Numero #1

Editoriale

Di Giulia Ciliberto
In Farewell to Growth (2009), nel proporre una radicale revisione del sistema economico vigente in favore di un modello orientato alla decrescita di produzione e consumi, Serge Latouche annovera il riciclo fra i presupposti fondamentali per l’avvento di tale scenario, rimarcando la necessità di diffonderne e praticarne i principi a tutti i livelli della società. […]

In Farewell to Growth (2009), nel proporre una radicale revisione del sistema economico vigente in favore di un modello orientato alla decrescita di produzione e consumi, Serge Latouche annovera il riciclo fra i presupposti fondamentali per l’avvento di tale scenario, rimarcando la necessità di diffonderne e praticarne i principi a tutti i livelli della società. A questo proposito, lo studioso francese richiama il concetto filosofico di convivialità, che allude a un approccio democratico nell’acquisizione e trasmissione della conoscenza, per promuovere l’idea di una cultura del riciclo intesa come istanza collettiva e non come appannaggio di poche discontinue e sporadiche esperienze.

Questo, nel nostro piccolo, è anche l’obiettivo che ci prefiggiamo con Progetto Re-Cycle. Dopo un numero pilota dedicato al Veneto e alle molteplici azioni di riciclo attuabili in relazione al suo vasto patrimonio di risorse infrastrutturali dismesse, la rivista dà ufficialmente avvio alle proprie pubblicazioni presentandosi con una nuova selezione di articoli e un programma di intenti più preciso e ambizioso: quello di istituirsi come un osservatorio di ricerca sperimentale attorno alla tematica del riciclo, che sia il fulcro di una rete di persone, imprese e istituzioni propense a investire nel nostro progetto all’interno di una visione culturale ed economica di più ampia portata.

Per favorire un approccio quanto più possibile inclusivo e interdisciplinare nella divulgazione di ricerca sul tema del riciclo, negli scorsi mesi si è dato luogo alla formazione di un comitato scientifico costituito, oltre che da docenti e ricercatori universitari, anche da esponenti del panorama produttivo, manageriale e amministrativo. In parallelo, attraverso la messa a punto e la gestione del profilo Linkedin della rivista, stiamo cercando di consolidare e ampliare il network dei nostri contatti, comunicando a imprese e liberi professionisti l’opportunità di aderire al nostro progetto e interpretare il riciclo come occasione per congiungere cultura e business.

I contenuti di questo nuovo numero di Progetto Re-Cycle illustrano e argomentano in vari sensi come il riciclo, a partire dalla sua intrinseca natura di procedimento tecnico e produttivo, possa evolversi qualitativamente in un atteggiamento speculativo applicabile a più livelli. A sua volta, il criterio con cui gli articoli sono stati selezionati riflette la volontà di acquisire e interpretare il riciclo anche nel ruolo di elemento portante del progetto editoriale: in tal senso, alla pubblicazione di contributi originali e inediti fa riscontro la proposta di testi già pubblicati altrove, offrendo ai significati che essi racchiudono nuove occasioni di circolazione e visibilità.

Con questa nuova uscita di Progetto Re-Cycle intendiamo dunque porre le primissime basi su cui articolare e mettere in atto il manifesto delle idee in cui crediamo: il riciclo come strategia per estrarre nuovo valore da risorse materiali e immateriali preesistenti, ma anche come possibile veicolo per aggregare filiere produttive e culturali, organizzare repertori di saperi e competenze e, non da ultimo, individuare nuove modalità di leggere, scrivere e comunicare la realtà. Un approccio conviviale alla narrazione sul – e del – riciclo, secondo uno sguardo che osserva le potenzialità di ciò che già esiste con l’intento di rendere visibili i cambiamenti che possono avvenire.


Il recycle come opzione e come necessità

Di Ezio Micelli
Alla luce dell’attuale scenario economico, l’autore individua nella pratica del riciclo una delle principali agende della cultura architettonica del futuro, proponendo un insieme di linee guida utili a indirizzare il progetto entro condizioni favorevoli perché l’azione di riciclo possa tradursi anche in vantaggio economico, produttivo e culturale.

0. Introduzione

La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile pensare e promuovere gli interventi nelle città.

Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sosteniblità, consenso e sviluppo.

Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate quando non del tutto infondate.

Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock – di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare nella città del prossimo futuro.

1. Il new normal dell’economia e delle città italiane

L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%).

L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da parte delle amministrazioni a tutti i livelli 1Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.
– e sui mercati immobiliari delle nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori.

Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte: Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte: Ance e Banca d’Italia).

Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione.

La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012).

Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta.

Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infra- strutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più precisamente, dei “sistemi territoriali locali” (Calafati, 2009) in cui le città si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati.

2. Valore, forme, energia

La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città.

Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione.

La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012).

Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori nei confronti della trasformazione dell’esistente.

3. La selezione necessaria

Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate.

In un recente saggio (2013), Marini sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni – si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale, da quelle prive di un simile potenziale.

Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale.

Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile, perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni esito del riciclo stesso.

4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente

Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione possibile.

Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa seguito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali.

In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area.

Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi.

Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di va- lore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente.

Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella & Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente.

Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea massimizzazione di rendite e profitti.

5. Quando il recycle è l’unica opzione

Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città.

I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non proprio marginali.

In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate al Piano Casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente.

A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che è stata definita la “rottamazione” della città del dopoguerra in vista di futuri investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a “concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti” (Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento dovranno dedicarsi con rinnovato impegno.

6. Una necessaria estetica del riuso

La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evi- denti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile.

Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli interventi, costituisce un problema di non poco conto.

La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della “città dei ricchi e la città dei poveri”, esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie – in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Ciorra & Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza.

Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata.

Originariamente pubblicato in:

Marini, S., & Roselli, S. (a cura di). (2014). Re-Cycle Op.Positions I. Roma: Aracne. Disponibile presso: http://recycleitaly.net/quaderno/05-re-cycle-op-positions-i/

Bibliografia

Calafati, A. (2007). Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia. Roma: Donzelli.

Camagni, R. (marzo 2012). La città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione. Eyesreg – Giornale di Scienze Regionali, 2(2), pp. 60-63.

Catella, M., & Doninelli, L. (2013). Milano si alza. Porta nuova, un progetto per l’Italia. Milano: Feltrinelli.

Ciorra, P. (2011). Senza architettura. Le ragioni di una crisi. Bari: Laterza.

Ciorra, P., & Marini, S. (a cura di). (2012). Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta. Milano: Electa.

Coppola, A. (2012). Apocalyse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana. Bari: Laterza.

Marini, S. (2013). Post-produzioni o del problema della scelta. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland (pp. 13-17). Roma: Aracne.

Owen, D. (2009). Green Metropolis. Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys to Sustainability. New York: Riverhead Books.

Secchi, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari: Laterza.

Viganò, P. (2012). Elements for a Theory of the City as Renwable Resource. In L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (a cura di), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion (pp. 12-13). Pordenone 2012: Giavedoni.

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1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.

Futuro “chiavi in mano”

Di Vincenza Santangelo
Sostanziata dallo studio di materiali d’archivio, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa occasione per rileggere agli occhi della contemporaneità il peculiare modello organizzativo alla base di un laboratorio creativo dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Alle soglie della terza rivoluzione industriale si prefigura un futuro in cui saremo chiamati a confrontarci con la post-produzione e l’evanescenza della produzione materiale (Sassen, 2004), ereditando nuove terre con cui fare i conti (Marini, 2011). Il processo di migrazione della produzione di beni e servizi verso nuovi paradisi economici sta innescando un processo di ritrazione delle aziende dal territorio italiano (Moretti, 2013), producendo inevitabilmente degli scarti. Scarti materiali come lo svuotamento, anche di senso, degli stabilimenti delle aziende italiane: uno scenario di oltre 9.000 ettari di aree inutilizzate, che fisicamente si concretizza in un vasto ed articolato patrimonio materiale dismesso, dai nodi delle grandi piattaforme industriali alle minute costellazioni di capannoni medio-piccoli. Scarti immateriali come la dissolvenza delle competenze specifiche maturate nelle aziende nel corso dei decenni, tra cui l’attività progettuale svolta nel XX secolo – a cavallo fra gli anni Trenta e Settanta – all’interno delle grandi aziende italiane dagli Uffici Tecnici. Segmento del periodo d’oro delle imprese italiane rimasto nell’ombra, sono stati laboratori di anonimi disegnatori, capi progetto, direttori dei dipartimenti, tecnici, architetti, ingegneri, geometri che hanno esplorato contesti e situazioni differenti, ibridando i saperi e contribuendo alla trasformazione del territorio italiano e oltreconfine, disegnando luci e ombre di un’idea di mondo-azienda (Marini & Santangelo, 2014).

Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973 Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

La ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine – sostanziata dallo studio di materiali d’archivio e dal dialogo con la Fondazione Dalmine – diventa occasione per esplorare l’attività progettuale e costruttiva di questi laboratori dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Il futuro oltreoceano. Il ponte con gli Stati Uniti

Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

A partire dalla seconda rivoluzione industriale si innesca un processo di industrializzazione in Europa e negli Stati Uniti che nel giro di pochissimi anni conduce alla creazione di grandi aziende in determinati settori come la petrolchimica, l’energia, la siderurgia, i trasporti e la grande edilizia industriale (Cariati, Cavallone, Maraini & Zamagni, 2013). Il salto di scala produttivo determina sempre più spesso l’ampliamento fisico degli spazi del lavoro dell’azienda, facendo sì che negli Stati Uniti, già verso la fine dell’800, si iniziano ad introdurre nelle principali aziende industriali degli Uffici Tecnici, interni quindi alle case madri, destinati a gestire l’ampliamento organizzativo e fisico degli stabilimenti.

Nel 1906 l’azienda tedesca Mannesmann, specializzata nella produzione di tubi in acciaio senza saldatura, fonda un nuovo stabilimento nell’area rurale bergamasca denominata Dalmine. Al sorgere dello stabilimento si affiancano ben presto le infrastrutture di base che segneranno le premesse per la fondazione e lo sviluppo di una vera e propria company town: realizzazione delle case per i dirigenti e gli operai secondo diverse tipologie residenziali; introduzione di servizi come la scuola elementare, la caserma dei carabinieri, il refettorio, il garage, gli uffici postali; introduzione di standard minimi per gli spazi verdi e le strutture igieniche, in linea con i primi esempi di città-giardino di quegli anni. Nel frattempo il conflitto mondiale e l’entrata in guerra contro la Germania segnano il definitivo distacco dell’azienda italiana dall’azienda madre tedesca, con la successiva creazione di una nuova società tutta italiana (Dalla Valentina, 2006).

Gli anni Venti rappresentano l’inizio della fase di grande espansione dell’azienda in diversi mercati: tubi per condotte, impianti termici, conduzione di gas e trivellazioni, tralicci. Ciò evidenzia l’esigenza di rinnovare sia gli stabilimenti aziendali ma anche i principi organizzativi, che cominciano ad essere obsoleti. Inizia in tal senso a manifestarsi l’interesse della Dalmine, ma anche di molte altre aziende italiane come Olivetti e Fiat, ad esplorare la cultura aziendale e tecnica oltre l’Atlantico, dove le grandi aziende nordamericane con i loro Uffici Tecnici sono assunti come modello per mettere in atto i piani di espansione e modernizzazione (Banham, 1990; Castronovo, 1977; Olivetti, 1968).

A partire dal 1926 Agostino Rocca, direttore dei laminatoi e consulente della Dalmine, si reca negli Stati Uniti per delle “missioni tecniche e viaggi” (Lussana, 1998), visitando aziende come la National Tube Company, la Pittsburgh Steel Products, la United States Steel Corporation, la Ford e la Westinghouse Electriced entrando in contatto con i relativi Uffici Tecnici, dove tutte le competenze tecniche, le varie fasi e azioni e le relazioni che vi intercorrono sono rigidamente organizzate e sorvegliate dalla figura centrale del project engineer. All’interno del settore Engineering design & drafting si lavora affinché si riesca ad ottenere un tipo di progettazione spinta al dettaglio: dal collocamento sul sito di tutte le apparecchiature necessarie ai dettagliatissimi computi metrici dell’intero materiale occorrente (Rase & Barrow, 1957), cominciando ad adottare la strategia simile al just in time. L’iter progettuale è suddiviso per specialità (processo, civili, strumenti, ispezioni, supervisione ai montaggi ecc.) e ogni progetto è coordinato da un project manager, a cui viene affidato non solo il potere decisionale, ma soprattutto la responsabilità assoluta sulla riuscita del progetto. Viene introdotta la funzione “controllo del progetto” che dal punto di vista operativo consente di verificare l’andamento e la previsione dei costi e dei tempi di esecuzione del progetto, con dettagliate analisi di valutazione dei rischi, mentre la coordination procedure organizza per ogni progetto i ruoli, le competenze, le informazioni, i disegni e le loro revisioni attraverso un articolato processo di uniformazione delle modalità di trasmissione.

Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltreoceano: i viaggi di Agostino Rocca negli Stati Uniti, con l’assorbimento dei principi del taylorismo e il confronto con gli Uffici Tecnici nordamericani, diventano la molla per creare anche all’interno della Dalmine un Ufficio Tecnico con lo sguardo rivolto al modello nordamericano. I saperi, le informazioni, gli incontri di Rocca fatti durante i suoi molteplici viaggi diventano il punto di partenza per introdurre un Ufficio Tecnico che sostituisse quello ormai obsoleto e insufficiente creato alla fondazione dell’azienda stessa.

Il futuro oltre l’azienda. L’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine
Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

La disamina degli ordini di servizio della Dalmine e dei verbali dei Consigli degli organi dell’azienda è il punto di partenza per la ricostruzione puntuale dell’evoluzione della struttura dell’Ufficio Tecnico della Dalmine, evidenziando come nel 1926 1All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”., a partire dalla reinvenzione dell’ufficio preesistente ormai obsoleto, si avvia una sorta di smembramento in gruppi e divisioni sempre più specializzati, per fronteggiare la crescente complessità dei progetti affrontati e per ampliare il campo di intervento dell’azienda stessa. Si passa dalla struttura dell’Ufficio Tecnico destinato alla manutenzione degli impianti esistenti e alla progettazione e studio di nuove strutture, alla creazione di diversi Uffici Tecnici specializzati: l’IMA-Gruppo manutenzione ed esecuzione impianti, incentrato sulle operazioni di controllo del corretto funzionamento degli impianti esistenti e alla sorveglianza dei cantieri di quelli in costruzione; il TEI-Gruppo Tecnico Impianti, destinato a gestire l’apparato amministrativo e tecnico inerente costruzioni meccaniche, carpenterie e gru sia delle macchine che delle costruzioni edili; il PAS-Servizio Partecipazioni, Soci e Immobili che comprendeva sia la parte amministrativa degli immobili dell’impresa che la parte progettuale e di manutenzione dei medesimi immobili; il CAT-Centro Carpenteria Tubolare orientato nella sperimentazione, progettazione e realizzazione di strutture in tubolari come coperture, padiglioni espositivi, palificazioni e ponti.

Negli anni Venti l’Ufficio Tecnico è impegnato con l’esigenza di una riconfigurazione e ristrutturazione aziendale per essere competitiva a livello europeo. Ciò determina la modernizzazione dell’azienda dal punto di vista produttivo espandendosi soprattutto nel mercato dei pali elettrici e tralicci per le imprese ferroviarie, consolidando il rapporto con le Ferrovie dello Stato. Al consolidamento nel mercato si affianca anche quello dell’omonima company town che nel frattempo cominciava ad ampliarsi, affidando la progettazione delle infrastrutture, delle abitazioni destinate ai dipendenti e degli edifici pubblici all’architetto milanese Giovanni Greppi, delineando così un processo di urbanizzazione che sarà sancito con la nascita dal punto di vista amministrativo del comune di Dalmine nel 1927.

Giovanni Greppi, Quartiere operai, planimetria, Dalmine, anni Venti – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere operaio, planimetria, Dalmine, anni Venti. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Negli anni Trenta, con l’entrata in guerra, la Dalmine sposta la produzione verso materiali bellici, facendo sì che l’Ufficio Tecnico si confronti con una committenza militare ma anche nel completamento del centro di Dalmine con piazze ed edifici pubblici, sempre su progetto di Greppi, e nella realizzazione del nuovo stabilimento ad Apuania, che comprenderà anche la realizzazione di un complesso residenziale e attività commerciali, a cui seguiranno poi gli stabilimenti di Sabbio Bergamasco, Costa Volpino e Torre Annunziata.

Alla fine degli anni Quaranta, con la conclusione del secondo conflitto mondiale e l’inizio della modernizzazione del territorio italiano, l’Ufficio Tecnico comincia a mettere a frutto le conoscenze maturate, soprattutto le innovazioni riguardanti le strutture tubolari, per affiancare lo Stato nella progettazione e realizzazione di autostrade, gasdotti, oleodotti, elettrodotti, ponti tubolari, come ad esempio l’impianto NATO di La Spezia, il terminale per l’oleodotto a Falconara Marittima e l’acquedotto per l’approvvigionamento idrico di Ischia e Procida che vince il premio ANIAI 1958.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta il boom del settore petrolifero porta l’Ufficio Tecnico a confrontarsi con dei progetti oltre i confini nazionali, in quelli che all’epoca venivano definiti paesi emergenti, come la piattaforma di attracco delle petroliere nel Mar Rosso e la raffineria del Canale di Suez, che si configuravano come piccole isole artificiali di acciaio al largo delle coste totalmente autosufficienti, dotate di ogni comfort per gli addetti e collegate alla terraferma attraverso tubazioni sottomarine.

Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma del CAT-Centro Carpenteria Tubolare, 1958
Ricostruzione dell’organigramma del CAT- Centro Carpenteria Tubolare, 1958

Negli anni Sessanta esplode il boom economico e vengono introdotti i Piani Casa. Si concretizzano degli accordi con l’InaCasa che portano all’acquisto di alcuni lotti di case a Milano, a cui seguiranno investimenti per case popolari a Bergamo e nei comuni limitrofi a Dalmine, e la partecipazione al programma Gestione Case Lavoratori per la realizzazione di abitazioni a Milano e Roma (Lussana, 2014).

Publifoto, Fiera campionaria. Stand Dalmine, Milano 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Publifoto, Fiera campionaria, stand Dalmine, Milano 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltre i confini dell’azienda: l’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine dagli anni Venti agli anni Sessanta diventa cartina al tornasole della sfida di andare sempre oltre, di affrontare progetti sempre più complessi e di coinvolgere ed integrare competenze sempre più diversificate. L’azienda non è più solo il luogo fisico della produzione materiale, ma dove alle competenze progettuali si affianca una forte visione d’insieme dell’economia e della società. L’articolazione dettagliata e specializzata dell’Ufficio Tecnico consente alla Dalmine di valicare i “perimetri” aziendali, avviando e consolidando un esteso processo di progettazione degli spazi del lavoro e delle relative infrastrutture di servizio, ma anche di modernizzazione del territorio, configurando la Dalmine come dispositivo di progetto e strutturazione di paesaggi nazionali e internazionali.

Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro oltre la crisi. La Fondazione Dalmine

A partire dagli anni Settanta il ciclo degli Uffici Tecnici inizia un graduale esaurimento con l’affermarsi della società post-industriale e l’affiorante obsolescenza della piattaforma industriale italiana. Nel caso della Dalmine, l’acquisizione di nuovi stabilimenti da altre imprese pubbliche porta all’esaurimento del ruolo dell’Ufficio Tecnico nelle sue diverse declinazioni implicando una dismissione del sapere tecnico accumulato nei decenni precedenti. Si dissolve la capacità di prefigurazione del mondo, vengono a mancare visioni di futuro per i territori ed il ruolo del lavoro come elemento fondativo della città e dello spazio, l’anonimato cede il passo al protagonismo degli imprenditori, si affievolisce il dialogo fra pubblico e privato nel disegno dello spazio. Si dismette l’impegno progettuale delle aziende sul territorio e nel disegno degli spazi del lavoro, per cedere il passo a società di ingegneria con orientamenti fortemente tecnicisti e finanziari, ma spesso aride di nuove visioni di futuro. Nel quadro complessivo della delicata congiuntura di crisi economica e di dislocazione della produzione verso i paesi emergenti, si intravede tuttavia dei primi germi del progressivo innesco di un ciclo di inversione della delocalizzazione del Made in Italy e di ritorno al territorio italiano in termini di investimenti, per riconquistare e riconfigurare la sua piattaforma industriale (Bertagna, Gastaldi & Marini, 2012), puntando sulla nuova generazione di lavoratori e sul passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza (Florida, 2003).

La Dalmine, attraverso la creazione dell’omonima Fondazione, prova a reinventare l’azienda come luogo di formazione, insegnamento, rilancio. La sua storia e i suoi saperi maturati nel corso dei decenni, testimoniati dai ricchi materiali d’archivio in fase di sistematizzazione e valorizzazione, sono l’eredità culturale da cui partire.

Il futuro è oltre la crisi: in un momento in cui si riciclano materiali, ma anche idee, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa cartina al tornasole per leggere la trasformazione fisica e strutturale delle aziende nel territorio italiano, ma anche le possibili future traiettorie progettuali degli spazi del lavoro. Una vicenda entro cui rintracciare le mo­dalità di strutturazione di un laboratorio culturale ed architettonico per ripensare l’impegno progettuale delle aziende sul territorio italiano, il ruolo dell’architettura nel disegno degli spazi del lavoro, sviluppare riflessioni sul modello industriale di progetto dei territori, ritornare ad un possibile futuro “chiavi in mano” che consenta di andare oltre la crisi, il tecnicismo imperante, la dismissione materiale e immateriale, recuperandone i fattori competitivi e riaffermando l’azienda che torna a progettare il territorio, superando l’attuale scollamento e mettendo in gioco nuovi cicli che vanno oltre l’evanescenza della produzione.

Questo contributo prende le mosse dalla ricerca “Dalla Fabbrica al mondo. Gli Uffici Tecnici delle grandi aziende italiane” svolta all’interno dell’Assegno di Ricerca di Ateneo coordinato dalla Prof.ssa Sara Marini, Dipartimento di Culture del Progetto, Università IUAV di Venezia, Gennaio 2013 – Gennaio 2014.

Bibliografia

Banham, R. (1990). L’Atlantide di cemento. Edifici industriali americani e architettura moderna europea 1900-1925. Roma: Laterza.

Bertagna, A., Gastaldi, F., Marini, S. (a cura di). (2012). L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto. Macerata: Quodlibet.

Cariati, V., Cavallone, S., Maraini, E., & Zamagni, V. (a cura di). (2013). Storia delle società italiane di ingegneria e impiantistica. Bologna: Il Mulino.

Castronovo, V. (1977). Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945. Torino: Einuadi.

Della Valentina, G. (2006). Dalmine: un profilo storico. In F. Amatori, S. Licini (a cura di), Dalmine: 1906-2006. Un secolo di industria (pp. 31-80). Dalmine: Fondazione Dalmine.

Florida, R. (2003). L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni. Milano: Mondadori.

Lussana, C. (giugno 1998) Misure di razionalizzazione nella Dalmine degli anni Trenta. Sistemi & Impresa, 5.

Lussana, C. (2014) Fonti e spunti di ricerca dall’archivio della Fondazione Dalmine. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Gli Uffici Tecnici delle granzi aziende italiane. Progetti di esportazione di un fare collettivo (pp. 83-114). Padova: Il Poligrafo.

Marini, S. & Santangelo, V. (a cura di). (2014). Gli Uffici Tecnici delle granzi aziende italiane. Progetti di esportazione di un fare collettivo. Padova: Il Poligrafo.

Marini, S. (2011). Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto. Macerata: Quodlibet Studio.

Moretti, E. (2013). La nuova geografia del lavoro. Milano: Mondadori.

Olivetti, C. (1968). Lettere americane. Milano: Edizioni Comunità.

Rase, H.F., Barrow, M.H. (1957). Project Engineering of Process Plant. New York: John Wiley & Sons Inc.

Sassen, S. (2004). La città nell’economia globale. Bologna: Il Mulino.

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1. All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”.

Recycle. La sfida nel settore delle costruzioni

A cura dell’Osservatorio Recycle di Legambiente
Il contributo riproduce integralmente il primo rapporto pubblicato dall’osservatorio Recycle – La sfida nel settore delle costruzioni, organismo istituito nel 2015 da Legambiente con l’intento di approfondire e promuovere la ricerca attualmente in corso nel campo della lavorazione e dell’implementazione di materiali riciclati.

L’Italia ha la possibilità di aprire una nuova pagina nel settore delle costruzioni, che riguarda in particolare gli impatti che produce nei territori. Ridurre il prelievo di materiali e l’impatto delle cave nei confronti del paesaggio è una questione importante nel nostro Paese, perché sono tante le ferite gravissime ancora aperte nei territori. Oggi è possibile dare risposta a questi problemi: lo dimostrano i tanti Paesi dove ormai da anni si sta riducendo la quantità di materiali estratti con una forte spinta al riutilizzo di rifiuti aggregati e inerti provenienti dal recupero, oltre che con regole di tutela del paesaggio e gestione delle attività. In Italia esistono oggi circa 2.500 cave da inerti, e almeno altre 15.000 abbandonate, di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia. Cambiare questa situazione, aprendo un filone di green economy che produca ricerca, innovazione e posti di lavoro, è nell’interesse del sistema delle imprese e dell’ambiente.

