumi un ostacolo all’avanzata delle truppe, le colline i possibili presidi. Se invece oggetto della ricerca sono i temi energetici, il riciclo diventa lente per il radicale ripensamento delle infrastrutture che innervano la regione, un tempo supporto alla diffusione insediativa e oggi emblema di un modello energetico e della mobilità inadatto a rispondere agli obiettivi di riduzione delle emissioni e alla realizzazione di eque politiche economiche e di accessibilità. Riciclo in questo senso può significare un nuovo ciclo della mobilità della città diffusa che, attraverso la valorizzazione dei tessuti reticolari di strade bianche e ferrovie, può offrire attraverso l’uso integrato della bicicletta e del treno una valida alternativa all’auto di proprietà. Può anche essere la reinvenzione dei paesaggi di alcuni grandi fiumi, come il Piave, profondamenti manomessi nei decenni passati e che oggi appaiono mondi sospesi, in attesa di un nuovo ciclo e di nuove prospettive. Oppure riciclo può essere il ripensamento di alcune ferrovie ormai dismesse, come nel caso dell’Ostiglia, un tempo supporto della prima modernizzazione della Regione e oggi infrastruttura ciclabile di scala territoriale.

Traslando ancora poco lo sguardo, mettendo a fuoco i temi ambientali e delle tante fragilità che attraversano la Regione, riciclo diventa reinvenzione di un deposito spugnoso e capillare di acque, grandi fiumi, fossi e scoline che oggi, oscillando fra abbondanza e carenza, appare inadeguato o insufficiente a fare fronte alle sfide poste da una efficiente gestione della risorsa idrica, dalle mutazioni del clima e dal crescente dissesto idrogeologico. Un supporto che, alla luce di questi elementi può essere riciclato, come nei casi qui indagati del Marzenego o del Piave, attraverso nuovi processi e prospettive capaci di valorizzare nello stesso quadro sinottico, la condizione di risorsa e di rischio, la domanda di nuovi spazi del welfare, la dimensione di trama pubblica e di paesaggio fluviale in produzione. La metafora del riciclo può infine essere ulteriormente deformata per essere connessa a quella degli archivi dello scarto: ciò che rimane dell’isola storica di Venezia o degli spazi del tessile pedemontano, la discrasia che esiste fra i tanti edifici abbandonati e le poche risorse a disposizione, una strategia per tornare a progettare patrimoni.

L’esperienza della comune ricerca e del workshop hanno tuttavia permesso di aggiungere qualcosa di più che non il semplice accostamento di ipotesi. L’accostamento, a volte la sovrapposizione di temi ed esplorazioni progettuali, ha infatti permesso di individuare alcune grandi cornici di senso che ambiscono ad aggiungere conoscenza alle singole ricerche.

Una prima è legata ad un’idea di progetto inteso come processo di natura incrementale. Il riciclo suggerisce infatti che la politica territoriale non si faccia solo attraverso la realizzazione di alcune grandi opere infrastrutturali il cui progetto e realizzazione è affidata a pochi soggetti e operatori. Il progetto di radicale riciclo del Veneto si può realizzare invece anche attraverso un diffuso, minuto e continuo e processo di trasformazione dell’esistente, affidato a una moltitudine di soggetti le cui istanze sono spesso differenti, a volte confliggenti. La realizzazione di un grande plastico comune ai dieci gruppi è stato in questo senso una sorta di terreno condiviso di esplorazione di un immenso progetto di riciclo immaginato come processo incrementale, additivo, frutto della somma di tante piccole mosse discrete. Attraverso il grande plastico i temi del riciclo hanno mostrato come questo elenco aperto di infrastrutture, attrezzature e paesaggi antropizzati, nel tempo lungo supporto fondamentale dello sviluppo regionale, possano essere oggi ripensati entro progetti integrati e non settoriali, capaci di assorbire entro la stessa cornice di senso i temi sociali, ambientali, energetici e di rivalutazione, anche spaziale, del paesaggio veneto. Il riciclo consente di rendere visibili alcuni fenomeni, come l’abbandono, i disuso e il sottoutilizzo di parti di territorio e di inquadrarle entro una nuova prospettiva progettuale capace di attraversare le scale del progetto.

Più in generale, forse diversamente da quanto avvenuto in altre unità di ricerca, i diversi casi studio qui illustrati intendono il progetto di riciclo entro una prospettiva che intende il territorio come palinsesto, deposito di fatiche e razionalità di elementi che non necessariamente sono abbandonati ma che devono essere radicalmente ripensati. Il territorio è così inteso quale elemento in continuo divenire, mai fisso, nel quale sono sempre compresenti e occorre intrecciare parti e materiali che stanno attraversando diverse fasi di vita, dove si tratta di lavorare non solo con ciò che è completamente dismesso, vuoto, abbandonato, ma con tutto ciò che è sottoutilizzato, marginale, inadeguato, obsoleto, dimenticato. Interpretando il territorio come supporto e “patria artificiale”, che offre resistenze ma al tempo stesso è plasmabile e adattabile ai nuovi cicli e agli orizzonti di senso che le esplorazioni progettuali attuate indicano. 


Bibliografia

Black, M. (1983). Modelli, archetipi, metafore. Parma: Pratiche editrice.

Centro Ricerche Economiche, Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio. (2011) Il mercato delle costruzioni 2011, XXII rapporto congiunturale e previsionale Cresme. 2010-2015 l’avvio del VII ciclo edilizio. (Volume 3). Roma: CRESME.

Mabey, R. (2010). Natura come cura. Torino: Einaudi. (Pubblicato originariamente nel 2005).

Macfarlane, R. (2012) Le antiche vie. Un elogio del camminare. Torino: Einaudi. (Pubblicato originariamente nel 2012).

Viganò, P. (2011). Re-cycling Cities. In P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Milano: Mondadori-Electa.

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1. Recycle Veneto Lab (TURISMO, TERRITORIO, RICICLO: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza “lenta” nell’area veneta, Università Iuav di Venezia, marzo 2014 – marzo 2015), è un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, con i finanziamenti erogati dal Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma operativo 2007- 2013 della Regione. Le ricerche del Recycle Veneto Lab si fondano sulla trasformazione dell’offerta turistica nel territorio veneto, in rapporto ad un’idea di riciclo come pratica virtuosa: sia in considerazione della presenza di infrastrutture ed edifici dismessi sia rispetto a una idea di turismo compatibile e di sostenibilità ambientale.
2. Il workshop di progettazione Ve.Net, (3 -12 ottobre 2014, Venezia, Pieve di Soligo) organizzato dall’Università Iuav di Venezia con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, ha coinvolto tredici aziende Venete, dieci docenti, 15 assegnisti di ricerca e 85 studenti della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università Iuav di Venezia. Il programma del workshop ha in particolare previsto un seminario inaugurale a Pieve di Soligo cui sono stati invitati i rappresentanti di tutte le aziende coinvolte, cinque giorni di lavoro collettivo a Venezia nella sede Iuav dell’Ex-Cotonificio Veneziano, e infine un seminario di illustrazione degli esiti e di dibattito generale con la partecipazione di ricercatori della rete nazionale Recycle Italy, di esperti, associazioni e amministratori locali.
3. Il CRESME indica il ciclo che si sta aprendo e che caratterizzerà il mercato della costruzione dei prossimi anni come una nascente fase di “trasformazione dell’esistente”, di essa nel rapporto si intuiscono i temi prevalenti – la ristrutturazione del patrimonio edificato, la manutenzione del territorio, l’adeguamento infrastrutturale ed edilizio al rischio sismico e idrogeologico – ma non ancora l’intensità o la durata.

Gli inerti del Veneto.

Di Giuseppe Caldarola
Il recupero ecologico di materiali da costruzione individua un approccio alla pratica edilizia fondato su un principio di rigenerabilità delle stesse componenti, che si estende in una prospettiva multiscalare dalla dimensione del singolo manufatto a quella del sistema territoriale. Tuttavia, nel prefigurare frontiere operative ad alto indice di innovazione, i processi finalizzati al riciclo di inerti devono necessariamente passare al vaglio di un rigoroso sistema normativo, fatto di direttive, autorizzazioni, permessi e certificazioni, anche contrastanti, che ne regolamenta e vincola i presupposti di effettiva praticabilità o ne condiziona la “convenienza” del recupero in sostituzione dello “smaltimento”, oltre che l’opzione per i materiali riciclati in sostituzione di quelli naturali “vergini”. Uno degli esempi più lampanti di tale condizione riguarda lo scenario del Veneto, dove, all’esistenza di uno solido apparato produttivo e tecnologico fa riscontro un sistema normativo in parte arretrato, o almeno non organico e sistematico, che limita sensibilmente le opportunità di sperimentazione e ricerca da parte delle aziende specializzate nel settore.