L’obiettivo dell’Osservatorio Recycle, promosso da Legambiente, è di raccontare e approfondire l’innovazione già in corso nel settore della produzione di aggregati riciclati. Un processo che oggi è spinto anche dalla Direttiva 2008/98/CE che prevede che nel 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione. Un punto va sottolineato con attenzione: oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici per non utilizzare materiali provenienti da riciclo nelle costruzioni. Le esperienze raccontate in questo Rapporto descrivono cantieri e capitolati dove queste innovazioni sono già state portate avanti. E dimostrano come, se si fa riferimento a norme codificate basate sulle prestazioni, i materiali da riciclo e recupero di aggregati risultino assolutamente competitivi sul piano sia tecnico che economico.

Dov’è il problema?

Se in teoria oggi non esistono impedimenti tecnici o motivazioni di natura normativa che ne impedirebbero l’utilizzo, in realtà la diffusione di materiali provenienti dal recupero ha di fronte forti ostacoli in Italia.

Il primo problema riguarda i cantieri dei lavori pubblici e privati, dove spesso i capitolati sono una barriera insormontabile per gli aggregati riciclati. In molti capitolati è previsto l’obbligo di utilizzo di alcune categorie di materiali e di fatto ne è impedita l’applicazione per quelli provenienti dal riciclo. Per fare chiarezza su questa situazione, nel Rapporto sono descritti alcuni esempi pratici che dimostrano l’efficacia degli aggregati riciclati e degli asfalti derivati dal riutilizzo di pneumatici usati. Tra i lavori stradali e quelli edilizi è chiaro come ormai si possa intervenire con l’utilizzo di questi materiali in situazioni molto diverse fra loro (dal Palaghiaccio di Torino al nuovo Molo del Porto di La Spezia, dal Passante di Mestre all’Aeroporto di Malpensa). La Provincia di Trento è uno dei migliori esempi in Italia vista la pubblicazione di un capitolato tecnico per l’uso dei riciclati nei lavori di manutenzione pubblica, con le schede prodotto e l’elenco prezzi, destinato proprio a promuovere tra gli addetti ai lavori questo tipo di materiali. Per cambiare questa prospettiva serve che le stazioni appaltanti, pubbliche e private, e a tutti i livelli cambino i propri capitolati per impedire queste discriminazioni. In questa direzione vanno le proposte che abbiamo presentato con il capitolato speciale d’appalto Recycle, elaborato da Legambiente in collaborazione con Atecap, Eco.Men ed Ecopneus, che si pone l’obiettivo di stimolare le stazioni appaltanti a intraprendere la strada già fissata dall’Europa. L’obiettivo è di contribuire attraverso questo strumento a “calarsi” nei diversi capitolati esistenti (sono centinaia, e impossibili da sostituire con un capitolato unico) per introdurre i corretti e aggiornati riferimenti normativi che permettono di superare le barriere e le discriminazioni oggi esistenti. I capitolati rappresentano uno snodo fondamentale per fare chiarezza in particolare nell’utilizzo, nelle garanzie e nelle prestazioni degli aggregati riciclati e superare quella diffidenza da parte dei direttori dei lavori legata alla paura delle responsabilità amministrative e penali derivanti da un eventuale uso improprio dei materiali.

Il secondo problema riguarda lo scenario che la Direttiva 2008/98/CE dovrebbe aprire nel nostro Paese. Perché questo processo vada avanti servono infatti riferimenti chiari per accompagnare la crescita nell’uso dei materiali fino al target del 70% previsto al 2020. La Direttiva indica con chiarezza la necessità di accompagnare attraverso specifici provvedimenti questi processi e sono previsti decreti attuativi dallo stesso Decreto Legislativo 205/2010 che l’ha recepita nel nostro ordinamento. L’articolo 11 della Direttiva prevede che si adottino “criteri in materia di appalti” per favorire il riutilizzo. Il DL di recepimento prevede che questi criteri siano definiti attraverso Decreti Attuativi approvati dai Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico (Art. 6 del Dlgs 205/2010). Inoltre la Direttiva prevede all’articolo 29 che gli Stati possano stabilire dei propri traguardi intermedi, proprio per monitorare lo sviluppo della situazione al 2020.

Il rischio che non dobbiamo correre è che l’applicazione di questa direttiva risulti un’occasione sprecata, come avvenuto con l’applicazione del DM 203/2003 che già prevedeva per le società a prevalente capitale pubblico di coprire con il 30% del fabbisogno di manufatti e beni attraverso materiali riciclati. Come raccontano le risposte avute da alcune grandi stazioni appaltanti che si trova in fondo a questo rapporto, è diffusa la non applicazione di questi obiettivi per mancanza di corrette informazioni sui prodotti riciclati, per pigrizia o per interessi stratificati nel tempo intorno alla gestione dei materiali di cava e alla gestione di cantieri dove si fa largo uso di acqua, prodotti petroliferi. Per questo serve che il Governo intervenga per dare forza a questo percorso di cambiamento.

I vantaggi che questo tipo di prospettiva aprirebbe sono infatti rilevanti. In primo luogo in termini di lavoro e attività imprenditoriali, perché le esperienze europee dimostrano che aumentano sia l’occupazione che il numero delle imprese attraverso la nascita di filiere specializzate. In secondo luogo, nella riduzione del prelievo da cava. Perché arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che permetterebbero di chiudere almeno 100 cave di sabbia e ghiaia per un anno. Infine, da un punto di vista della riduzione di emissioni di gas serra. Perché aumentando la quantità di pneumatici fuori uso recuperati e utilizzati fino a raddoppiarla al 2020, diventerebbe possibile riasfaltare 26.000 km di strade. Il risparmio energetico ottenuto, considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio, sarebbe di oltre 400.000 MWh. Ossia il consumo in più di due anni di una città come Reggio Emilia, con un taglio alle emissioni di CO2 pari a 225.000 tonnellate.

Le scelte per spingere la green economy nel settore delle costruzioni

1. Cambiare i capitolati fissando obiettivi prestazionali.

Da Anas alle concessionarie autostradali, da RFI a Terna, fino alle stazioni appaltanti comunali, occorre che siano rivisti tutti i capitolati che ancora fissano barriere per l’utilizzo di materiali riciclati. I capitolati rappresentano infatti uno snodo fondamentale per fare chiarezza nell’utilizzo, nelle garanzie e nelle prestazioni degli aggregati riciclati e per superare la diffidenza da parte dei direttori dei lavori legata alla paura delle responsabilità amministrative e penali derivanti da un eventuale uso improprio dei materiali.

La responsabilità è in capo alle Stazioni appaltanti ma anche ai Ministeri delle Infrastrutture e dell’Ambiente perché siano introdotti quei chiarimenti previsti dalle Direttive europee.

2. Attuare la Direttiva Europea introducendo obblighi crescenti di utilizzo di aggregati riciclati

I Ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture devono dare seguito a quanto previsto dalle Direttive europee, in termini di chiarimenti normativi e di obblighi crescenti nei capitolati di utilizzo degli aggregati/materiali di recupero minimo e crescente fino al 70% già previsto al 2020. In questo modo si possono costruire le condizioni per raggiungere gli obiettivi europei prefissati. Questo obiettivo deve interessare non solamente gli Enti pubblici e le società a prevalente capitale pubblico, come previsto attualmente per il solo 30% dei materiali, dal Decreto Ministero dell’Ambiente 203/2003, ma tutte le opere senza distinzione. Inoltre nei bandi di gara si deve prevedere che a parità di altre condizioni debba preferirsi l’offerta che proponga la più alta percentuale di impiego dei materiali riciclati o comunque non di origine naturale.

A dimostrare come questo cambiamento sia possibile, lo dimostra l’esempio della Provincia di Trento. La Legge Provinciale n. 10 del 2004 ha introdotto l’obbligatorietà di acquistare prodotti in materiale riciclato per almeno il 30% del fabbisogno. I requisiti ambientali chiesti alle imprese sono stati poi definiti dalle norme tecniche e ambientali per gli aggregati riciclati (D.G.P. 1333/2011) ed hanno interessato tutte le fasi (programmazione e progettazione, realizzazione e manutenzione) con la stessa Provincia di Trento che in qualità di soggetto acquirente dà ormai costantemente il suo contributo allo sviluppo del mercato degli aggregati riciclati.

Il cambiamento di cui abbiamo bisogno è infatti innanzi tutto culturale, riguarda progettisti, imprese, enti pubblici. Per questo ha bisogno di una chiara visione del futuro, come quello disegnato dall’Europa, e poi di una attenta azione di informazione e di formazione, oltre che di riferimenti operativi in grado di fornire indicazioni chiare e precise sulle caratteristiche che i materiali di recupero devono avere per essere utilizzati nell’ambito delle costruzioni. In tale contesto ben si inserisce l’esempio che la Regione Veneto ha dato con propria deliberazione n. 1060 del 24/06/2014; delibera che, per ogni materiale recuperato ai sensi del D.M. 5/2/98 ed utilizzabile nel settore delle costruzioni, ha definito per ogni possibile impiego previsto dal DM tutti i puntuali riferimenti normativi UNI-EN applicabili.