Il riciclo di materiali attiene all’individuazione di modalità tecnico-operative e costruttive di reimpiego, tra gli altri, di scarti di attività edilizie (costruzioni e demolizioni),1 L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione. come anche di processi produttivi. La sistematica analisi di processi di riciclo di tali materiali diviene l’occasione per la creazione di reti di strutture produttive e finanziarie legate alla demolizione e allo smaltimento e al re-impiego degli scarti delle attività edilizie come dei processi di lavorazione (opportunamente trattati a costituire materie “prime” re-immissibili in cicli di produzione) ma anche all’investimento immobiliare su restauro e recupero che possono trarre vicendevolmente vantaggio economico e produttivo da un processo di riconfigurazione sostenibile del territorio.

Il continuo fabbisogno di materie prime – e per le quantità in gioco, centrali risultano la localizzazione sul territorio e il ruolo degli impianti di recupero – diviene una occasione per individuare modalità d’uso low-cost e low-tech alternative per tanti materiali di scarto generalmente destinati a smaltimento mediante conferimento in discarica o, nei casi migliori, al re-impiego per la realizzazione di sole opere ‘sottosuolo’ (sottofondi, strati di fondazione, riempimenti, colmate, ecc…). Numerosi sono gli studi e le sperimentazioni che muovono verso l’apertura di nuovi e molteplici campi applicativi per tali materiali. A fronte di numerose esperienze virtuose, specie in ambito europeo ed extra-europeo, questo settore -in verità centrale nel dibattito teorico e supportato dall’avanzamento delle sperimentazioni in atto- si muove in bilico tra innovazione tecnologica (possibile e auspicabile) e ritardi normativi. I contenuti di questo scritto racconlgono esiti interpretativi parziali delle attività condotte dall’autore durante l’annualità di assegno di ricerca FSE “Turismo, Territorio, Riciclo: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza lenta nell’area veneta”, sub-titulo “Riciclo e Restauro territoriale”.2 La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.

Quali materiali: gli inerti riciclati

panoramica
Impianto di recupero, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Nell’ampia gamma dei materiali riciclati, particolarmente interessanti risultano gli inerti trattati dagli impianti di recupero il cui impiego è, sempre più spesso, sostitutivo (anche solo parzialmente) di materiali “naturali” o “vergini” nella realizzazione di manufatti infrastrutturali o in opere di ingegneria civile. Per queste realizzazioni si registra l’impiego di aggregati riciclati, specialmente ottenuti dalla lavorazione di rifiuti da costruzione e demolizione tra cui quelli derivanti dall’attività edilizia e dalla costruzione e manutenzione di strade, in affiancamento all’uso/ri-uso dei terreni e delle rocce da scavo. Tali rifiuti da C&D sono in gran parte composti da cemento, mattoni, mattonelle e altri materiali ceramici, terre e rocce, miscele bituminose, metalli, vetri, legni e plastiche, tutti (secondo la normativa vigente) catalogati come rifiuti speciali appartenenti al capitolo 17 del Codice CER. Per origine, essi derivano da attività di costruzione, manutenzione, ristrutturazione, demolizione, ecc. di edifici pubblici e privati; da opere civili e infrastrutturali; da attività industriali dei settori tra cui l’industria di prefabbricati, la ceramica, le pietre ornamentali, la fabbricazione e prefabbricazione di elementi e componenti delle costruzioni civili (mattoni, piastrelle, elementi strutturali in c.a., ecc.). La loro composizione può essere invece estremamente variabile in dipendenza dalla tecnologia di costruzione, dai tipi di materie prime, dalle condizioni territoriali (per quanto attiene a caratteristiche climatiche oltre che di sviluppo economico e tecnologico). Per tali materiali residuali, vale la pena ricordare che un impianto di recupero costituisce una alternativa al conferimento in discarica per rifiuti speciali non pericolosi e che all’interno del medesimo impianto vengono effettuate tutte quelle lavorazioni (selezione, separazione di materiali e sostanze indesiderate, vagliatura, deferrizzazione, ecc…) necessarie alla trasformazione del “rifiuto” stesso, sia questo composto da macerie o da scarti di processi produttivi, altrimenti destinato al conferimento in discarica e che comunque ha già esaurito il suo ciclo di vita, in materia prima. In un impianto di recupero si producono materiali che si possono ricomprendere nelle macrocategorie dei misti cementati (calcestruzzi e laterizi) generalmente composti da rifiuti da C&D, frazioni di raccolta differenziata non direttamente re-immissibili in cicli di produzione, scarti di processi di lavorazione (i.e., le sabbie refrattarie). Tra queste ultime, anche lo scarto di quelle impiegate per la realizzazione delle tegole canadesi), scorie (ceneri, scorie di acciaieria o loppa di fonderia) o sabbie di vetro (provenienti dalla frantumazione del vetro, la frazione non ricondotta in vetreria, proveniente da raccolta differenziata). Tutti questi materiali opportunamente trattati e vagliati concorrono alla formazione di macinati e stabilizzati per l’uso in sottofondi per opere infrastrutturali.

Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Tali scarti di attività edilizie e di processi di lavorazione, attraverso le lavorazioni condotte all’interno di impianti di recupero, concorrono alla formazione di nuovi materiali, utilizzati singolarmente o aggregati in mescola (con o senza agenti leganti bituminosi o cementizi) classificabili come: macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati vagliati. Costituiscono aggregati riciclati tecnici con più o meno elevate caratteristiche meccaniche di resistenza e portanza, prodotti da processi di frantumazione, selezione e vagliatura.

Ipotizzare per questi materiali usi alternativi in settori “altri” (pur tutti collegati alle attività edilizie) significa provare a valutarne l’applicabilità in ambiti innovativi tutti in grado di restituire esiti costruiti sul territorio e di delineare sostanziali variazioni nell’immagine complessiva dei luoghi. In generale i materiali riciclati possono divenire “occasione” per innescare processi produttivi e post-produttivi virtuosi se adottati in sostituzione di quelli di “prima” produzione e il loro uso risulta sostenibile sia da un punto di vista economico che ambientale. In questo senso è inevitabile il riferimento all’infrastrutturazione del territorio.

Con specifico riferimento all’area veneta, si possono già registrare una serie di progetti (alcuni realizzati, altri in corso di realizzazione o non ancora cantierizzati) di infrastrutturazione sia “pesante” che “leggera” del territorio che compongono una casistica più o meno “virtuosa” dell’uso degli inerti riciclati in sostituzione degli aggregati naturali. Vi si possono annoverare le realizzazioni della terza corsia sull’autostrada A4, da Venezia in direzione Trieste, della Valdastico e della Pedemontana Veneta piuttosto che numerosi percorsi e itinerari ciclabili e pedonali attrezzati sull’intero territorio regionale (i.e., la trasformazione della ferrovia dismessa Treviso-Ostiglia in itinerario ciclabile). Questi compongono una quadro variegato di esiti costruiti sul territorio, alcuni peraltro recentemente divenuti oggetto di cronaca per questioni di “qualità” del progetto, usi impropri o difformità dei materiali utilizzati, rispetto ai parametri fissati in fase di affidamento degli incarichi di progettazione o cantierizzazione, o per problematiche di natura ambientale occorse in fase di realizzazione o durante il ciclo di vita dei manufatti costruiti.