Abbiamo davvero la possibilità di far crescere una moderna filiera delle costruzioni in cui siano le stesse imprese edili a gestire il processo di demolizione selettiva degli inerti provenienti dalle costruzioni in modo da riciclarli invece che conferirli in discarica. Governo e Regioni devono aiutare questo processo con leggi che obblighino a utilizzare una quota di inerti provenienti dal recupero in tutti gli appalti pubblici. Le quantità più rilevanti di materiali estratti ogni anno in Italia sono utilizzate per l’edilizia e le infrastrutture, oltre il 62,5% di quanto viene cavato sono inerti, principalmente ghiaia e sabbia. Serve una spinta rapida se si considera che ogni anno vengono prodotte quasi 40 milioni di tonnellate di rifiuti inerti e che la capacità di recupero sfiora a mala pena il 10%, anche se con differenze significative tra Regione e Regione. L’Italia, attraverso queste scelte, può recuperare il ritardo nei confronti degli altri Stati europei che già da tempo hanno introdotto politiche di riciclo che coinvolgono questa particolare categoria di rifiuti: l’Olanda con il 90% dei materiali recuperati è la nazione più virtuosa, seguita da Belgio (87%) e Germania (86,3%). Esistono tra l’altro esempi importanti e positivi anche nel nostro Paese come dimostra ciò che avviene in Veneto, dove si producono in media oltre 5.500.000 di tonnellate all’anno di rifiuti da C&D, di cui più dell’ 80% vengono avviati a recupero e utilizzato anche in infrastrutture stradali.

Le buone pratiche

1. Asfalti in Val Venosta (BZ)

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In Italia, in 27 Province ci sono già circa 250 km di strade con asfalti con gomma riciclata, una tecnologia che ha il suo punto di forza nel dimezzamento del rumore del traffico al quale vanno aggiunte una vita media tre volte superiore agli asfalti “tradizionali” e la maggiore resistenza a crepe e fessurazioni, con una minore necessità di interventi di manutenzione. Questo si traduce in meno cantieri per la città e meno costi per la Pubblica Amministrazione, avendo al contempo una pavimentazione di ottimo livello e ambientalmente sostenibile. In particolare sono particolarmente positivi i risultati del monitoraggio effettuato sul tratto stradale in Val Venosta, tra Coldrano e Vezzano, realizzato con asfalti modificati con gomma riciclata da Pneumatici Fuori Uso (PFU). L’asfalto prodotto con polverino di gomma è risultato in grado di ridurre il rumore causato dal rotolamento degli pneumatici fino a 5 db. La riduzione del rumore rende inoltre questi asfalti una valida alternativa all’utilizzo delle barriere acustiche su strade ad alta percorrenza. Anche il rapporto tra i costi di realizzazione e manutenzione delle barriere sonore e la posa di asfalti “modificati” è favorevole a quest’ultima soluzione.

2. Circonvallazione di Venaria e Borgaro (TO)

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Anche in Provincia di Torino è stato sperimentato l’utilizzo del polverino di gomma per la realizzazione del manto stradale, in particolare per la pavimentazione della strada Borgaro – Venaria. Nell’ambito dei lavori per la realizzazione della circonvallazione di Venaria e Borgaro è stato asfaltato un tratto di 1.200 m con conglomerato bituminoso contenente polverino di gomma da pneumatici fuori uso. Si tratta della più grande opera pubblica che la Provincia di Torino abbia mai realizzato. La superficie coperta è di circa 16.000 m2. Per ricoprire con il conglomerato bituminoso 1 km di strada si utilizza (miscelandolo con altri materiali) il polverino proveniente dal riciclo della gomma di 2.000 pneumatici di autovetture (o di 1.400 pneumatici di autocarri).

3. Passante di Mestre (VE)

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Una delle infrastrutture più importanti realizzate dal recupero di rifiuti di lavorazioni industriali e di materiali da demolizione e costruzione è il Passante di Mestre. L’utilizzo di Econcrete ha garantito un risparmio di materiale naturale del 71%, una riduzione delle deformazioni del materiale sottoposto a sollecitazioni veicolari variabile dal 10 al 37%, un aumento della vita utile della strada pari a 88% e un sensibile abbattimento dei costi complessivi dell’opera. I dati che riguardano il Passante di Mestre parlano chiaro: il calcolo del volume del materiale da cava risparmiato è di circa 320.000 m3, corrispondente alla produzione annuale di una cava di medie dimensioni. Ad affiancarsi a questo già enorme beneficio ambientale ci sono i viaggi di camion per il trasporto del materiale che sono stati quindi evitati, circa 40.000, come se per un intero giorno non circolasse nel Passante di Mestre alcun mezzo e di conseguenza un deciso risparmio di emissioni di CO2 ottenuto dalla minor quantità di energia elettrica per l’estrazione e la lavorazione di materiale inerte, dal minor utilizzo di conglomerato bituminoso e dal minor numero di viaggi di trasporto effettuati, e che corrisponde a circa 11.400 tonnellate di CO2.

4. Variante di Canali (RE)

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Il progetto nasce con lo scopo di deviare parte del traffico dalla cintura urbana, verso l’imbocco della A1. A seguito di una prima stesura del progetto con criteri tradizionali, è stata realizzata una variante progettuale tesa a ridurre l’impatto ambientale non solo relativamente alla scelta del tracciato ed alla sua integrazione nel contesto, ma anche nella scelta di materiali e tecnologie che riducessero significativamente il ricorso a cave di prestito, legante a caldo e  tecnologie a freddo adottando modalità costruttive e processi operativi sostenibili. Si tratta della costruzione di un semi-anello di 3 km di sviluppo per una sezione trasversale media di 10,5 m per una superficie di 31.500 m2 in totale. Il progetto originale prevedeva conglomerati a caldo per uno spessore medio di 25 cm con una richiesta di inerti vergini per oltre 18mila tonnellate. Grazie alla variante di progetto il materiale vergine necessario è stato di 5.071 tonnellate, con un risparmio di oltre 13.000 tonnellate. La base bitumata è stata realizzata con inerti interamente di riciclo (fresato stradale) legati a freddo con emulsioni bituminose per riciclaggio alla temperatura di 60-70°C senza emissione di fumi e realizzazione in situ. Inoltre il risparmio energetico nella fase di realizzazione è stato quantificato in 40.839 kWh grazie alla variante adottata in termini di riduzione degli spessori, lavorazioni a freddo, minori trasporti. Di conseguenza anche la CO2 non emessa è stata notevole: 23.687 kg. A questi dati vanno aggiunti
quelli del risparmio
energetico e della CO2
 evitata grazie all’aumento della 
vita utile previsto, e valutati 
rispettivamente in 28.620 kWh e 16.600 kg
. A 6 anni dall’entrata in esercizio della pavimentazione non sono presenti deformazioni di sagoma, né interventi manutentivi di alcun tipo. Inoltre la minore emissione di rumore da rotolamento è quantificabile in 2 db rispetto ad una pavimentazione realizzata nello stesso periodo e presa a riferimento. Anche gli spazi di frenata necessari risultano inferiori di circa il 20% rispetto alla pavimentazione di riferimento.

5. Merano (BZ)

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A Merano sono stati realizzati numerosi lavori di riqualificazione della pavimentazione stradale esistente nell’ambito dei piani di risanamento acustico della Provincia per un totale di 30.000 metri quadrati. L’impatto della rumorosità da traffico sull’ambiente e le abitazioni circostanti era rilevante, ed in alcuni casi si sono rilevati livelli di incidenza del rumore superiori ai minimi di legge anche nelle ore notturne. L’intervento è stato scelto dalla Provincia di Bolzano, in alternativa alle previste barriere anti- rumore di 3 m di altezza rivelatesi troppo costose, impattanti sull’ambiente circostante e fonte di potenziale pericolosità considerata la presenza di incroci a raso sui quali avrebbero limitato la visibilità. Il costo delle barriere acustiche (per una vita utile prevista in 30 anni) era di 60 euro/anno mentre il costo della pavimentazione Asphalt Rubber di tipo GAP nei 30 anni presi a riferimento, considerato il rifacimento ogni 5 anni per garantire nel periodo in esame l’abbattimento del rumore generato dal traffico veicolare di almeno 3 db rispetto ad una pavimentazione tradizionale, è di 35 euro/anno. Si tratta di un risparmio di 125.000 euro. La pavimentazione allo stato attuale non presenta deformazioni né interventi manutentivi.