I cicli produttivi

Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

I cicli di produzione edilizia si sono tradizionalmente strutturati secondo modelli “lineari” che vanno dal reperimento delle risorse naturali (i.e., le attività estrattive) alla formazione dei rifiuti passando attraverso la produzione delle materie prime e delle componenti, la costruzione, l’intero ciclo di vita di materiali e di manufatti fino alla demolizione e allo smaltimento. Per contro l’uso dei materiali riciclati può dirsi innescare modelli di uso e gestione “ciclici” con un migliore impiego di risorse e con l’allungamento del loro ciclo di vita. In questa condizione tali materiali possono destinarsi al riuso di edifici interi, alla costruzione di nuovi edifici, alla produzione di nuovi componenti, alla produzione di nuovi materiali. Possono legarsi a scenari terminali quali il riuso di edifici o loro ricollocazione, di componenti (o ricollocazione in nuovi edifici), di materiali nella produzione di nuove componenti, il riciclo dei materiali da utilizzarsi al posto di risorse primarie. Gli inerti riciclati non sono più “rifiuti” ma a materie prime “seconde”, cioè non “vergini” ma derivanti da materiali per i quali, mediante post-produzione, si rende possibile un secondo ciclo di vita. Il passaggio terminologico dalle parole “rifiuto”, “scarto”, “scoria” a quello di “materie prime seconde” rende conto di un necessario cambio di paradigma di primaria importanza.

Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza
Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza

Il loro uso suggerisce altrettanto necessari cambiamenti nei criteri di progettazione dei manufatti basati sulla circolarità della produzione edilizia, fondata sul recupero e riciclo di risorse e prodotti: a fine vita, non più “rifiuti”, ma materie prime “seconde” da riusare o riciclare. Il rifiuto diviene risorsa: si supera il concetto di “scarto” e, laddove ogni prodotto è composto da parti tecniche e biologiche, le prime possono re-immettersi nei cicli produttivi per nuovi assemblaggi e riusi con minimi consumi possibili di energia. Tutto ciò si basa su lavorazioni e cicli di post-produzione in impianto di recupero in verità abbastanza “elementari” (selezione, deferrizzazione, vagliatura, ecc.) e a basso contenuto tecnologico ma la loro efficacia, nei termini della produzione di materiali riciclati qualitativamente assimilabili a quelli naturali, passa necessariamente attraverso un più generale ripensamento dell’intero sistema della produzione edilizia.

Quali opportunità: gli usi possibili

Gli inerti riciclati trovano applicazione in forma legata o non legata: gli aggregati sono utilizzati “sciolti” o in mescola con agenti leganti, a formare misti cementati o bituminosi. È opportuno ricordare che, dal punto di vista del mercato, i fattori favorevoli all’uso degli aggregati riciclati in sostituzione di quelli naturali consistono prevalentemente nel prezzo minore, nella elevata domanda di materiali con basse prestazioni e nel contenimento dei costi di trasporto. I settori prevalenti di utilizzo riguardano la realizzazione delle opere in terra dell’ingegneria civile, dei corpi di rilevati delle medesime opere, di recuperi ambientali, riempimenti e colmate, di lavori stradali e ferroviari, di sottofondi stradali, ferroviari, aeroportuali e di piazzali civili e industriali, di strati di fondazione delle infrastrutture di trasporto, di strati accessori con funzione anticapillare antigelo e drenante. I conglomerati bituminosi, recuperati con fresatura, sono prodotti di elevate caratteristiche tecniche riutilizzabili nell’ambito delle stesse costruzioni stradali da cui provengono (strati di usura e collegamento composti da aggregati lapidei naturali e da bitume). I frantumati misti di demolizione trovano applicazione nella realizzazione dei corpi dei piazzali o delle strade in alternativa alle sabbie naturali, alle ghiaie e agli stabilizzati. I frantumati grossi di mattoni e cementi divengono materiali applicabili in sottofondi stradali quali strati inferiori rispetto alla stesa di misti stabilizzati, nonché in strati di fondazione di parcheggi e strade al di sotto di misti stabilizzati.