6. Autostrada dei Parchi (A24 Roma – Teramo)

Bilder f¸r Wikipedia

Nel caso della A24 i lavori hanno previsto una pavimentazione sperimentale per testare le prestazioni fisico-meccaniche, di emissione di rumore da rotolamento generato dal traffico e la riduzione degli spazi di frenata, in ambito autostradale. La superficie complessiva interessata è stata di 47mila metri quadrati con un conglomerato di tipo OPEN (semi drenante e fonoassorbente). L’esecuzione dei due tratti sperimentali ha confermato le caratteristiche proprie di questo tipo di pavimentazioni, assicurando un abbattimento del rumore da rotolamento di oltre 3 db e la riduzione degli spazi di arresto anche in condizioni di bagnato di circa il 25% rispetto ad una pavimentazione tradizionale coeva. Allo stato attuale la pavimentazione non presenta difettosità di sagoma né ha richiesto interventi manutentivi.

7. Autostrada del Brennero (A22 Modena – Passo del Brennero)

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L’intervento effettuato nei pressi di Rolo (RE) ha riguardato circa 8.000 m2. La tecnologia impiegata in questo caso è DRY, con un conglomerato di granulometria 0/14 mm., realizzato con bitume modificato con polimeri SBS e additivi per la riduzione delle temperature di produzione e stesa, non superiori a 165 °C e 150 °C rispettivamente ed aggiunta di polverino di gomma da PFU di granulometria 0/4 dmm a fine processo di muscolazione. La pavimentazione sperimentale a bassa temperatura ha dimostrato di mantenere le caratteristiche tipiche di capacità drenante associando a queste ultime una buona riduzione del rumore generato dal rotolamento da traffico veicolare (-2db rispetto ad una pavimentazione tradizionale coeva) ed una riduzione degli spazi di arresto stimata del 25%. La posa del conglomerato è avvenuta a temperatura non superiore a 150 °C con effetti benefici in ordine alla ridotta emissione di fumi ed emissioni di cattivi odori tipiche di soluzioni di applicazione a temperature standard (superiori di 30/40 °C). Allo stato attuale la pavimentazione non presenta difettosità di sagoma né ha richiesto interventi manutentivi.

8. Interporto di Fiumicino (RM)

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Un’altra infrastruttura di notevole estensione e che ha visto l’utilizzo di materiali riciclati è la Piattaforma logistica dell’interporto di Fiumicino. Nel 2009 infatti sono stati realizzati i capannoni, le strade e le aree di sosta per un totale di 330.000 m2 di superficie con l’ impiego di aggregati riciclati per 50.000 m3.

9. Aeroporto Malpensa (MI)

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Simile realizzazione è quella del completamento e dell’ampliamento delle vie di rullaggio e dei piazzali di sosta dell’Aeroporto di Malpensa, che ha visto un impiego addirittura di 120.000 m3 di aggregati riciclati.

10. Ampliamento Molo Garibaldi (Porto di La Spezia)

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Uno degli utilizzi di aggregati riciclati in campo portuale riguarda i riempimenti a mare , come nel caso dell’ampliamento del molo nel Porto di La Spezia. Essendo reperibili in zona aggregati C&D è stata considerata nello specifico tale opzione tenuto conto sia della difficoltà di reperire inerti naturali che del volume di materiale da porre in opera, di oltre 130.000 m3. L’abbinamento della tecnica della vibroflottazione (una tecnica di miglioramento delle caratteristiche geotecniche del terreno di fondazione, che consiste nell’addensamento del terreno stesso, sia esso di tipo granulare che coesivo, con conseguente riduzione dell’indice dei vuoti, e miglioramento della sua resistenza al taglio) con l’impiego di materiale proveniente da attività di demolizione e l’entità del volume di riempimento trattato inseriscono l’intervento in oggetto nel novero delle applicazioni più significative di compattazione profonda realizzate recentemente in Italia.

11. Palaghiaccio di Torino

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Anche il Palaghiaccio di Torino, opera costruita nell’ambito delle realizzazioni olimpiche per Torino 2006, rappresenta un interessante esempio di applicazione di materiali riciclati. In particolare l’aggregato riciclato è stato utilizzato per la realizzazione di tutto il sottofondo sia interno che esterno alla struttura. L’opera ha visto l’impiego di 20.000 m3 di aggregati riciclati.

Le normative e i bandi

1. Legge Regione Toscana – Obbligo di utilizzo del 15% di aggregati riciclati gia’ nel 1998

Azione fondamentale è quella legata al cambiare le norme vigenti andando verso un sistema di obbligatorietà dell’uso di materiali riciclati. La Regione Toscana già nel 1998 fece suo un provvedimento destinato a favorire l’uso di materiali recuperabili per la realizzazione di opere pubbliche di interesse pubblico, finanziate dalla Regione. La Legge ha previsto che nel caso di opere realizzate dalla Regione o da enti da essa dipendenti, i bandi di gara devono prescrivere obbligatoriamente l’impiego di una percentuale minima di materiali, stabilita nel 15%, provenienti da recupero/riciclo di rifiuti e stabiliscono un sistema di incentivi che premino l’utilizzo di una percentuale superiore a quella minima suddetta.

2. Legge Provincia Trento – Acquisti pubblici verdi anche sui materiali inerti (30%)

Altra realtà che pone da tempo attenzione a questo tema è la Provincia Autonoma di Trento dove è stato implementato un capitolato tecnico per l’uso dei riciclati nei lavori di manutenzione pubblica, con le schede prodotto e l’elenco prezzi, il Piano di smaltimento dei rifiuti inerti, nel quale è stata data priorità al riciclo e recupero, e le linee guida per il corretto trattamento e recupero di tali rifiuti. Tutti questi documenti sono stati elaborati considerando l’intera filiera del riciclo, dai produttori agli utilizzatori. La Provincia ha inoltre reso obbligatori con una delibera del 2010 gli acquisti verdi includendo appunto anche gli aggregati riciclati, per almeno il 30% del totale. Tutto ciò in una visione ispirata agli orientamenti comunitari ed a ciò che le Direttive Europee già richiedono.

3. Legge Provincia Lecce – Obblico di riciclo al 70% degli inerti stradali

La Giunta Provinciale di Lecce ha dato indirizzo agli uffici tecnici di prevedere il recupero e il riutilizzo del materiale inerte dalla demolizione di sovrastrutture stradali, superando così i livelli italiani per mettersi al passo dell’Europa. È infatti noto che l’inerte presente all’interno dei conglomerati bituminosi di cui sono piene le strade provinciali, essendo totalmente privo di catrame, ha caratteristiche tali da consentire il re- impiego nella formazione di miscele di aggregati destinati ad essere nuovamente utilizzati nel settore. Questa pratica comporterà un notevole risparmio nell’attività della estrazione dei materiali dalle cave e un immediato risparmio ambientale, oltre che un miglioramento della stessa qualità del nostro territorio, risparmiato da continue estrazioni. L’ente, già da qualche tempo, aveva avviato la sperimentazione di alcuni appalti che hanno seguito questa logica, prevedendo il riutilizzo degli inerti per percentuali sempre più alte, come nel caso della strada Nardò–Avetrana, ma ora si muoverà in questa direzione uniformemente, per tutti i suoi progetti e cantieri.

4. Capitolato Provincia Pisa – Canale scolmatore dell’Arno

Un esempio importante di come un Capitolato Speciale d’Appalto possa incentivare e supportare il mercato del riciclo dei materiali da costruzione è quello della Provincia di Pisa realizzato per l’adeguamento idraulico del canale scolmatore dell’Arno. I lavori (che dovranno concludersi nel 2016) riguardano la costruzione di due moli foranei, aggettanti verso mare per circa 550 metri, che costituiranno la “foce armata” del Canale Scolmatore necessaria a prevenire i fenomeni di insabbiamento dello sbocco a mare che in passato ne hanno limitato l’efficienza idraulica. L’area d’intervento è ubicata in corrispondenza dello sbocco a mare del Canale Scomaltore d’Arno che costituisce il naturale confine tra i Comuni di Pisa e Livorno. All’interno del CSA si richiama, e se ne fa obbligo di attuazione, il decreto del ministero dell’ambiente 8 maggio 2003, n. 203 che prevede l’utilizzo di almeno il 30% di materiali riciclati.

5. Capitolato Genova – Strada locale (via San Biagio)

Stessa situazione si presenta nel caso del Capitolato Speciale d’Appalto per l’adeguamento di via San Biagio a Genova. Vengono infatti richiamate le disposizioni del D.M. 8 maggio 2003, n. 203 per coprire il fabbisogno di materiali con una misura non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo tramite aggregati riciclati. Inoltre per quest’opera vengono anche richiamati gli obblighi previsti dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 per il recupero e riutilizzo delle terre e rocce da scavo (sostituito poi dal D.Lgs. 205/2010).

6. Capitolato Odolo (BS) – Riqualificazione ambientale torrente Vrenda

Ancora un altro esempio viene dal CSA del Comune di Odolo, provincia di Brescia, per la riqualificazione ambientale del Torrente Vrenda. Qui viene specificato che i materiali occorrenti per la costruzione delle opere devono risultare in ottemperanza al D.M. 203/2003 dove appunto si prescrive l’utilizzo di materiali riciclati nella misura complessiva del 30% del fabbisogno dell’opera da realizzare.

7. Capitolato S. Giovanni in Fiore (CS) – Due fabbricati di edilizia residenziale pubblica

Infine interessante anche il caso del CSA di San Giovanni in Fiore, dove le opere in oggetto riguardano due fabbricati di edilizia residenziale popolare, la realizzazione di garage, la sistemazione del verde pubblico e la ristrutturazione del Centro Anziani Comunale. Anche qui viene richiamato l’obbligo del 30% di aggregati riciclati presente nel D.M. 8 maggio 2003, n. 203, e le norme riguardanti le terre e rocce da scavo contenute nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e sostituito dal D.Lgs. n. 205/2010. Vengono inoltre stabiliti i limiti di impiego degli aggregati grossi provenienti da riciclo a seconda dell’origine degli stessi. Per le demolizioni di edifici (macerie) fino al 100%, per le demolizioni di solo calcestruzzo e calcestruzzo armato di classe C30/37 minore del 30%, per quelli di classe C20/25 fino al 60%.

8. Roma capitale – Riempimento di buche con aggregati riciclati

Un esempio su come aiutare il settore degli inerti riciclati viene dalla decisione, presa nel Dicembre 2014, dell’Amministrazione Comunale e dell’Assessorato ai Lavori Pubblici di Roma Capitale di indire due gare per il riempimento delle buche delle strade con l’utilizzo esclusivo di prodotti provenienti dal riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione in sostituzione dei materiali inerti ottenuti da attività estrattive. Per gli interventi verrà impiegata una miscela cementizia a bassa resistenza confezionata con prodotti inerti riciclati; secondo uno studio elaborato dall’Università Sapienza di Roma l’uso di tale miscela cementizia consentirà al Comune un risparmio economico superiore al 20% rispetto all’utilizzo dei prodotti di cava, senza contare i connessi vantaggi ambientali.

Le risposte dei grandi cantieri

Per capire il modo in cui le stazioni appaltanti stanno affrontando il tema dell’utilizzo degli aggregati riciclati, Legambiente negli scorsi anni ha chiesto se venissero utilizzati questi materiali in alcuni grandi cantieri italiani, quali il cantiere del nuovo palazzo dei Congressi a Roma, le varianti sulla SS 14 Triestina e l’Autostrada Catania-Siracusa di ANAS, la nuova Stazione di Bologna Centrale per Grandi Stazioni. Le risposte ricevute sono diverse, ma tutte uguali nelle conclusioni: mancanza di conoscenza della qualità degli aggregati riciclati e poche informazioni sul reperimento dei materiali stessi sono tra le principali cause, ma anche scelte progettuali e quelle da parte delle Direzioni Lavori hanno influenzato l’esito finale.

Proprio le risposte ricevute confermano quanto sia urgente e importante fare chiarezza attraverso obiettivi, regole e sistemi di controllo.

ANAS s.p.a.

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Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane

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EUR s.p.a.

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Ceramica Made in Umbria

Intervista a Elisabetta Furin
La storia del territorio umbro è strettamente legata a quella del suo rapporto con l’arte della lavorazione della ceramica. Il progetto Ceramica Made in Umbria, avviato nel 2013, interpreta il recupero di tale tradizione come opportunità per aggregare una rete di imprese del settore e rilanciare la produzione locale sui mercati nazionali e internazionali.

Quando, come e perché nasce il progetto Ceramica Made in Umbria?

Il progetto nasce nel 2013, quando il servizio per l’internazionalizzazione, lo sviluppo economico e il credito alle imprese della Regione Umbria ha intrapreso un’indagine in merito alla situazione di crisi in cui attualmente versa lo scenario locale della lavorazione della ceramica. A scapito di un passato glorioso che lo ha reso famoso in tutto il mondo, quello della ceramica umbra appare ormai da anni come un settore in grave difficoltà, in cui all’assenza di investimenti finalizzati a generare innovazione ha corrisposto la dismissione di un ingente numero di imprese. È stato quindi per approfondire le cause di tale crisi che la Regione ha avviato una mappatura delle aziende ceramiche attualmente operanti in area umbra, nell’ottica di individuare quali, fra di esse, apparissero più adeguatamente “attrezzate” a supportare un’azione di rilancio produttivo e merceologico del settore. Lo studio, condotto in collaborazione con la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Perugia, ha portato alla selezione di una ventina di soggetti su più di un centinaio, fra singoli artigiani, micro-imprese e aziende di dimensioni più cospicue. Di qui è nata l’idea di un “contributo operativo” alla ricerca, volto alla progettazione di una serie di oggetti in ceramica in grado di intercettare più efficacemente le esigenze dei nuovi mercati nazionali ed esteri. Questo compito è stato affidato a me in qualità di docente dell’Istituto Italiano di Design, l’unica scuola in Umbria a includere il design del prodotto nella propria offerta formativa.

Elisabetta Furin
Elisabetta Furin

Quali sono dunque le cause di tale crisi?

La ceramica umbra ha tradizionalmente goduto di un elevato grado di consenso da parte del mercato, raggiungendo un picco fra gli anni ‘80 e ‘90 del XX secolo. La crisi finanziaria globale, da un lato, e le rinnovate esigenze manifestate dal pubblico in termini economici ed estetici, dall’altro, hanno fatto sì che tale domanda calasse drasticamente nel giro di pochi anni, cogliendo le aziende del distretto del tutto impreparate a far fronte alla situazione. Le tecniche produttive e gli stilemi formali a cui esse si attenevano erano ancora quelli che hanno fatto celebre la storia della maiolica umbra, ma che al giorno d’oggi, per varie ragioni, non risultano più sostenibili (basti pensare che un piattino del diametro di 20 cm completamente dipinto a mano può arrivare a costare intorno ai 300 euro). Per anni queste aziende hanno vissuto di rendita senza prendere in considerazione le future evoluzioni del mercato, e ciò ha finito per mettere in crisi il settore stesso, e i modelli di produzione e fruizione su cui esso si era fino ad allora basato.

Case, set di vassoi in due dimensioni. L'Antica Deruta, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Case, set di vassoi in due dimensioni. L’Antica Deruta, Deruta (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Quante aziende sono coinvolte nel progetto, e in che modo sono state selezionate?

Il progetto coinvolge 21 aziende, selezionate in base a prerogative che denotassero una particolare propensione a innovare e internazionalizzare la propria attività produttiva: un solido apparato tecnico e organizzativo, una buona percentuale di esportazioni all’estero, l’adozione di strategie di comunicazione e vendita online… E via dicendo. Al tempo stesso, la selezione ha tentato di riflettere la ricchezza e la varietà delle tecniche di lavorazione ceramica storicamente diffuse sul territorio umbro: le aziende che partecipano al progetto appartengono non solo all’area di Deruta (il centro produttivo più noto e rinomato), ma anche a realtà come Gubbio, Gualdo Tadino, Orvieto e altre ancora, ciascuna con le sue caratteristiche e peculiarità. È stato principalmente questo aspetto a suggerirmi l’idea di una collezione di prodotti che, a partire dalla tradizione della ceramica umbra intesa nella sua unitarietà, sapesse anche rispecchiare e valorizzare le specificità locali.

Coppa, ciotoline con cucchiaino, anche cocotte da forno, in due grandezze. Azienda Mastro Giorgio, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Coppa, ciotoline con cucchiaino, anche cocotte da forno, in due grandezze. Mastro Giorgio, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Che tipo di modello produttivo ed economico risiede alla base della nuova collezione di prodotti?

Per agevolare economicamente le imprese senza per questo penalizzare la prestazione del designer, oltre ai costi di realizzazione degli stampi e dei prototipi la Regione Umbria ha scelto di coprire anche quelli di progettazione. I diritti della collezione appartengono alla Regione, e ogni impresa coinvolta ne produce uno o più pezzi, svincolata dal pagamento di royalty nei confronti del progettista e facendosi carico unicamente dei costi legati ai processi di produzione degli articoli avuti in concessione. In questo modo i prodotti della collezione valorizzano anche le abilità specifiche delle singole aziende, a partire dalla loro identità storica e dalle tipologie di prodotti già consolidate verso i loro abituali clienti di riferimento.

Maschio e Femmina, set di bicchierini per shot e finger food . Rampini, Gubbio (PG). © Foto di Michele Tortoioli
Maschio e Femmina, set di bicchierini per shot e finger food . Rampini, Gubbio (PG). © Foto di Michele Tortoioli

Perché ritieni importante recuperare la tradizione della ceramica umbra?

In un territorio come l’Umbria, ricco di boschi e fiumi, l’argilla si offre spontaneamente, e fin dai tempi degli Etruschi la produzione di oggetti in ceramica ha rappresentato un’importante testimonianza di evoluzione economica, artistica e culturale. È tuttavia con il Rinascimento che il settore raggiunge la sua soglia di massimo sviluppo, quando artisti come Raffaello, Pinturicchio e il Perugino commissionano agli artigiani ceramisti la messa in forma di oggetti elaborati a partire dai dettagli presenti nelle proprie opere, dando vita agli esemplari che possiamo ammirare oggi in alcuni dei musei più importanti del mondo. Lavorando alla nuova linea di prodotti ho ritenuto imprescindibile confrontarmi con una tradizione che ha segnato a tal punto l’identità storica della nostra regione: ho anzi sentito che, per realizzare qualcosa che fosse al tempo stesso innovativo e tipicamente umbro, era necessario partire proprio dal recupero di questa tradizione, proiettandola nella contemporaneità tramite una rilettura che agisse analogamente sul piano produttivo, funzionale ed estetico.

Fiasca, Brocca da 1.5 l per bevande e ampolla da 200 ml per condimenti. Bizzirri, Città di Castello (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Fiasca, brocca da 1.5 l per bevande e ampolla da 200 ml per condimenti. Bizzirri, Città di Castello (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Cos’è il Banchetto Contemporaneo, e a che categoria di pubblico si rivolge?

Il Banchetto Contemporaneo è una collezione composta da 45 articoli (in prevalenza oggetti da tavola, ma anche altre differenti tipologie di prodotti), che fa riferimento a un mercato contract e retail di alto livello nel campo della ristorazione e dell’ospitalità. Nel reinterpretare un tema ricorrente nella tradizione della ceramica umbra, quello del banchetto, la collezione tenta di intercettare i nuovi scenari della socialità condivisa, concentrandosi principalmente su situazioni conviviali quali catering, degustazioni, aperitivi. Gli oggetti della collezione nascono per connotare scenograficamente lo spazio collettivo e, pur non escludendo un loro possibile uso nel privato delle mura domestiche, si prestano maggiormente a essere impiegati nell’ambito di occasioni speciali piuttosto che a una fruizione quotidiano e di routine. La scelta di una vendita al dettaglio (pensiamo ad esempio agli hotel e ai ristoranti italiani all’estero) è stata motivata anche dai limiti tecnici e funzionali del materiale: la maiolica è molto fragile e, pur essendo un materiale povero, al contrario di impasti come porcellana e grès, non risulta particolarmente adatta a un utilizzo di vasta scala.

L’intera collezione

Quali sono gli aspetti del processo tradizionale di lavorazione della maiolica che il progetto va a recuperare?

La lavorazione tradizionale è legata all’uso del tornio, alle forme di rotazione, alla circolare perfezione descritta ne I tre libri del vasaio di Cipriano Piccolpasso, in cui il trattatista cinquecentesco raccoglie e sintetizza le conoscenze tecniche sulla produzione della ceramica fino ad allora codificate. Gli oggetti che compongono la collezione richiamano le geometrie realizzabili al tornio, ma sono prodotti tramite stampi in gesso a colaggio: tecnologia, anch’essa di origini antichissime, che permette di ottenere forme anche complesse con costi ridotti e logica di serialità, facendo eco a una standardizzazione di tipo industriale pur rimanendo un procedimento essenzialmente artigianale. Un’ulteriore prerogativa della collezione fa riferimento a un’istanza di astrazione estetica e formale. Storicamente la maiolica è dipinta, fattore che portato, nel corso del tempo, ad assimilare tale lavorazione alla stregua di una vera e propria forma d’arte, tradendone in un certo senso il principio originario: quello di abbellire gli oggetti d’uso quotidiano. Nel mio progetto ho privato la pittura di questo ruolo centrale attribuendolo invece alla materia, tramite la creazione di motivi in rilievo ispirati alle decorazioni pittoriche tradizionali; il colore è invece ridotto a poche pennellate, che, a seconda di come il pigmento si distribuisce fra una rientranza e l’altra, creano effetti unici e irripetibili che contribuiscono a rimarcare il carattere artigianale di ciascun prodotto.

Bacile, piatto da portata. Pimpinelli, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Bacile, piatto da portata. Pimpinelli, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli

E in che modo il progetto mette in relazione tale tradizione produttiva con il panorama delle tecnologie attuali?

Le texture che appaiono in rilievo sulla superficie dei pezzi sono state disegnate attraverso un software CAD e successivamente trasferite su maschere in lamiera metallica da imprimere sul materiale in fase di stampaggio. Oltre al fatto che sarebbe stato assurdo chiedere allo stampista di riprodurre delle forme così regolari e minute direttamente all’interno dello stampo, tale procedura asseconda tecnicamente l’idea di decoro applicato come strato materico anziché cromatico. Un secondo aspetto riguarda l’utilizzo di un codice QR, leggibile tramite smartphone e altri dispositivi mobili, in luogo del classico marchio di fabbrica con cui ogni bottega usava siglare i propri pezzi per denotarne la provenienza. Grazie a questo sistema, ciascun pezzo rimanda interattivamente a un contenuto online correlato, che permette di rintracciare, insieme ai dati dell’azienda produttrice, alle specifiche tecniche del prodotto e alle informazioni sull’acquisto, anche un approfondimento storico sul dettaglio della tradizione locale a cui l’articolo in questione si ricollega.

Mug, set di tazze impliabili. G & P. di Gialletti e Pimpinelli © Foto di Michele Tortoioli
Mug, set di tazze impliabili. G & P. di Gialletti e Pimpinelli © Foto di Michele Tortoioli

Quali sono state le strategie di comunicazione legate al progetto?

L’identità visiva trae ispirazione dagli elementi tipici del processo produttivo della ceramica: il logo, ad esempio, richiama il profilo del parallelepipedo di argilla, il blocco di materia grezza da cui la lavorazione ha inizio per svilupparsi attraverso configurazioni via via sempre più articolate. Dal punto di vista comunicativo, un ruolo predominante è stato affidato al sito web, realizzato con la logica dell’app e pertanto facilmente fruibile su dispositivi sia desktop che mobile. Interamente gestito dallo studio perugino Salt & Pepper, il progetto di immagine coordinata e comunicazione di Ceramica Made in Umbria è stato di recente selezionato per la partecipazione all’edizione 2016 di ADI Design Index.

Ceramica Made in Umbria, logo del progetto
Ceramica Made in Umbria, logo del progetto
Ceramica Made in Umbria, sito web del progetto
Ceramica Made in Umbria, sito web del progetto

Che tipo di impatto economico ha riscontrato il progetto a livello sia nazionale che internazionale?

Il Banchetto Contemporaneo è stato presentato per la prima volta nell’ambito della grande mostra dedicata a Steve McCurry tenuta a Perugia nel 2014. Successivamente è stato proposto in diverse altri circostanze – in occasione delle manifestazioni milanesi del Salone del Mobile e Homi, ad esempio, e anche all’estero, nel contesto della sede newyorchese di Eataly –, in ciascuna delle quali ha ricevuto riscontri molto favorevoli e incoraggianti da parte del pubblico. Tuttavia, nonostante l’interesse suscitato dal progetto in ambito sia nazionale che internazionale, è venuta a mancare la creazione di una struttura commerciale in grado di gestire tale richiesta a livello di brand unitario. Per suo stesso statuto la Regione non può assumere ruoli e fini commerciali, per cui ad assolvere questo compito avrebbero dovuto essere le aziende, cooperando nella messa a punto delle strategie di produzione, promozione e distribuzione dell’intera collezione. Purtroppo, anziché una propensione al lavoro in squadra, le aziende coinvolte nel progetto hanno dato prova di una certa tendenza all’individualismo che ha inibito in partenza la possibilità di agire entro una dimensione che fosse effettivamente di rete. L’aggregazione, come sottolineano le direttive emanate a tal riguardo dall’Unione Europea, è l’unica opzione che queste aziende hanno oggi per rilanciare la propria produzione all’interno del mercato globale: un’opzione che il sistema dell’imprenditoria umbra sembra non essere ancora pienamente maturo ad accogliere.