Tali materie prime seconde, opportunamente trattate in modo da poter essere assimilate ai materiali lapidei, trovano ulteriori utilizzi in manufatti per i quali si ricorre normalmente a inerti naturali. Tra gli usi possibili va citata la composizione di elementi alveolari, ripetibili all’infinito, utilizzati nella formazione di sistemi di pavimentazione da esterni. Possono inoltre divenire componenti per la rimodellazione ambientale, a formare elementi di svariate forme, anche molto irregolari. Tra gli usi più largamente attestati si ritrovano applicazioni per la formazione di elementi standardizzati per pavimentazioni di superfici scoperte (i.e., nei parcheggi) con caratteristiche utili a garantire percentuali graduali di permeabilità dei suoli e sagome idonee alla formazione di vuoti normalmente destinati all’inerbimento. Ulteriori impieghi di inerti riciclati in sostituzione di quelli naturali riguardano la formazione di terre armate, pareti di sostegno rinverdibili per scarpate, rilevati e terrapieni; rivestimenti e terrazzamenti, divisori di proprietà, barriere verdi fonoassorbenti (anche in calcestruzzo riciclato e terra), barriere verdi di protezione visiva, elementi di arredo urbano tra cui dissuasori stradali, elementi di seduta, pavimentazioni di percorsi pedonali. Ma i materiali riciclati (non solo gli inerti classici) vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di calcestruzzi (con funzione non strutturale): si fa riferimento ai calcestruzzi additivati con vari materiali anch’essi di riciclo (applicazioni in pavimentazioni industriali), con polimeri riciclati (in sottofondi di supporto per impianti di riscaldamento a pavimento, per barriere antirumore), con canapa e materiali naturali di origine vegetale (per isolamento murature, formazione di intonaci isolanti per murature interne e esterne e coperture), con ceneri volatili (produzione di cementi di miscela e sottofondi stradali).

Quali ostacoli: tra normative e filiere produttive interrotte

La molteplicità di usi individuati per gli inerti riciclati rende conto di una serie di “occasioni” di progetto che possono trarre vantaggio dal ricorso a tali materiali in sostituzione di quelli naturali o di prima produzione. Sussistono tuttavia anche elementi ostativi e limitazioni d’uso che attengono a molteplici ordini di fattori. Si tratta di vincoli indotti dai processi di produzione piuttosto che dalle specifiche normative di settore. A questi si affiancano questioni più strettamente legate alla “percezione” di tali materie prime seconde, ancora legate alla condizione di “rifiuto”, di “scarto”. La sommatoria di questi tre fattori rende il settore degli inerti riciclati non ancora in grado di esplicitare a pieno le proprie potenzialità.

Il primo ordine di fattori è legato alle problematiche relative alla selezione di materiali idonei a essere immessi all’interno di processi di recupero ecologico, che vincola e gradua su scala territoriale (con differenze cospicue a seconda dei contesti geografici) l’effettiva opportunità di propendere per riciclare tali materiali presso aziende specializzate invece che per il conferimento in discarica. A questo si deve sommare la disponibilità di materie prime e la facilità di reperimento in prossimità degli ambiti territoriali in cui si localizzano gli interventi. Da questa condizione sembra infatti derivare la maggiore o minore propensione all’uso dei riciclati sia dal punto di vista dell’investimento su innovazione tecnologica e sperimentazione che dell’adeguamento dei processi produttivi e delle progettazioni per il conseguimento di obiettivi di qualità di prodotto e per la costruzione di filiere produttive con il coinvolgimento di più attori di processo. E le problematiche legate alla filiera produttiva attengono anche alle specifiche condizioni e tipologie degli impianti di recupero e delle lavorazioni dagli stessi effettuate.

Il secondo ordine di fattori è legato ai quadri normativi vigenti, alla sommatoria degli stessi (direttive, normative e regolamenti europei, nazionali, regionali e locali) e ai conflitti di competenze tra Enti e soggetti legiferanti o preposti al controllo e tra questi e i tessuti produttivi locali. Ne derivano alterne applicazioni, più o meno “virtuose” dal punto di vista del contenimento del consumo di risorse e delle condizioni di facilitazione o inibizione di lavorazioni, produzioni e immissioni sul mercato di materiali innovativi o di facilitazioni di processo.

Il terzo ordine di fattori – in parte più aleatorio rispetto ai precedenti – appare parimenti importante e attiene ad un cambiamento nella “percezione” della qualità dei materiali riciclati, da scindersi rispetto all’origine degli stessi a partire da un “rifiuto”, dallo “scarto”: ciò, al fine di generare nuove disponibilità all’uso di tali materiali da parte dei possibili nuovi utilizzatori. Favorisce questo necessario cambiamento di percezione la sostituzione dei termini di “rifiuto” e di “scarto”con quello di materie prime “seconde” e una diversa comunicazione sui temi del recupero ecologico, al fine di sensibilizzare gli attori di processo all’aggiornamento dei quadri conoscitivi sulle proprietà e caratteristiche dei materiali riciclati, anche attraverso un più sistematico confronto di caratteristiche, convenienze, opportunità e possibilità applicative.

Si muovono sicuramente nella direzione della rimozione di alcuni degli elementi limitativi dell’uso degli inerti riciclati alcune modifiche recenti sui dispositivi di legge e sui principali documenti normativi, anche se gli indirizzi innovativi hanno carattere prevalentemente ambientale e sono spesso riconducibili a strategie e politiche legate ad un’ottica di futura “Discarica zero” senza incidere sulle nature dei materiali e sul loro confezionamento e trattamento.

Un esempio di aggiornamento dei quadri normativi di riferimento è rintracciabile ad esempio nell’autorizzazione all’uso (in quota parte) dei materiali riciclati per il confezionamento dei calcestruzzi. Tra le previsioni del Green Public Procurement (GPP o Acquisti Verdi), vi sono alcune definizioni di Criteri Ambientali Minimi per le categorie delle costruzioni e ristrutturazioni di edifici con particolare attenzione ai materiali edili, alla costruzione e manutenzione delle strade e all’arredo urbano. Nella Direttiva 98/2008/CE, che fissa gli obiettivi di riciclo e riporta la politica europea in tema di rifiuti, si rimarca la priorità delle operazioni di riciclaggio rispetto a quelle di smaltimento in discarica e vi si dettano le condizioni per elaborare criteri affinché i rifiuti, se sottoposti ad operazioni di recupero (incluso il riciclaggio), cessino di essere tali in un’ottica di perseguimento dell’obiettivo end of waste.3 La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione. Con riferimento alla Certificazione LEED degli edifici, si fissano una serie di pre-requisiti obbligatori per i quali l’edificio o il manufatto edilizio in costruzione o ristrutturazione possa ottenere, appunto, la certificazione: tali criteri attengono alle macro-categorie di sostenibilità del sito, gestione delle acque, energia e all’atmosfera, materiali e uso delle risorse, qualità ambientale, innovazioni introdotte nella progettazione. Con riferimento al tema dei rifiuti da C&D, sussistono una serie di requisiti e relativi obblighi corrispondenti tra cui la dotazione di stazioni di riciclo o riuso dedicate alla separazione, alla raccolta e allo stoccaggio di materiali da riciclare o la localizzazione di progetti all’interno di amministrazioni locali che effettuino la raccolta differenziata; la presenza di punti di raccolta per conferimento di rifiuti potenzialmente pericolosi; di stazioni o siti di compostaggio; localizzazione in isolati ad uso misto o non residenziale di contenitori per la raccolta differenziata. Per le attività di costruzione e demolizione, infine, l’obbligo di riciclare e/o recuperare almeno il 50% dei rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi e di elaborare un piano di gestione dei rifiuti che identifichi i materiali destinati a discarica e/o a impianto di recupero. Tutto ciò, come evidente, fa riferimento alla tendenza al potenziamento d’uso dei materiali riciclati – nello specifico, appunto, gli inerti – e passa soprattutto attraverso l’accurata progettazione delle attività di demolizione, nel senso di giungere a una “vera” demolizione selettiva.

A livello di regolamenti e di quadri di riferimento normativi prodotti dagli Enti locali, la Provincia Autonoma di Trento ha elaborato un apposito Piano Provinciale per lo Smaltimento dei Rifiuti con specifico stralcio per la gestione dei rifiuti speciali inerti non pericolosi provenienti da costruzione e demolizione; le Norme Tecniche Ambientali per la produzione dei materiali riciclati e posa nella costruzione e manutenzione di opere edili, stradali e recuperi ambientali (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011, n.1333 – All. B) e le Linee Guida per la corretta gestione di un impianto di recupero e trattamento rifiuti e per la produzione di materiali riciclati da impiegare nelle costruzione (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011 – All. A). La necessità della dotazione di tali strumenti nasceva proprio dalle specifiche condizioni dei settori produttivi trainanti dell’economia trentina, specie caratterizzata dall’attività estrattiva. Inoltre la Regione Emilia Romagna ha più recentemente predisposto il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti che, tra i numerosi obiettivi e priorità, ha posto la promozione di strumenti operativi finalizzati a favorire una gestione dei rifiuti ambientalmente corretta e sostenibile, anche finalizzata a dare nuovo impulso allo sviluppo economico di vari settori imprenditoriali.

Ben diverso appare lo stato di avanzamento dei quadri di riferimento normativi e delle ricadute sui processi produttivi se si guarda all’area veneta. Questo contesto regionale appare significativo per sue condizioni intrinseche: non solo per la localizzazione e il numero di impianti di recupero sul territorio ma anche (dato, questo, che sembrerebbe in controtendenza) la ridotta operatività degli stessi a fronte della quantità di domanda di movimentazione di materiali generata e supportata dalle specifiche condizioni del tessuto produttivo e delle attività edilizie. In questo contesto territoriale, a fronte di un elevato indice di innovazione di processo e di prodotto, molte lavorazioni e sperimentazioni non risultano possibili o ancora economicamente vantaggiose a causa di ritardi e lacune dei sistemi e degli strumenti normativi oltre che delle specifiche condizioni del settore di produzione dei materiali riciclati. Tra le altre cose, vale la pena ricordare l’assenza di un piano generale sistematico di gestione dei rifiuti o di regolamentazione delle attività estrattive, condizione per cui se da un lato è cresciuta negli ultimi anni la localizzazione di impianti di recupero sul territorio, dall’altro (e parallelamente) si assiste ancora al rilascio di licenze per lo sfruttamento delle attività estrattive che generano ulteriori consumi di risorse naturali e di territorio. E questa condizione appare rafforzata dall’attuale crisi del settore edilizio che ha generato anche una riduzione delle “convenienze” in termini di costi di produzione, di vendita e di trasporto di materiali riciclati rispetto a quelli naturali, di cava. Da ciò, la non primaria necessità e importanza dell’aggiornamento dei capitolati d’appalto e una sostanziale riduzione della disponibilità degli attori di processo alla valutazione di scenari alternativi di produzione edilizia.

Inerti riciclati e progetto di architettura, di territorio, di paesaggio

Il bilanciamento tra opportunità d’uso dei materiali riciclati ed elementi ostativi del loro impiego – li si è detti di carattere normativo, di processo di produzione, di filiera e di applicazioni possibili – restituisce parimenti “saldo positivo” e sostiene ugualmente la tendenza all’innovazione. Tra le varie possibilità, risulta particolarmente in grado di aprire nuovi scenari l’impiego degli inerti riciclati in opere “sopra-suolo” e, più specificatamente, nel progetto di architettura, di territorio e di paesaggio. Il lavorare con gli inerti riciclati offre infatti ampie potenzialità multiscalari che vanno dalla scala del singolo manufatto edilizio e delle sue componenti alla ristrutturazione territoriale e sua nuova infrastrutturazione secondo logiche differenti rispetto a quelle ormai consolidate nelle pratiche progettuali. Rispetto alle attuali condizioni di contesto – e con riferimento non solo al livello nazionale italiano, ma soprattutto ai contesti regionali e, specie, in aree quali quella veneta – il settore degli inerti riciclati per meglio esprimere le potenzialità dei materiali stessi necessita della garanzia di adeguatezza della lavorazione dei materiali negli impianti di trattamento (in termini di efficacia ed efficienza) e di disponibilità dei prodotti recuperati nel territorio; della rispondenza delle caratteristiche dei prodotti recuperati ai requisiti di idoneità previsti dalle specifiche normative di settore; dell’individuazione di condizioni di applicabilità degli inerti, opportunamente verificati e certificati, alle varie occasioni progettuali; del perseguimento dell’obiettivo del raggiungimento di livelli prestazionali in opera simili o confrontabili tra aggregati riciclati e di origine naturale anche attraverso una attenta valutazione dei benefici ambientali ed economici.

Tali condizioni possono generarsi anche e soprattutto attraverso un’alterazione dell’attuale network di relazioni –ancora in contesto veneto molto limitate – che coinvolge il sistema delle aziende che si occupano di recupero ecologico, ipotizzando prospettive di apertura verso ulteriori categorie di interlocutori.

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1. L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione.
2. La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.
3. La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione.