By Giulia Ciliberto

Innovazione di prodotto, innovazione di processo e innovazione organizzativa. La rilettura del business nelle aziende più piccole

Di Antonella Grana

Cosa significa innovare? Per innovare è necessario rompere completamente con il passato oppure, più semplicemente, si parte dal passato per ri-vedere, ri-interpretare, ri-creare? E comunque, qualcuno troverà giovamento da questa innovazione oppure è una innovazione fine a se stessa?

Proviamo ad andare con ordine e partiamo da una nostra tipica PMI con un forte orientamento al prodotto. Situazione tipica: “Abbiamo la necessità di vendere di più, magari all’estero, dove ci hanno detto che il Made in Italy è richiestissimo. Perciò abbiamo pensato di innovare la nostra gamma di prodotti perché così ci differenziamo dalla concorrenza, e se arriviamo per primi nel mercato estero riusciamo a vendere perché non abbiamo concorrenti”. Può sembrare uno scherzo ma non lo è.

1. “All’estero”. Cosa si intende per estero? San Marino, un qualsiasi stato dell’Africa o dell’Estremo Oriente, gli Stati Uniti? Il target “estero” non significa nulla se il paese non è identificato, e questo può fare una differenza enorme.

2. “Il Made in Italy”, che non significa semplicemente “prodotto in Italia”: Made in Italy è sinonimo di qualità nella progettazione, di design, di raffinatezza, di eccellenza che “all’estero” possono avere bisogno di un supporto in loco e di un servizio post vendita altrettanto eccellente. Si è pensato a tutto questo?

3. “Innovare la gamma dei prodotti”. Per venderli “all’estero“. Ma “a chi”? In altre parole, si sono definiti chiaramente il target di clienti a cui ci rivolgiamo?

4. “Arriviamo prima della concorrenza”. La concorrenza è identificata o si riferisce a chiunque venda un prodotto simile?

Da un simile scenario si evince una banalità. Se qualcuno, il cliente, non ha interesse ad acquistare il prodotto, per innovativo che esso sia non vale la pena innovarlo. Pertanto l’innovazione avrà senso, sarà spendibile e avrà un ritorno economico solo se risponderà ai bisogni espressi o inespressi dei clienti.

Agli occhi della nostra PMI, questi ragionamenti si legano al piano dell’innovazione di prodotto. In effetti, forse non sarebbe stato necessario innovare il prodotto ma piuttosto innovare il processo di produzione di quel prodotto specifico per permetterci di ri-vederlo e ri-interpretarlo.

Paradossalmente risulta più difficile parlare di innovazione di processo che di innovazione di prodotto. Nell’articolo Ceramica Made in Umbria si pone in stretta relazione la tradizione produttiva umbra con il panorama delle tecnologie attuali. Nel distretto della Ceramica di Nove (VI) all’interno di una azienda che partecipa a un progetto della Regione Veneto si sta portando avanti un percorso simile. Il processo produttivo è stato snellito e reso più rapido dalle tecnologie delle stampanti 3D con il risultato di avere dei prodotti tradizionali ma rivisti nel design, con dei costi e dei tempi di produzione più bassi. L’innovazione è partita non dal produrre qualcosa di nuovo, ma dal produrre in modo diverso qualcosa che c’era già.

La componente artistica nella lavorazione della ceramica è molto presente, e continuerà a esserlo; tuttavia la stampa 3D in argilla permette di sperimentare forme non convenzionali e di innovare il processo di produzione rendendo il ciclo più snello e con un minore impatto ambientale. Soprattutto si possono realizzare librerie virtuali di modelli a cui attingere per personalizzare e rispondere just in time alle esigenze dei clienti.

Tutto questo non è però sufficiente se a fianco dell’innovazione di processo non vi è anche una rilettura del processo organizzativo dell’azienda nel suo complesso. La rilettura del processo organizzativo non può avvenire senza una visione chiara degli obiettivi da raggiungere e la loro conseguente pianificazione. Se partiamo dal caso concreto della ceramica gli obiettivi potrebbero essere declinati in questo modo:

– ridurre il costo, e soprattutto i tempi, di produzione e prototipazione con le nuove tecnologie;

– ridotto il costo di produzione, capire come applicare questo risultato a nuovi concept di prodotto;

– immettere i prodotti rivisitati nel mercato.

Ciò, naturalmente, a condizione che si abbia già ben chiaro il target di riferimento, e si possieda la struttura necessaria per raggiungerlo, perché nella foga di rilettura del prodotto molto spesso ci si dimentica del mercato, come si è ben visto nel progetto della “Ceramica Made in Umbria”:

“Tuttavia, nonostante l’interesse suscitato dal progetto in ambito sia nazionale che internazionale, è venuta a mancare la creazione di una struttura commerciale in grado di gestire tale richiesta a livello di brand unitario. Per suo stesso statuto la Regione non può assumere ruoli e fini commerciali, per cui ad assolvere questo compito avrebbero dovuto essere le aziende, cooperando nella messa a punto delle strategie di produzione, promozione e distribuzione dell’intera collezione. Purtroppo, anziché una propensione al lavoro in squadra, le aziende coinvolte nel progetto hanno dato prova di una certa tendenza all’individualismo che ha inibito in partenza la possibilità di agire entro una dimensione che fosse effettivamente di rete. L’aggregazione, come sottolineano le direttive emanate a tal riguardo dall’Unione Europea, è l’unica opzione che queste aziende hanno oggi per rilanciare la propria produzione all’interno del mercato globale: un’opzione che il sistema dell’imprenditoria umbra sembra non essere ancora pienamente maturo ad accogliere.” 1Si veda http://www.progettorecycle.net/ceramica-made-in-umbria/

Il problema fondamentale per le aziende italiane di dimensioni più piccole non è solo nella rilettura del prodotto ma nella rilettura del proprio modello di business. L’atteggiamento tipico che si riscontra è l’atteggiamento di chi lavora in conto terzi. Più che disponibile a farsi in quattro quando arriva una grossa commessa da un cliente importante, e invece di un immobilismo pericoloso, quasi timore, quando si tratta di muoversi verso il mercato con prodotti propri. Pertanto, oltre a obiettivi relativi al prodotto e al processo produttivo, è di vitale importanza chiarire anche i propri obiettivi di strategia aziendale. A livello generale potrebbero essere riassunti in queste aree:

– creazione o riposizionamento del brand per soddisfare al meglio i target esistenti e individuare nuovi target, generando un aumento di profitto;

– aggregarsi con aziende simili per gestire una strategia commerciale comune;

– darsi un obiettivo di TEMPO.

Il passo successivo sarà quello di pianificare una strategia chiara per raggiungere gli obiettivi prefissati nell’arco di tempo stabilito. Molto semplicemente, una strategia implica sapere dove si vuole andare e decidere il modo migliore per arrivarci. Il “dove” l’abbiamo stabilito (rilettura del brand/nuova strategia commerciale), resta da capire il come. La prima fase imprescindibile è la conoscenza del mercato di riferimento e dei clienti che costituiranno il target di partenza. Nel caso il target non sia già stato ben identificato, è necessario procedere alla sua identificazione il prima possibile! È incredibile quante aziende non conoscano i bisogni e i desideri dei loro clienti.

La seconda fase è relativa all’analisi interna dell’azienda, per fotografare la situazione attuale e capire se vi siano dei gap che potrebbero precludere il raggiungimento degli obiettivi, e per rilevare e saper valutare le competenze già presenti e saperle coordinare al meglio. Se a livello commerciale non vi sono competenze presenti, occorre coinvolgere un temporary manager che gestisca la parte commerciale in coordinamento con le figure apicali dell’azienda.

Tutto ciò può comunque non essere sufficiente per un’azienda di piccole dimensioni. Per raggiungere i mercati desiderati e poter crescere potrebbe essere conveniente aggregarsi con altre aziende in un raggruppamento, che può assumere varie forme purché strutturate con un piano strategico condiviso tra le aziende partecipanti e il relativo personale. È importante inoltre ricordare che un raggruppamento di aziende è da considerare in tutto e per tutto come una nuova azienda. Le forme per aggreagrsi sono più di una. Ecco un semplice schema delle più usate e delle differenze:

tipologie-aggregazione

Per i mercati internazionali le forme aggregative sono ancora più importanti che per il mercato italiano. Il famoso Made in Italy, usato e abusato come brand riconoscibile di eccellenza, deve essere supportato da servizi accessori pre e post vendita, che non possono essere erogati dalla singola azienda, se di piccole dimensioni, ma piuttosto da un raggruppamento di aziende. In ogni caso è da tenere ben presente che la singola azienda nei mercati esteri (resta intesa la necessità di identificare i singoli mercati) ha maggiori difficoltà a negoziare accordi con intermediari in loco.

Le opportunità per rinnovarsi e crescere sono molte, anche per le aziende più piccole, è importante saperle cogliere e sfruttarle nel modo giusto, condividendo le informazioni, facendo squadra dentro e fuori l’azienda, iniziando anche a utilizzare gli strumenti di finanza agevolata o gli strumenti che favoriscono le aggregazioni di imprese, come ad esempio il contratto di rete.

Un solo e singolo aspetto rimane però imprescindibile: conoscere e saper valutare i punti di forza della propria azienda e, a partire da quelli, saper ri-creare e, se vogliamo, ri-ciclare, idee e prodotti già esistenti, attuando un modello di business più competitivo, incline alle rilettura del proprio passato come strategia per guardare al futuro.

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Innovazione di prodotto e di processo nelle aziende della ceramica

Di Giorgio Gaino

Appare evidente che, a seguito della violenta crisi economico/finanziaria degli ultimi anni, alcuni parametri di valutazione di aspetti legati alla produzione industriale debbano essere riconsiderati sulla base di una serie di aspetti:

1. la crisi (peraltro ancora senza un nome) ha portato a fenomeni di delocalizzazione della produzione;

2. la crisi ha portato ad una diversa realtà di produzione dei beni industriali;

3. l’evoluzione delle tecnologie produttive sta portando a nuovi modelli di produzione.

Soprattutto questo ultimo aspetto va considerato nell’ottica del disegno industriale: le metodologie progettuali consolidate, scalfite e mutate in seguito all’introduzione dell’informatica, sono ora fortemente sollecitate da nuovi approcci innovativi, che mettono in dubbio le basi della produzione industriale di massa consolidate da decenni.

Non è più pensabile una produzione di massa concentrata in grandi stabilimenti, in ampi spazi produttivi, con tirature di milioni di pezzi, per due motivi fondamentali:

1. la velocità di invecchiamento dei prodotti “bruciati” da logiche non legate a funzionalità, ad un rapporto di forma funzione, ma connesse a valutazioni più simili ad aspetti effimeri legati a mode/a passeggere;

2. l’impossibilità di prevedere gli effettivi volumi di produzione e di valutarne i relativi ammortamenti di attrezzature per la realizzazione dei progetti.

È in quest’ottica, velocemente falsata, che un materiale millenario quale la ceramica, legato all’evoluzione stessa del prodotto industriale – valga per tutti, quale esempio, la Wedgewood con alcuni pezzi in produzione dal 1777 tutt’oggi invariati – può trovare nuove applicazioni se associato alle nuove tecnologie informatiche, come la stampa 3D, unendo tradizione e innovazione.

Ceramiche Maroso,1http://www.ceramichemaroso.com/it/home.php azienda con una quarantennale storia alle spalle, inserita in un tessuto produttivo con tradizione millenaria legata alla ceramica, dal 2008 ha intrapreso una nuova strada nella produzione e nell’approccio alla produzione di oggetti in ceramica.

È importante collocare l’azienda geograficamente e temporalmente: siamo in provincia di Vicenza, a Nove, città famosa fin dal settecento produzione della ceramica artistica; la crisi ha segnato fortemente le aziende della zona, molte hanno chiuso, altre, è il caso, fra le altre, di Ceramiche Maroso, hanno cercato nell’innovazione di prodotto, nel design, nell’innovazione di processo una possibile ricollocazione.

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Nella produzione della ceramica si possono evidenziare due tipologie principali: l’oggetto con funzione e l’oggetto decorativo; alla prima tipologia appartengono, ad esempio tutte le funzioni legate al cibo, ma non si dimentichi l’ampio uso del passato quale isolante elettrico; alla seconda, gli oggetti decorativi, siano essi i vasi da arredo, o, purtroppo, peraltro, i galli decorati, per citare un esempio.

A tutto ciò si può aggiungere, e si deve aggiungere, negli ultimi anni un nuovo filone che possiamo definire della ceramica tecnica, in cui il materiale viene associato o inserito insieme ad altri materiali in oggetti di varie tipologie merceologiche, dove risulta necessaria una stabilità dimensionale e tolleranze costruttive che i produttori di oggetti tradizionali in ceramica raramente hanno considerato, trattandosi quasi esclusivamente di oggetti mono-materiale, con nessun rapporto con altre componenti.

Ecco che ora troviamo ceramica in oggetti quali le cappe da cucina, associata/sostenuta da elementi metallici, in lampade, in rivestimenti di stufe, in amplificatori acustici, sempre in contesti in cui il materiale ceramico porta ad un aumento considerevole del valore del manufatto nel suo insieme.

La sfida e al tempo stesso l’obiettivo del percorso di innovazione del prodotto ceramico intrapreso da Ceramiche Maroso, nell’ambito del progetto finanziato dalla Comunità Europea tramite la Regione Veneto, è quello di cogliere l’occasione data dalle nuove tecnologie, di portare il materiale ceramico verso nuove metodologie produttive, in cui non vi sia più il vincolo dato da uno stampo, invariato da millenni, peraltro; nuove sperimentazioni formali, nuovi concetti possono ora essere portati in un settore tradizionalmente legato a metodi produttivi fortemente radicati in cui le aziende legato al solo oggetto decorativo sono in estrema difficoltà a causa della radicalizzazione del mercato, in senso di prezzo al cliente e in senso di razionalizzazione del criterio di scelta, orientato all’uso.

Il settore della ceramica è stato poco “frequentato” dal design; pochi pezzi di altissimo costo per alcuni designer di fama, spesso con la sola funzione decorativa, poche le riflessioni sul materiale, sulle sue specifiche caratteristiche, le potenzialità inesplorate, le interconnessioni con altri materiali.

Ciò che si sta sperimentando, nel progetto citato, è proprio un diverso approccio al materiale ceramico, in cui si ponga una grande attenzione ad una caratteristica poco considerata, ossia il basso impatto ambientale, aspetto particolarmente importante nell’ottica delle normative future sul disassemblaggio dei prodotti industriali.

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Riassumendo il progetto vuole portare ad una rilettura delle peculiarità del materiale puntando su:

– bassi investimenti per gli stampi e quindi rapidità di modifiche del design degli oggetti;

_ possibilità formali inesplorate in funzione delle nuove tecnologie di stampa 3D direttamente in argilla per tirature limitate o per modifiche immediate, pezzo per pezzo;

– l’utilizzo di nuove tecnologie di modellazione digitale, gestendo le superfici con strumenti di valutazione propri di altri settori del disegno industriale per poter verificare immediatamente il prodotto;

– sviluppare il settore dell’illuminazione portando il valore aggiunto di un materiale tradizionale con enormi capacità espressive;

– associazione di altri materiali per ottenere particolari effetti materici e di luce

Più nel dettaglio l’utilizzo di software avanzati di modellazione digitale sta portando a ridurre notevolmente i tempi di sviluppo dei nuovi prodotti, passando dal modello 3D al modello, che sia esso realizzato con la tecnologia additiva della stampa 3D o con una tecnologia sottrattiva, in un breve lasso di tempo, soprattutto potendo verificare ogni aspetto della progettazione e della interconnessione tra i vari materiali.

Software di valutazione delle superfici permettono una precisa verifica dell’effetto finale, permettendo un approccio completamente diverso al processo produttivo tradizionale, tipico delle aziende del settore; risulta evidente come la precisione del passaggio dal CAS (Computer Aided Styling) al CAM (Computer Aided Manufacturing) possa aprire nuovi scenari per la ceramica.

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Tuttavia non bisogna scendere verso la realizzazione di oggetti stampati in 3D, precedentemente non realizzabili, con l’unico scopo di stupire: l’oggetto realizzato a tal scopo ha vita breve, l’attimo di uno sguardo; è la complessità dell’espressione progettuale, della forma, del significato della sperimentazione del design che va ricercata nella rilettura del processo progettuale e produttivo, e, mi sia concesso, anche nel diverso approccio necessario nell’ultimo passaggio, peraltro fondamentale, ossia la vendita del prodotto. La comunicazione del prodotto, del processo che ne ha portato all’evoluzione e alla realizzazione deve divenire parte integrante dell’intero percorso, solo in questo modo si valorizza la tradizione, il design, l’azienda e la sua storia, il Made in Italy.

Negli ultimi anni Ceramiche Maroso, in collaborazione con uno studio di design, ha già sperimentato il processo produttivo che porta ad un perfetto controllo dimensionale dei prodotti, consapevole che questo approccio sia concettualmente valido per poter dialogare con altri partner nella realizzazione di prodotti multimaterici: solo a fronte di una stabilità dimensionale l’industria può pensare di utilizzare la ceramica, solo con tolleranze ben definite e controllabili.

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Fondamentale è stata l’esperienza pluridecennale, i milioni di pezzi prodotti e il dialogo tra progettisti e azienda che, da sempre, fin dal Werkbund tedesco, è alla base del successo del prodotto industriale: solo in presenza di un progetto ben definito, che comprende ogni aspetto della produzione si può pensare di aver ottimizzato l’intero processo produttivo.

Il settore dell’illuminazione è stato, da sempre molto attivo, vivo e ricco di proposte, soprattutto in ambiti legati alla residenza, tipologia di prodotto da sempre molto attenta all’uso dei materiali; è in quest’ottica che l’azienda sta sviluppando una gamma di prodotti che interpretano il materiale in funzione della diffusione luminosa, sperimentando effetti ottici e di luce. Come ogni cambio/salto tecnologico l’introduzione dell’illuminazione a LED comporta delle mutazioni nell’architettura stessa della gestione della luce, non ci si è ancora resi conto di quanto si possa innovare, di quanto si tratti di un oggetto il cui design può, ora, divenire estremamente libero, senza vincoli di ingombri obbligati.

E’ in questo settore che, sempre all’interno del progetto finanziato, si stanno sperimentando e realizzando prototipi con un approccio al design diverso, giocando con volumi ben definiti, geometrici e precisi unitamente a “segni” che portano i millenni della storia del materiale; segni che fanno parte della tradizione, della manualità, curve che trovano una loro armonia solo se poste vicino ad altre similari, fatte di rapporti stretti di una geometria organica e meno definita, che rende l’oggetto prodotto in serie comunque distinguibile e unico.

Sono questi gli aspetti fondamentali che si sta cercando di integrare nel progetto, soprattutto sfruttare con un vantaggio competitivo la possibilità offerta dalle nuove tecnologie di innovare i processi produttivi della ceramica dopo millenni: per la prima volta è possibile dare forme precedentemente impossibili agli oggetti, aumentando le possibilità espressive del materiale, senza perderne le caratteristiche di tradizione, di valore aggiunto e di piacere materico che da sempre ne deriva.

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Cuoio, pelle sintetica e materiali compositi. Caratteristiche, degrado e conservazione

Di Valentina Perzolla, Chris Carr, Stephen Westland
Questo articolo rappresenta un’introduzione allo studio specialistico di materiali compositi che, per varie ragioni illustrate nel testo, potrebbero entrare presto a far parte di collezioni museali.
Nella prima parte vengono descritte alcune caratteristiche e proprietà (chimiche e fisiche) del cuoio conciato al cromo, mentre nella seconda parte si presentano le pelli sintetiche. Entrambi i materiali risultano indispensabili per comprendere a pieno i compositi di natura collagenosa, i quali sono costituiti da fibre di collagene e rivestiti con materiale polimerico. Tali compositi sono studiati per replicare l’aspetto e le proprietà del cuoio oltre che per ragioni ambientali. La terza parte, infine, espone le ragioni dello studio dei materiali innovativi con finalità sia conservative che industriali. L’articolo si chiude sottolineando l’importanza della conservazione preventiva e come la parziale comunanza di interessi dei due ambiti, quello della conservazione e quello dell’industria, possa costituire un punto di partenza essenziale per introdurre nuove pratiche conservative.

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Esempi di varie tipologie di pelli sottoposte a differenti metodi di concia e finitura

Introduzione

La lavorazione delle pelli animali è considerata da alcuni studiosi come il primo esempio di manifattura a opera dell’uomo (Forbes, 1957). Se è vero che questo processo ha iniziato a diffondersi già in tempi antichi, bisogna ricordare che i primi trattamenti non consistevano in veri e propri processi ci concia. Prima di arrivare a produrre un materiale complesso quale il cuoio sono stati necessari millenni di tentativi, errori, innovazioni e progressi tecnologici (Thomson, 2011). Nella seconda metà dell’800 è stata introdotta la pelle sintetica, caratterizzata da un supporto in tessuto e l’aggiunta di un rivestimento polimerico (Fung, 2002).

Da un decennio a questa parte è comparsa, accanto a pelli naturali e sintetiche, la pelle composita. Tale prodotto è caratterizzato dalla compresenza di fibre provenienti dalla lavorazione del cuoio, tessuti e sostanze polimeriche di rivestimento. Se da un lato la presenza di un rivestimento plastico può sminuire il fascino tipico della pelle, in questi compositi l’innovazione tecnologica si sposa con l’interesse per la sostenibilità ambientale.

Oggetti in pelle provenienti da diversi periodi storici sono facilmente individuabili all’interno di innumerevoli collezioni museali (Ravilio, 2010) e il numero di testimonianze culturali, storiche e artistiche in pelle sintetica è in continuo aumento. Per tale ragione entrambe le tipologie di prodotti hanno avuto modo di essere esaminate sotto il profilo scientifico-conservativo, valutando il degrado e i meccanismi che lo determinano oltre ai metodi per migliorarne la conservazione. I nuovi materiali che giungono sul mercato, al contrario, sono testati per misurare le loro performance ma non per la resistenza al degrado; questo determina una notevole quantità di incognite sia per il quotidiano impiego del materiale che per la sua vita in museo. Il percorso dei nuovi materiali compositi verso una riduzione dell’impatto ambientale dovrebbe essere accompagnato dalla volontà di studiare anticipatamente i meccanismi di degrado e le possibili soluzioni a eventuali futuri problemi. Un simile approccio sarebbe non solo in linea con le attuali tematiche della sostenibilità, ma anche con il percorso, già segnato da anni, della conservazione preventiva in ambito museale.

La pelle e la sua composizione

I termini pelle e cuoio, che in inglese vengono riassunti dal sostantivo leather, rientrano in una categoria di materiali realizzati a partire dalla pelle animale. A seconda del tipo di animale e dell’applicazione per cui si vuole utilizzare il supporto si possono avere prodotti molto diversi. Le caratteristiche sono strettamente legate ai processi che precedono la concia, al tipo di concia e alla qualità dei reagenti impiegati nelle varie fasi di produzione. Quindi, per comprendere il comportamento macroscopico del cuoio è indispensabile sia capirne la composizione chimica sia quali sono i fenomeni che, seppur avvenendo a livello microscopico, influenzano l’intera struttura.

In primo luogo, non si puo’ parlare di pelle e di cuoio senza citare il collagene, ossia la molecola principale che ne caratterizza la composizione. Nonostante esistano 28 tipi di collagene (Kadler, Baldock, Bella & Boot-Handford, 2007), quello più presente nella pelle è il tipo I. Essendo una proteina, il collagene è costituito da una serie di aminoacidi (definiti α o β a seconda della loro chiralità) uniti attraverso legami peptidici che si instaurano tra i gruppi amminico e carbossilico di due strutture aminoacidiche (vedi Figura 1).

Figura 1: Rappresentazione schematica della formazione di un legame peptidico
Figura 1: Rappresentazione schematica della formazione di un legame peptidico

Dal punto di vista chimico, la reazione è una condensazione e avviene per eliminazione di una molecola d’acqua; tale reazione è reversibile e dunque, in presenza di acqua e determinate sostanze che fungono da catalizzatori, la molecola può venire idrolizzata (Covington & Covington, 2009). Il processo di idrolisi ha un ruolo centrale durante l’intera lavorazione della pelle e anche in seguito, quando il prodotto è in uso ed è sottoposto all’azione del tempo e degli agenti deteriogeni.

L’organizzazione del collagene è molto elevata e comincia dalla ripetizione di triplette di aminoacidi: la glicina occupa generalmente la prima posizione e costituisce un terzo del totale degli aminoacidi, seguita da prolina e idrossiprolina. Si formano delle strutture chiamate α-eliche che, unendosi ancora a gruppi di tre, danno luogo alla tripla elica di protocollagene di dimensioni 300 x 1.5 nanometri (Covington & Covington, 2009). Le estremità delle triple eliche contengono una regione detta telopeptide che non ha la medesima struttura ad elica; tale zona è responsabile di legare una molecola di protocollagene a un’altra. Le diverse triple eliche iniziano poi a interagire e si formano delle fibrille nelle quali le triple eliche sono distanziate – in lunghezza – di 67 nanometri. Solo a questo punto si formano le vere e proprie fibre di collagene (Florian, 2011).

In questa struttura l’acqua si presenta in varie forme e con diverse funzioni: conferisce stabilità alle eliche facenti parte della molecola di collagene grazie alla formazione di forti legami; crea collegamenti inter- e intra-fibrillari; funge da solvente e quindi consente la circolazione degli agenti chimici durante i processi di lavorazione (Reich, 2005). Dal momento che ciascuna funzione dell’acqua è legata a un determinato livello strutturale del collagene, appare chiaro che anche l’eliminazione del composto assume un’importanza diversa e può causare problematiche differenti. Questo aspetto diventa centrale nel momento in cui si effettuano indagini sul degrado o i meccanismi di deterioramento.

Esaminando la pelle a un ingrandimento minore si possono fare ulteriori considerazioni. Osservando la struttura in sezione trasversale si identificano tre macroregioni: il grain, che costituisce la parte superiore della pelle e comprende le radici pilifere; il corium, subito sotto le radici ed esteso fino ai muscoli e tessuti grassi; e il flesh, la parte subito sotto la pelle che quindi forma la carne viva (Haines, 2011).

La pelle di ogni animale possiede uno spessore tipico di tale stratificazione e una distribuzione dei pori piliferi ben definita. Queste caratteristiche sono legate al tipo di animale e ad altri fattori quali l’ambiente di vita, alla sua dieta e all’età. Le diverse stratificazioni delle pelli influenzano le proprietà fisiche quali la flessibilità, la resistenza alla trazione e all’applicazione di pressioni e la compressibilità.

Processi di preparazione, concia e finitura

Sebbene la concia costituisca uno dei processi più noti che riguardano la lavorazione della pelle, di certo non è l’unico. In Figura 2 sono riportati i tipici trattamenti subiti dalla pelle dal momento in cui viene ottenuta come scarto dell’industria alimentare fino a quando non diviene un prodotto finito.

Figura 2: Processi di lavorazione della pelle e relativi prodotti intermedi
Figura 2: Processi di lavorazione della pelle e relativi prodotti intermedi

Esistono numerosi modi per conciare la pelle, ossia per effettuare trattamenti che la rendano non putrescibile e conferiscano alla struttura maggior stabilità idrotermica e resistenza al degrado (Beghetto, Matteoli, Scrivanti, Zancanaro & Pozza, 2013). Fino all’introduzione della concia al cromo nel 1884, il processo di produzione principale è stato la concia vegetale. Questo metodo si basava sull’immersione delle pelli, precedentemente preparate per rendere la struttura del collagene adeguatamente recettiva, in fosse contenenti acqua ed estratti di piante; le pelli venivano lasciate in questi bagni almeno per un anno, fino a quando non veniva raggiunto il colore desiderato e i capi potevano essere lavati, ulteriormente trattati e infine asciugati (Thomson, 2011). In genere la reazione che avviene tra tannini vegetali e collagene consiste nella formazione di legami come quello a idrogeno (Covington, 1997); tali legami garantiscono una discreta stabilità ma la loro resistenza è certamente inferiore a quella di altri legami.

La scoperta del processo di concia al cromo ha decisamente modificato la situazione per due ragioni principali: richiede meno tempo e l’efficienza del metodo è molto elevata. Non è un caso che, ancora oggi, tra l’80 e il 90 % delle pelli vengano conciate a cromo. Sebbene esistano ancora alcuni dubbi sull’esatto meccanismo di interazione tra cromo e collagene, la formazione di complessi di coordinazione e legami covalenti è data per assodata (Mann and McMillan, 2008). Uno dei principali miglioramenti che la concia al cromo introduce nella molecola di collagene riguarda la stabilità idrotermica, che costituisce uno dei parametri più utilizzati per testare la stabilità della pelle.

Pelli sintetiche

Nell’arco degli ultimi 150 anni sono comparsi sul mercato numerosi materiali artificiali che imitano quelli naturali. Inizialmente i sostituti artificiali vennero introdotti sul mercato per far fronte all’elevato costo delle pelli naturali che faceva anche aumentare il prezzo degli oggetti finiti da esse costituiti. Si iniziarono quindi a valutare dei metodi alternativi che consentissero all’industria di abbassare i costi e di rendere oggetti e capi di abbigliamento più facilmente accessibili a una quantità superiore di utenti. Varie tipologie di fibre (naturali e sintetiche) e tessuti iniziarono a essere utilizzate come supporto per i neo-introdotti polimeri che, grazie alla loro versatilità, si prestavano a questo genere di utilizzo. Attualmente le pelli sintetiche costituiscono un’ampia fetta del mercato legato ai rivestimenti da arredamento, alle imbottiture per sedili e all’abbigliamento (per esempio nell’ambito delle calzature).

I polimeri vengono utilizzati su molti tessuti, talvolta poco pregiati o costituiti da fibre poco tenacemente aderenti le une alle altre, in modo da aumentare il valore e ampliare le possibilità di impiego del prodotto finito. I processi di laminazione (lamination) e di rivestimento (coating) rappresentano le due categorie in cui si possono inscrivere le modalità di applicazione dei polimeri ai tessuti (Figura 3). La maggior differenza riscontrabile tra i tessuti laminati e quelli rivestiti è nella presenza o assenza di una sostanza con funzione di adesivo tra lo strato polimerico e il tessuto (Sen, 2008).

Figura 3: Rappresentazione schematica di un tipico tessuto laminato (a) e uno rivestito (b) in materiale polimerico
Figura 3: Rappresentazione schematica di un tipico tessuto laminato (a) e uno rivestito (b) in materiale polimerico

Va però detto che, proprio in virtù della grande varietà di tecniche disponibili, la distinzione tra i due processi è andata lentamente assottigliandosi. Questo genere di prodotti offre alcuni vantaggi rispetto alla pelle. Essendo un materiale prevalentemente sviluppato dall’uomo può essere modellato a seconda delle esigenze e del tipo di applicazione. Ciò significa che non è necessario adattare un substrato esistente a una specifica necessità, ma è invece possibile adoperarsi per creare un supporto su misura. Flessibilità e facilità di cucitura e lavorazione sono alcuni importanti aspetti tipici delle pelli sintetiche che influiscono sulla varietà di utilizzo (Fung, 2002). Altro vantaggio riguarda la gamma di colori disponibili, che è decisamente elevata per non dire virtualmente infinita.

Nonostante i vantaggi, la presenza di materiale polimerico e l’associazione con il termine finta pelle hanno determinato negli anni la sedimentazione di uno scetticismo diffuso nei confronti della pelle sintetica. Se da un lato bisogna riconoscere che l’origine del prodotto non è stata quella di un materiale pregiato, il livello di specializzazione oggi richiesto per la produzione di alcune tipologie è decisamente elevato.

Problematiche ambientali

È stato menzionato inizialmente che la lavorazione del cuoio rappresenta una delle più antiche industrie specializzate nella storia dell’essere umano. Se è vero che si è passati da metodi poco a molto efficienti e da condizioni di lavoro scarsamente a gradualmente dignitose, bisogna ammettere che i processi che conducono alla concia e la concia stessa (soprattutto quella al cromo) sono considerati altamente inquinanti. Per tale ragione il mondo delle concerie ha visto incrementare in maniera consistente in numero di restrizioni e regolamenti che ne governano l’attività, in particolar modo nell’area dell’Unione Europea. Questo ha determinato un deciso aumento delle esportazioni dei capi, nello stato wet blue, verso zone del pianeta meno interessate alle condizioni di lavoro degli operatori e alle tematiche ambientali. Il risultato è che solo un ristretto numero di concerie, rispetto a quelle presenti anche solo una quindicina di anni fa, è riuscito a sopravvivere e ad adeguarsi alle nuove norme (COTANCE and Industrial All, 2012).

I maggiori problemi associati ai processi di produzione della pelle sono l’impiego di prodotti chimici inquinanti e il trattamento delle acque impiegate durante la lavorazione (Mann & McMillan, 2008), i quali si vanno a unire alla quantità di inquinanti atmosferici derivanti non solo dai processi pre-concia ma anche da quelli di finitura. Inoltre, la quantità di collagene che esce dalle concerie sotto forma di pelle è circa il 50 % del totale, il che indica una notevole mole di scarto che deve trovare nuovo utilizzo o venire trasferita in discarica (Reich, 2005). Purtroppo la seconda opzione è quella che viene maggiormente messa in atto.

Studio del degrado con finalità conservative e industriali

In passato si è assistito innumerevoli volte all’introduzione di materiali innovativi in ambienti museali, soprattutto in seguito allo sviluppo delle plastiche. Questo è probabilmente imputabile a una serie di ragioni: la varietà di applicazioni e la versatilità che ciascun prodotto polimerico è capace di offrire; la curiosità di artisti e designer nei confronti dei nuovi prodotti sul mercato; la mancata consapevolezza della velocità con cui i processi di degrado possono avere luogo.

Partendo da queste considerazioni si può riflettere su come lo studio del degrado dei materiali in ambito conservativo possa risultare utile anche in quello industriale. Se negli ultimi vent’anni il numero di studi sui materiali plastici nelle collezioni museali sono aumentati notevolmente, creando un nuovo insieme di conoscenze nell’ambito del degrado della plastica (Shashoua, 2006; Lavédrine, Fournier & Martin, 2012; Waentig, 2008), rimane l’incognita dei materiali compositi e di tutti quei materiali che vengono introdotti sul mercato ignorando il loro futuro comportamento.

Partendo dagli aspetti positivi e dalle problematiche tipici delle pelli e dei sostituti sintetici, si possono ricavare informazioni importanti sulle proprietà e i comportamenti dei materiali compositi costituiti dagli stessi elementi. Questo approccio assume una duplice valenza: si propone come un metodo pionieristico di collaborazione tra la conservazione preventiva nel settore museale e l’indagine della stabilità dei prodotti condotta industrialmente; promuove l’attitudine alla ricerca della sostenibilità. Infatti, indagando anticipatamente i possibili meccanismi di degrado e i migliori metodi per prevenirlo, si promuovono non solo la prevenzione ma anche lo sviluppo di materiali più duraturi.

In conclusione, questo studio punta alla collaborazione tra l’industria e i musei sottolineando come tale approccio su ampia scala, favorirebbe lo sviluppo di un’etica comune che abbia come finalità il raggiungimento della sostenibilità.

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Waentig, F. (2008). Plastics in Art. A study from the conservation point of view. Petersberg: Michael Imhof Verlag.

Innovazione di processo. I processi edilizi sostenibili

Di Maria Antonia Barucco
Il processo che consente la realizzazione di un edificio è un susseguirsi di scelte e azioni complesse. Tale processo, oggi, deve trovare un sempre maggiore livello d’accordo con il sistema naturale, al fine di ridurre l’impatto che il costruito ha sull’ambiente non solo durante la fase d’uso degli edifici ma anche nelle fasi a monte e a valle dell’arco di tempo detto di “vita utile”. L’utilità del costruito va ben oltre all’essere un riparo, analogamente la definizione di sostenibilità del processo edilizio non è riducibile alla contabilizzazione degli input e degli output necessari al funzionamento della macchina-edificio. Testi di storici, di biologi e di economisti tratteggiano una linea di studi e ricerche utile anche in edilizia e legata alla circolarità del processo distinta tra consumo dei prodotti di origine naturale e uso dei prodotti della tecnica; si prospetta che il progetto d’architettura troverà vantaggi dal riconoscere la circolarità del processo, in coerente relazione con la complessità del mondo di domani, che oggi stiamo costruendo.

Immagine elaborata a partire dal lavoro di Francesco De Comite
Immagine elaborata a partire dal lavoro di Francesco De Comite

La valutazione di un edificio in funzione del suo ciclo di vita può essere assimilata alla lettura del percorso di un fiume. In una schematizzazione di questo tipo l’acqua che giunge alla foce può rappresentare la somma totale dei carichi ambientali necessari alla realizzazione dell’edificio. L’acqua alla foce è il risultato dell’apporto di diversi affluenti, ciascuno giunto alla meta attraverso percorsi differenti e apportando delle quantità d’acqua variabili anche in funzione delle stagioni e degli accidenti che ne segnano la storia, ciò analogamente a come possono variare produzioni, sistemi produttivi e organizzazioni che offrono i semilavorati e i componenti messi in opera nella costruzione.

Nella moltitudine di vie percorse dall’acqua nella sua trasformazione da input ad output possiamo riconoscere le attività di uso, manutenzione, gestione e trasformazione dell’edificio. Il percorso del fiume è il suo ciclo di vita e la quantità di acqua che finisce in mare corrisponde al suo impatto ambientale.

Questo approccio è certamente riduttivo, complesso da calcolare, controverso, … ma il problema principale è che la simulazione proposta si fonda su di un errore: l’acqua non ‘finisce’ in mare. L’acqua segue un ciclo che, oggi, gli edifici non seguono perché al momento siamo in grado di reimpiegare solo pochi del materiali impiegati nella costruzione in nuove costruzioni o produzioni.

Non è un problema legato solo all’industria edilizia, è una questione aperta ed è l’oggetto di avanzate sperimentazioni in molte attività produttive. Essersi accorti di questo errore significa non ritenere più sufficienti le valutazioni di sostenibilità come descritte dagli standard internazionali e andare oltre una visione della sostenibilità edilizia limitata unicamente alla riduzione dei consumi e all’innalzamento della qualità degli immobili (Barucco, 2011).

La complessità del gioco

Il tempo lungo del processo costruttivo storico che innovava attraverso l’iterazione dell’esperienza e delle competenze tramandate si è trasformato nel tempo delle emergenze abitative e nella frenesia delle bolle speculative. Il processo di produzione dei materiali edili e il cantiere descrivono la trasformazione dei tempi e dei modi di pensare al costruito e offrono indicazioni sulla relazione tra l’utente dell’edificio e il contesto con cui questo si relaziona.

Gli edifici simbolo e gli edifici ‘minori’ di un epoca con i loro cantieri testimoniano ciò. Di Venezia, ad esempio, si conoscono le tecniche di approvvigionamento delle materie prime per il cantiere, dal laterizio al legno, alle pietre più pregiate. Si conoscono le leggi che regolamentarono le dimensioni dei travi in funzione delle esigenze commerciali e belliche e della conseguente necessità di legname per l’industria navale. Nelle volte delle chiese si leggono le tracce chiarissime del trasferimento tecnologico ad opera dei maestri d’ascia dell’Arsenale, le cupole rimandano agli influssi culturali dell’oriente, nel territorio permane il ricordo di toponimi legati ai luoghi dell’approvvigionamento. Tutto ciò concorre alla descrizione delle esigenze cui gli edifici dovevano assolvere, funzioni legate al contesto economico, politico ed ambientale che hanno definito la storia di una civiltà oltre che gli edifici di una città.

È possibile guardare in modo analogo anche all’edilizia più recente ricordando che l’industria edilizia ha dovuto, in luoghi e in tempi specifici, rispondere a esigenze diverse riconosciute come ‘onde’ dell’innovazione (Sinopoli, 2002): all’emergenza abitativa della ricostruzione postbellica, segue l’onda della qualità, quella della manutenzione e del controllo dei costi d’esercizio degli immobili, arrivando a riconoscere (oggi) la richiesta di edifici sostenibili. Onde che il CRESME1Il Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio sviluppa annualmente un Rapporto Congiunturale e Previsionale che monitora l’andamento dei diversi mercati delle costruzioni, offrendo dati per analizzare gli aspetti produttivi e di mercato, gli assetti e le trasformazioni territoriali oltre alle tematiche amministrative degli organismi pubblici. registra sempre più frequenti e che arricchiscono il processo edilizio di nuove competenze e di nuove figure professionali, articolando relazioni tra fabbrica e cantiere, tra computer e disegno architettonico, tra tecnici specializzati ed architetto, etc.

Per Mumford la complessità crescente della tecnica può essere paragonata ad un gioco: “mentre il primitivo mondo meccanico poteva essere rappresentato dal gioco della dama, nel quale tutta una serie di movimenti simili è originata da pezzi identici, qualitativamente simili, il mondo nuovo dovrà essere raffigurato quel gioco degli scacchi, nel quale ogni ordine di pezzi ha un grado differente, differente valore, una differente funzione; un gioco più lento e più esatto” (Mumford, 1980). Oggi tale gioco si fa ancor più complesso di quanto non potesse prevedere Mumford e il processo edilizio si fa ‘circolare’, identificandosi idealmente non più con un processo meccanico ma con uno organico (o ecosistemico).

02
Evoluzione del processo costruttivo in uno schema pubblicato dal CIB nell’Agenda 21 on Sustainable Construction

Questa evoluzione del processo costruttivo è descritta in uno schema pubblicato dal CIB2CIB è l’acronimo del nome francese Conseil International du Bâtiment, nel 1998 questo nome fu cambiato in International Council for Research and Innovation in Building and Construction. Il CIB è un’associazione fondata nel 1953 allo scopo di stimolare e facilitare la cooperazione e lo scambio internazionale delle informazioni tra istituti di ricerca governativi operanti nel settore dell’edilizia, in particolare si rivolse agli istituti impegnati nella ricerca dell’innovazione tecnologica. nell’Agenda 21 on Sustainable Construction: le tradizionali variabili per la valutazione dei costi e dei benefici di ciascuna delle attività umane si ampliano quando è presa in considerazione la domanda di sostenibilità ambientale. Il CIB mostra infatti come il triangolo ‘tempi-costi-qualità’ (che misura la competitività nei processi edilizi tradizionali) venga nel tempo recente integrato in uno più grande e complesso, un nuovo paradigma basato sulla relazione tra la valutazione delle risorse ambientali non rinnovabili, la riduzione delle emissioni in atmosfera e la tutela della biodiversità. è lecito e corretto pensare che, di progetto in progetto, alcuni dei vertici dei triangoli abbiano più rilevanza rispetto agli altri; rimane comunque fondamentale la relazione tra i vertici, tra le esigenze individuate sin dalla fase di ideazione del progetto.

La terza parte dello schema CIB mostra che il riferimento al contesto globale introduce tre nuove questioni: l’equità sociale (come componente culturale del progetto), i vincoli economici e la qualità ambientale. Quasi una riproposizione in termini olistici della prima terna di fattori: in periodi di emergenza abitativa l’efficacia del progetto viene misurata sulla rapidità d’esecuzione in cantiere, attraverso la componente temporale del progetto, mentre nell’era della comunicazione la componente caratterizzante l’efficacia del progetto diviene la comunicazione del processo edilizio. Vale a dire che l’efficacia del processo edilizio non è più identificata con la rapidità della risposta ad una domanda diffusa (case per chi non ha un tetto) ma è direttamente proporzionale alla condivisione dei contenuti del progetto (la condivisione del processo edilizio).

Guardare al processo edilizio come all’articolazione di questioni comprensibili, comunicabili e interpretabili dal più ampio numero possibile di portatori d’interesse vuol dire considerare che ogni intervento edilizio incide su un ecosistema che appartiene a tutti, e che su questo processo di trasformazione chiunque può porre delle domande o chiedere delle garanzie. Le voci relative ai costi e alla qualità del costruito rimangono pressoché invariate, se non per l’ampliamento del contesto di riferimento: l’edificio non viene più ‘misurato’ all’interno del suo perimetro ma in relazione con il contesto economico ed ambientale.

Questa terza parte dello schema proposto dal CIB deve oggi essere letta in modo dinamico, circolare, facendo dei tre temi chiave del contesto globale i motori di un di miglioramento continuo del processo edilizio, che parte dall’ideazione del progetto e prosegue oltre il fine vita (la demolizione) dell’edificio. Grazie al movimento da un vertice all’altro del triangolo il processo che parte dall’ideazione del progetto ne amplia le prospettive: equità sociale, vincoli economici e qualità ambientale divengono i temi per l’analisi di ogni progetto, rifiutando gli estremismi che confinano il lavoro del progettista in uno solo dei vertici.

Questo moto produrrà la prossima onda e caratterizzerà, oltre che la domanda di sostenibilità del costruito, anche il mercato edilizio (già ne si trova riscontro in alcuni mercati e in alcune delle richieste contenute nei bandi di progetto e nelle gare d’appalto). Il riferimento alla componente economica di tale ‘moto ondoso’ non è casuale ma è registrato nei documenti Cresme per il contesto italiano e dall’andamento dello S&P/Case-Shiller Home Price Indices per il panorama americano.3Lo Standard & Poor’s Case–Shiller Home Price Indices registra i prezzi di vendita delle case in America raccogliendo dati su 10 o su 20 aree metropolitane tra le più popolose. Portata, ampiezza e forza di quello che può essere un accadimento o uno sconvolgimento nella storia economica delle attività produttive non sono oggi del tutto note mentre appaiono visibili segnali di orientamento tecnologico e su ipotetici scenari per concretizzare i quali oggi abbiamo solo prototipi, ed è al fine di costruire questi nuovi scenari per il processo edilizio e per l’individuazione di tecnologie innovative vale la pena di accettare la sfida della prefigurazione della prossima onda che, ipotizzo, possa essere tesa all’organizzazione della circolarità del processo e su un più stretto legame tra progettazione architettonica, produzione e ciclo edilizio. La nuova onda porrà al centro dell’attenzione proprio il processo edilizio, con ricadute anche su altri comparti produttivi che oggi hanno poco nulla a che fare con il settore delle costruzioni.

Cowboy o astronauti

Un nuovo termine è emerso per descrivere l’epoca che stiamo vivendo: Antropocene, termine utilizzato per la prima volta da Eugene Stoermer: un biologo che, nei primi anni ’80, studiando le alghe nei laghi del nord America trovò chiare tracce dell’impatto delle attività umane sulla Terra. La parola Antropocene, per Stoermer, serviva a indicare un’epoca segnata dagli effetti dell’attrito tra i cicli produttivi dell’uomo e i cicli biologici del nostro pianeta. La componente culturale dell’Antropocene viene invece sottolineata dal lavoro congiunto di Stoermer e Paul Crutzen (2000), premio Nobel per la chimica: egli lesse il frutto dell’attrito tra mondo naturale e mondo della tecnica negli effetti macroscopici sulla formazione e la decomposizione dell’ozono in atmosfera. Dirk Sijmons, architetto del paesaggio, legge Crutzen e racconta (2013) che il mondo è cambiato molto negli ultimi secoli, tanto che “ci siamo persino lasciati alle spalle il buon vecchio Olocene e siamo entrati in una nuova era, nella quale l’umanità sta aggredendo la terra come una forza della natura. Egli la chiama l’era degli umani l’Antropocene”. L’Antropocene è inizialmente un concetto scientifico, poi un ragionamento culturale e, ancora successivamente (oggi) è giusto che diventi un messaggio provocatorio, per ricordare che abbiamo le capacità per modificare sostanzialmente il nostro ecosistema. “Le nuove tecnologie, combinate al numero di individui, ci hanno reso una forza della natura” (Gore, 2006).

Un’economia che estrae risorse ad un ritmo sempre più incalzante, senza tenere in considerazione l’ambiente in cui opera, non può continuare a svilupparsi all’infinito. Ma la soluzione ai danni ambientali che sono in corso non è l’inversione di tendenza, il ritorno del mito del ‘buon selvaggio’ in cui l’uomo, animale buono e pacifico, è stato corrotto dalla società e dal progresso. La soluzione può essere trovata a partire dalla consapevolezza che i cicli delle attività umane devono essere ri-progettati per ridurne al minimo l’attrito con i cicli biologici.

Un modo per figurarsi la dimensione di tale attrito è provare a pensare a quanti edifici si costruiscono. All’inizio del diciannovesimo secolo il nostro pianeta contava un miliardo di esseri umani e oggi ne accoglie sette: questa esplosione demografica è stata accompagnata da un esodo di massa dalle campagne verso le città e se nel 1800 la popolazione urbanizzata era il 3 per cento di quella mondiale, nel 2000 è arrivata quasi al 50 per cento e dal 2007 è la maggioranza (McKinsey Institute, 2012).

Si prenda ad esempio la città di Lagos, in Nigeria: è la prima mega-city dell’Africa sub-sahariana, è la casa di 9 o 17 milioni di persone, a seconda di come si disegnano i confini del perimetro urbano. La popolazione di Lagos aumenta di 3.000 nuovi abitanti ogni giorno e ne fa, in assoluto, la città che cresce più velocemente al mondo. Stimando nuclei familiari di 6 persone si deduce un’esigenza abitativa di 500 nuovi alloggi al giorno (circa 200.000 alloggi all’anno) che vanno ad aggravare una pregressa emergenza abitativa che in Nigeria è stimata per 17 milioni di unità abitative (dati del 2013). Questo è solo uno dei possibili esempi per descrivere una questione più ampia, che fa di Lagos solo una delle parti che compongono un nuovo sistema urbano: il mondo sta organizzando gli insediamenti umani in mega-città e in meta-città, grandemente estese e fortemente connesse.4Dati e riflessioni sul tema sono contenuti nel report State of the World’s Cities che descrive come le città del futuro non saranno singole entità politiche ma si espanderanno oltre i confini geografici di regioni e nazioni. Altri riferimenti sono contenuti nel blog VOD – Value of Differences gestito dal prof. Longhi al sito www.vodblogsite.org che contiene anche un testo esplicativo del termine ‘Antropocene’ [maggio 2014].

Ibadan-Lagos-Accra, Bangkok, Hong Kong-Shenzhen-Guangzhou, Mumbai-Delhi sono solo alcune delle realtà urbane in forte trasformazione e in tutte è presente una comunità ‘abusiva’ in espansione, in cui risiede un’ampia porzione della popolazione (e dell’economia) della città. Le comunità abusive e le baraccopoli sono ora la casa di 800 milioni di persone, con un tasso di crescita previsto di 16.000 nuove unità ogni giorno. è l’immagine di un pianeta andato in tilt? Quale sarà la qualità della vita in questi insediamenti ad alta densità e dalle infrastrutture scarse? Come sarà possibile gestire le risorse materiali, definire lo sviluppo o il rispetto per l’ambiente naturale?

Alla luce della definizione di ‘Antropocene’ non è facilmente accettabile che l’unica soluzione di tale tendenza sia l’applicazione della teoria del buon selvaggio precedentemente citata. Il futuro sarà determinato in funzione di quanto seriamente questi enormi agglomerati urbani prenderanno in considerazione la democrazia, che forse avrà nuove definizioni, sempre più ampie e in linea con quanto descritto nella terza parte dello schema dell’Agenda 21 del CIB.
Le descrizioni dei nuovi insediamenti urbani illustrano una confusione incontenibile, una rete di dare-avere iper-imprenditoriale, una frenesia incessante di parole e commercio che diviene colla, che tiene assieme la città. Le descrizioni della narrativa africana5a rivista Granta 92: The View from Africa e i libri di Binyavanga Wainaina, in particolare Un giorno scriverò di questo posto, edito in lingua italiana da 66thand2nd, 2013.nd, 2013. sono sconcertanti, esilaranti, terrificanti ma raccontano sempre di cose molto umane. E, se Lagos è l’embrione delle meta-città del futuro, se queste non devono diventare cancerose e metastatiche, è necessario progettare nuovi processi, anche nuovi processi edilizi, che abbiano al centro l’uomo, nella sua definizione più ampia.

Per ampliare la definizione delle responsabilità dell’uomo (in relazione ai processi che lo eleggono il protagonista dell’Antropocene) è utile la parabola che, nel 1960, venne illustrata dall’economista Kenneth Boulding: il cowboy e l’astronauta spiegano le conseguenze dell’attrito tra tecnica e natura. Il cowboy si sposta a cavallo verso il West e non si interessa di quanto suolo calpesta, di quanto mangia e di quanti rifiuti lascia dietro di se perché sa che non tornerà più in quei luoghi. Invece l’astronauta può disporre solo di una quantità limitata di input e l’astronave ha una limitata capacità di trasportare rifiuti, perché è un ‘sistema chiuso’ che deve rimanere in equilibrio affinché il viaggio possa continuare (Boulding, 1968).

Boulding sostiene che la misura correntemente adottata per definire il successo di una società (il PIL) deriva dall’obiettivo di massimizzazione del consumo, che è compatibile con l’economia del cowboy ma non con l’economia della nave spaziale. Le grandi città sottolineano i problemi dell’approvvigionamento di risorse ma mostrano anche che l’economia ‘informale’ (e l’edilizia informale), quella non censita e difficile da misurare, creerà molti nuovi posti di lavoro del futuro, non conteggiati nelle statistiche ufficiali sull’occupazione. Secondo le stime de The Organisation for Economic Co-operation and Development il numero di persone che vivono ‘informalmente’ crescerà sino a costituire i due terzi della forza lavoro mondiale entro il 2020. Questo nuovo mondo urbano sarà dominato da imponenti mercatini fai-da-te e quartieri auto-costruiti e dovrà fondare la propria democrazia in considerazione dell’attrito tra tecnica e natura, in un sistema chiuso (McKinsey Institute, 2011).

03
Lo schema dell’ecosistema Terra elaborato da Odum

In riferimento e discutendo la logica del ‘sistema chiuso’, tra gli anni settanta e ottanta, Howard ed Eugene Odum svilupparono un ragionamento per contabilizzare ogni attività, umana e naturale, in un unico sistema o, meglio, in un unico eco-sistema nel quale interagiscono forze di tipo ecologico, energetico ed economico (1995). Lo schema proposto dall’Agenda 21 del CIB ripropone queste componenti (ecologia, energia ed economia) arricchendole della questione culturale che non è esplicita nell’eco-sistema degli Odum (ma che ne consente la formulazione). I fratelli Odum elaborarono queste teorie perché convinti dell’esistenza di un attrito che inceppa il buon funzionamento dei cicli dell’ecosistema Terra, un errore che caratterizza l’Antropocene: diamo un alto valore all’ambiente naturale ma diamo un valore ridotto a ciò che la natura produce, soprattutto al confronto con il valore che diamo ai beni prodotti dall’uomo.

Per correggere questa errata stima del valore di prodotti, elementi e processi gli Odum introducono il concetto di eMergia (emergy, crasi della parola embodied con la parola energy): la quantità di energia solare utilizzata nel processo che genera ogni prodotto o servizio. Secondo Odum, scegliere cosa e come produrre considerando l’eMergia delle attività lavorative potrebbe portare alla riduzione degli attriti tra uomo e natura. Oggi il costo ambientale può contribuire alla definizione del valore dell’immobile, gli strumenti per contabilizzare questo valore sono diversi: l’eMergia, misurata in solar-Joule come nella formula proposta da Odum, la stima dell’impronta ecologica oppure l’embodied energy, secondo le indicazioni delle ISO 14000 (che riprendono molti delle considerazioni di Odum ma semplificano le operazioni di calcolo). Queste valutazioni, dedicate principalmente alla misurazione dell’efficienza delle produzioni industriali, si sono arricchite di analoghi ragionamenti frutto della comprensione dei danni legati alla concentrazione di CO2 in atmosfera. Si parla infatti di embodied carbon, che misura la quantità di anidride carbonica emessa nei processi6Qui di seguito la definizione che il database ICE fornisce per embodied energy ed embodied carbon: “The embodied energy (carbon) of a building material can be taken as the total primary energy consumed (carbon released) over its life cycle. The would normally include (at least) extraction, manufacturing and transportation. Ideally the boundaries would be set from the extraction of raw materials (inc. flues) until the end of the products lifetime (including energy from manufacturing, transport, energy to manufacture capital equipment, heating & lighting of factory, maintenance, disposal, … etc), known as ‘cradle to grave’. It has become common practice to specify the embodied energy as ‘cradle to gate’, which includes all energy (in primary form) until the product leaves the factory gate. The final boundary condition is ‘cradle to site’, which includes all of the energy consumed until the product has reached the point of use (i.e. building site).” ed imputabili ad ogni servizio o prodotto realizzato. L’embodied energy e l’embodied carbon servono a considerare gli input e gli output solitamente ‘esterni’ al sistema economico e sono strumenti utili a correggere la logica del cowboy, che pensa solo al bene commerciabile che (direttamente o indirettamente) deriva dalla natura e non considera il servizio che la natura ha reso nel produrre tale bene.

Questo ragionamento soggiace alla seconda legge della termodinamica che, in modo molto semplificato, può essere riassunta con la considerazione che certi processi si muovono in una sola direzione e non possono essere ripetuti (o riciclati) senza ‘costo’: è in atto un processo di aumento del disordine del sistema nel quale viviamo. Si consideri ad esempio che quando si producono dei pilastri o delle travi in acciaio dal minerale di ferro e carbone si ottiene un materiale ad un più elevato grado di ordine (a più bassa entropia) rispetto al minerale di ferro e carbone; ciò avviene a spese dell’energia e dei materiali disponibili ed è possibile perché la produzione avviene in un sistema aperto, in cui la legge dell’entropia non trova applicazione. Lo schema dell’ecosistema Terra elaborato da Odum mostra questo e sottolinea come il sistema Terra sia debitore del Sole per un’enorme frazione dell’energia che lo rifornisce: si tratta cioè di un’eco-sistema aperto. Al contrario Le nostre attività produttive dipendono in buona sostanza da fonti di energia fossile, limitate e difficilmente rinnovabili, quindi costituenti un sistema chiuso.

È la conversione di energia a permettere la lavorazione di materiali grezzi, il trasporto dei prodotti e il loro consumo. Per Mumford “Nulla potrà chiamarsi veramente ‘progresso’ […] finché non fornirà l’uomo più energia di quanta gliene sia indispensabile per sopravvivere finché quest’eccedenza di energie non si trasformerà in prodotti più duraturi, l’arte, scienza, la filosofia, libri, costruzioni, i simboli. Il primo passo […] è l’utilizzazione dell’energia solare e la trasformazione di questa in forme utili all’agricoltura e alla tecnica; termine ultimo dello stesso processo è la trasformazione dei prodotti intermedi e preparatori in forme umane di sussistenza e di cultura, che si trasmettono agli uomini di generazione in generazione” (1961).

Energia e materia

Il costo energetico per la produzione di un chilo di acciaio del tipo comunemente impiegato nel settore edile è stimato, in media, attorno ai 24,4 MJ; questa stima è fatta in considerazione del fatto che solitamente il 42,7% dell’acciaio di cui sono costituite le barre d’armatura ma anche le travi e le putrelle è acciaio di riciclo. Se il 100% dell’acciaio impiegato in edilizia provenisse da fonti ‘prime seconde’7Costituite da scarti di lavorazione oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio. e non dalle cave il valore della sua energia incorporata scenderebbe sino a 9,5 MJ. Il primato del costo energetico spetta invece all’acciaio inossidabile per produrre un chilo del quale sono necessari 56,7 MJ di energia. Questi valori sono dati medi di calcoli effettuati secondo un’analisi di processo come definita dagli standard internazionali ISO della serie 14000.

I dati disponibili in merito ai consumi energetici delle singole produzioni realizzate nell’area europea sono stati raccolti e organizzati in un foglio di calcolo dall’università di Bath. Questi dati sono disponibili gratuitamente e contribuiscono alla consapevole comprensione dei costi ambientali dei prodotti impiegati in edilizia. Non sono disponibili solo i costi in termini di input nella produzione (i MJ di energia necessaria per realizzare un chilo di materiale o prodotto) ma sono noti anche i costi in termini di output di emissioni nocive in atmosfera, misurati in chili di anidride carbonica per chilo di prodotto. Si potrebbe dunque sostenere che ogni chilo di acciaio in realtà pesa di più di un chilo: un chilo di acciaio comunemente impiegato in edilizia pesa 1kg + 1,77 kg di CO2, un chilo di acciaio riciclato al 100% aumenta il proprio peso solo di 0,43 kgCO2 mentre l’acciaio inossidabile ‘pesa’ sull’atmosfera più di sei volte ciò che comunemente si ritiene, con un’emissione di CO2 pari a 6,15 Kg.8I dati qui riportati sono estratti dal database ICE redatto dall’Università di Bath. http://www.circularecology.com/ice-database.html [aprile 2014].

La UNI EN ISO 14040 spiega come vada applicato l’approccio life cycle nell’analisi delle produzioni, anche edili. Viene chiamata Life Cycle Impact Assessment (LCIA) quella valutazione che, considerato il ciclo di vita di un prodotto (da costruzione), dalla cava alla sua dismissione, ne definisce una fase del ciclo di vita attraverso la descrizione di un confine coincidente con il sistema di produzione. Un confine che, al suo interno, può essere suddiviso in fasi più piccole, interconnesse e concorrenti alla realizzazione di un elemento (che prosegue il suo ciclo di vita attraverso le fasi d’uso) o di un prodotto (che viene avviato verso altri sistemi di produzione). Ogni unità di produzione, sia interna al sistema di produzione considerato o esterna (antecedente o successiva a questo), è caratterizzata da un flusso di input in entrata e di output in uscita, questi input ed output sono materiali, energia e prodotti. I dati utili alla certificazione dell’energia incorporata nei prodotti da costruzione seguono questo approccio e analizzano input ed output del sistema di produzione che, nel caso dell’acciaio, seguono il materiale ferroso dalla cava (from cradle) sino all’uscita dallo stabilimento di produzione (to gate) in forma di profilati, sagomati, bulloneria, minuteria, piatti o lamiere.

Il settore edile è un ambito complesso per l’applicazione delle valutazioni di embodied energy ed embodied carbon in quanto nessun altro processo produttivo coniuga tanto strettamente la produzione industriale (quella della catena di montaggio, from cradle to gate) con la componente artigianale, dalla quale non si può prescindere nell’esecuzione delle opere in cantiere (che siano di effettiva realizzazione in opera o di montaggio di componenti complessi pre-assemblati in fabbrica). Entrambe queste fasi (prima e durante il cantiere) contribuiscono ad aumentare il quantitativo di energia e di anidride carbonica, rispettivamente input ed output ‘nascosti’ nell’edificato. Inoltre anche il ciclo di vita, di qualunque edificio, è articolato e complesso perché segue le alterne vicende dell’utenza ma anche determina ed è influenzato da un sistema urbano e territoriale difficile da confinare all’interno di definizioni dal valore universale.

Queste difficoltà però non devono rallentare la ricerca di un processo edilizio in considerazione di un più ampio sistema (eco-sistema). Organizzazioni come la New Cities Foundation collegano le città per condividere conoscenze in merito alla sostenibilità, alla creazione di ricchezza, alla gestione delle infrastrutture, dei servizi igienico-sanitari, delle reti intelligenti e dell’assistenza sanitaria. Poiché la popolazione mondiale cresce le città diventano i nodi del nostro cervello globale; la gestione delle enormi quantità di energia, anidride carbonica e materiali indispensabili per costruire case per tutti deve essere uno dei pensieri che attraversano questi nodi, in un discorso condiviso e circolare, che collega astronavi-meta-città e risorse, con l’obiettivo della riduzione degli attriti e della generazione di presupposti per la crescita dell’efficienza del sistema.

In definitiva, la presa in conto dell’embodied energy all’interno dei criteri di definizione del valore (e dunque del prezzo) di un immobile punta all’obiettivo di innescare un miglioramento progressivo, ottenibile attraverso l’innalzamento del livello di qualità dei prodotti e la riduzione degli sfridi nel processo edilizio.

La circolarità del processo

“Credere che la problematica suscitata dalla macchina possa essere risolta solo inventando nuove macchine è […] indice di un pensiero immaturo e semplicistico che quasi sconfina nella disonestà” (Mumford, 1980). Analogamente il meccanismo di mercato non può proteggere il genere umano dalle crisi ecologiche del futuro: il costruito può essere considerato un capitale fisso, in quanto deposito fisico di materia ed energia9Su questo argomento si veda anche Barucco M. A. , Fabian L., Embodied energy du territoire et cartes énergétiques, in Énergie et Recyclage, 2014. Rapporto pre-finale, equipe coordinata da P. Viganò e composta da Università Iuav, Venezia (Paola Viganò, Bernardo Secchi, Lorenzo Fabian, Chiara Cavalieri, Maria Antonia Barucco, Emanuel Giannotti); Studio 012 (Bernardo Secchi et Paola Viganò, Marine Durand, Roberto Sega); Tribu Energie, Paris (Bernard Sesolis, Laure Jarrige, Rofia Lehtihet); SUPSI, Lugano (Davide Fornari); Università Ca’ Foscari, Venezia (Valentina Bonifacio); Programma interdisciplinare di ricerca Ignis Mutat Res Penser l’architecture, la ville et les paysages au prisme de l’énergie finanziato da Ministère de la Culture et de la Communication, Bureau de la Recherche Architecturale, Urbaine et Paysagère (Francia). e considerando che il riciclaggio completo è impossibile e d’altra parte che i materiali a basso costo sono disponibili in quantità decrescente, non rimane che la possibilità di lavorare alla minimizzazione degli sfridi nel ciclo di vita del costruito, alla riduzione degli attriti tra il ciclo della natura e il ciclo della tecnica. La verità, anche se spiacevole, è che al massimo si può impedire il consumo non necessario delle risorse e il deterioramento non necessario dell’ambiente, senza però pretendere di conoscere compiutamente il significato di ‘non necessario’ in questo contesto” (Georgescu-Roegen, 1982).

Lo schema ideale a cui tendere appare è il miglioramento degli scambi di materiali ed energia che avvengono nell’intero ciclo di vita dell’edilizio, sino a far coincidere il più possibile input ed output con quanto prodotto dall’ecosistema nel suo continuo ciclo di rigenerazione. Il ciclo edilizio è dunque da considerarsi come un ciclo aperto all’interno di un’altro, più grande, sistema termodinamico aperto solo per quanto riguarda lo scambio di energia. Considerando questo ciclo ideale, il bilancio dell’ecosistema può tendere all’equilibrio e, nella consapevolezza che sarà difficile raggiungere questo ideale, l’impegno dell’innovazione del processo edilizio deve tendere, attraverso cicli di miglioramento continuo (Ciribini, 1984), ad avvicinarsi al modello ideale attraverso aggiustamenti progressivi. In quest’ottica esiste la possibilità di impiegare energie e materie prime seconde10Le materie prime seconde (SRM, Secondary Raw Materials) sono costituite da scarti di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti. e distinguere tra ri-ciclo e sub-ciclo, in quanto solo attraverso il primo tipo di processo si hanno trasformazioni di materiali senza il degrado della qualità del materiale, mentre il sub-ciclo reimpiega materia dedicandola ad altre funzioni, con evidente dispersione di energia.

Tra i primi esperimenti di progettazione e costruzione della circolarità del processo edilizio (all’insegna del riciclo, non del sub-ciclo) vi è la Paper Tube Structure (PTS) di Shigeru Ban. Frutto di sperimentazioni giovanili11La PTS è stata utilizzata da Shigeru Ban per la prima volta nel 1986 per l’allestimento di una mostra di mobili e vetri progettati da Alvar Aalto, tre anni dopo usa lo stesso modello di strutture leggere in tubi di carta all’interno di una galleria d’esposizioni dedicata ad Emilio Ambaz: ciò che rendeva la PTS la soluzione preferita da Shigeru Ban era la possibilità di smontare la e ricostruire struttura rapidamente, per seguire l’itinerario delle esposizioni. e dello sviluppo dell’ideale di costruire un’architettura a impatto ambientale zero, con un ciclo di vita analogo a quello dei materiali con cui è costruita. Quando Shigeru Ban lavorò con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) la PTS si è trasformata da insieme di componenti per allestimenti museali in un sistema costruttivo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

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Dettagli di alcuni progetti di Shigeru Ban: A – Library of a Poet (Sushi, Kanazawa, Giappone, 1991), B – Nomadic Museum (New York e poi Santa Monica, Stati Uniti, 2005), C – Paper Theater (Amsterdam e poi Utrecht, Olanda, 2003). I disegni sono stati elaborati da Diletta Zonzin per la sua tesi di laurea dal titolo Architettura di carta, 2013.

Il genocidio in Tanzania e Zimbabwe portò più di due milioni di persone a fuggire in Ruanda e, nel 2005, l’architetto progettò le prime tende d’emergenza in carta e plastica. Il progetto venne sviluppato negli anni successivi in collaborazione con l’azienda giapponese Sonoco, che spedì in Africa una macchina per la fabbricazione dei tubi di carta e che monitorò la progressione del progetto per quattro anni. Simili costruzioni per le emergenze sono state poi costruite in Giappone, Turchia e in India. La PTS è stata inoltre utilizzata per edifici religiosi, industriali, museali e d’esposizione, tra i quali il più conosciuto è il Japan Pavilion realizzato all’Expo di Hannover nel 2000. Questo spostalo nelle note Il Padiglione è un grande guscio a doppia curvatura di 25 x 75 m realizzato dall’intreccio di lunghi tubi di cartone rivestiti da una membrana traslucida di carta. Le fondazioni sono cassoni di legno riempiti di sabbia. La riduzione dei rifiuti è l’obiettivo alla base del progetto e riguarda l’intero ciclo di vita della struttura: i materiali sono originati da processi di riciclo e, alla fine del tempo d’utilizzo del padiglione, possono essere riciclati nuovamente per ottenere prodotti analoghi a quelli che sono stati messi in opera per l’Expo.

Nel 1991 Shigeru Ban ha realizzato la prima struttura permanente in PTS, la Library of a Poet (in Giappone). Grazie allo sviluppo del progetto, al preciso controllo della produzione industriale dei tubolari in cartone, alle analisi statiche e meccaniche del sistema e al monitoraggio della costruzione, gli standard Giapponesi hanno normato la PTS12Alla fine, nel 1993 i tubi di carta sono stati autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale utilizzabile anche per edifici permanenti, che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan. che dunque (in quel Paese) può essere considerata alla stregua di una qualunque altra tipologia costruttiva, in legno, acciaio, cemento o laterizio.13È il tema della durabilità del materiale ad aver creato i maggiori problemi alla produzione e commercializzazione dei tubi di carta come materiale da costruzione, soprattutto in relazione a tassi di umidità variabile. Posti all’esterno i tubi di carta durano circa 10 anni o più, tuttavia come molti altri materiali da costruzione i tubi vanno in qualche modo protetti dalle intemperie e manutenuti: come capita per le costruzioni in legno, nel caso una parte della struttura venisse danneggiata questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le parti nell’architettura con facilità. Da invenzione e sperimentazione tecnologica la PTS è diventata tecnologia normata.

Era lo stesso piano dell’Expo di Hannover a richiedere di progettare il ciclo di vita degli edifici in modo circolare. A tutti i progettisti coinvolti veniva fornito un testo programmatico: The Hannover Principles. Design for sustainability, una sorta di manuale dell’architetto scritto da William McDonough, già noto per aver pubblicato (con Michael Braungart) From cradle to cradle (2003) e per aver fondato la McDonough Braungart Design Chemistry, società di consulenza per il miglioramento dei processi produttivi (attraverso l’innovazione, la semplificazione della produzione, il progetto del fine vita e il monitoraggio del prodotto o del processo). Il testo programmatico pubblicato per l’Expo insiste perché venga progettata l’interdipendenza del processo edilizio con il mondo naturale attraverso l’eliminazione del concetto di rifiuto e sfruttando con consapevolezza le energie rinnovabili. In questo modo, attraverso il progetto, vengono giustificati e valorizzati i costi in termini ambientali ed economici e il valore dell’edificio può essere messo in relazione al suo costo nel breve e nel lungo termine.

Questo esempio mostra che identificare la ‘salvezza ecologica’ in uno stato stazionario (della tecnologia, dell’economia, …) è sbagliato. In un ambiente finito la crescita, lo stato di crescita zero ed anche la decrescita non possono esistere indefinitamente. Abbiamo a disposizione ‘fondi’ (materia, appartenente ad un sistema chiuso) e ‘flussi’ (energia, sistema aperto) e la tecnologia avrà un ruolo importante nel progetto dei prodotti in modo da lasciare il processo lineare dell’economia take–make–dispose (prendi, usa e getta), che spreca le grandi quantità di materiali di energia e di lavoro che sono incorporati nei prodotti. Si tratta però di non passare dal Buon Selvaggio all’Apprendista Stregone di Johann Wolfgang von Goethe: e in questo ci può aiutare la tecnologia.

Il progetto del processo tecnologico è funzionale alla definizione di un economia basata essenzialmente sul flusso di energia solare che “eliminerà anche il monopolio della generazione presente sulle future. Questo non accadrà completamente, perché anche un’economia del genere dovrà attingere al patrimonio terrestre, soprattutto per quanto riguarda i materiali: si tratta di rendere minore possibile il consumo di risorse critiche” (Georgescu-Roegen, 1982). In questo modo però la definizione di sviluppo sostenibile si amplia e ci porta a chiederci cosa possiamo fare per le generazioni future o, meglio, per consentire a tutte le parti della natura di soddisfare i propri bisogni, ora e in futuro. Nel progetto di un processo circolare, l’obiettivo per tutto ciò che è realizzato con materiali durevoli (come i metalli e la maggior parte delle plastiche) deve essere quello del riuso e della riqualificazione per l’adattamento a nuove possibili applicazioni, per il maggior numero possibile di cicli di vita.

Questo approccio contrasta nettamente con la mentalità incorporata nella maggior parte delle produzioni industrializzate di oggi. Anche la terminologia delle filiere produttive (catena di valore, catena di approvvigionamento, utente finale – value chain, supply chain, end user) esprime una visione ‘usa e getta’, di tipo lineare. Il progetto di un processo circolare invece mira a sradicare i rifiuti non solo dai processi di produzione (gestione snella, lean management) ma in modo sistematico, nel corso dei cicli di vita e degli usi dei prodotti e dei loro componenti. La terza era dell’energia (Toffler, 1987), in linea con i principi dell’ecocompatibilità, considera le esternalità che ricadono su tutti gli uomini e sull’ecosistema Terra ciò perché si usano ancora energie esauribili e mentre si ricercano energie rinnovabili ampiamente disponibili.

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Cambio di paradigma

Un processo tecnologico fondato sulla circolarità della materia ricostruisce o rigenera attraverso l’invenzione e il progetto. Sostituisce il concetto di fine vita con quello di ricostruzione, si sposta verso l’impiego dell’energia rinnovabile, non impiega prodotti chimici tossici che danneggiano il ciclo di riuso e reinserimento dei prodotti nella biosfera, e tende all’eliminazione dei rifiuti attraverso un attento progetto iniziale dei materiali, prodotti, sistemi e modelli economici. Pochi semplici principi guidano questo tipo di processo. Prima di tutto, un concetto fondamentale, il tentativo di progettare i rifiuti. I rifiuti non esistono: i prodotti sono progettati e migliorati per un ciclo di vita che prevede il disassemblaggio e il riuso. Questo stretto legame tra il ciclo dei prodotti e il ciclo dei componenti definisce il processo circolare e lo distingue dal processo che include la discarica o prevede i consueti processi di riciclo che, in realtà, si è visto, sono processi di sub-ciclo: in queste lavorazioni (discarica e sub-ciclo) vengono infatti perdute quantità consistenti di energia incorporata e lavoro. In secondo luogo, la circolarità del processo introduce una netta differenziazione tra componenti consumabili e componenti durevoli di un prodotto. A differenza di ciò che accade oggi, i componenti consumabili coinvolti in un processo circolare devono essere in buona parte realizzati con ingredienti di origine naturale, anche detti ‘nutrienti’, non tossici e, qualora possibile, con benefici per la biosfera nella quale verranno rilasciati a fine uso o dopo una sequenza di successivi impieghi.

A loro volta I beni dalla lunga durata, come possono essere i prodotti dell’ingegneria realizzati con ‘nutrienti tecnici’ sono inadeguati per il reinserimento nella biosfera. Questi vanno sono progettati sin dall’inizio per il riuso e i prodotti soggetti ad un rapido avanzamento tecnologico vanno sono progettati per il miglioramento (non per la sostituzione). Come terza questione si pone l’energia necessaria per alimentare il ciclo che deve provenire da fonti rinnovabili e naturali, per ridurre la dipendenza della risorse esauribili e migliorare la resilienza dei sistemi. Infine, nel processo circolare, la figura del consumatore dei ‘nutrienti tecnici’ viene sostituita con quella dell’utente. Questo richiede un nuovo tipo di ‘contratto’ tra chi offre un prodotto e chi lo utilizza, un tipo di rapporto basato sulle prestazioni del prodotto. A dispetto dell’attuale economia fondata su meccanismi del tipo ‘acquista e consuma’ i prodotti durevoli sono affittati, noleggiati e, qualora possibile, condivisi. Se vengono venduti la transazione è accompagnata da incentivi o accordi volti alla restituzione del prodotto, del componente o del materiale alla fine del periodo di impiego.

Attualmente i casi di progetto di processo circolare sono solitamente sviluppati prevalentemente da grandi firme (come Nike, Renault, Philips, …), questo perché è difficile progettare sistemi che siano economicamente praticabili e che offrano garanzia di un’alta trasparenza. I casi virtuosi di imprese che hanno fatto dell’economia circolare e dell’approccio cradle to cradle la base per il loro business offrono dati sufficienti alle prime stime: per le industrie europee, la Fondazione Ellen McArthur stima tra i 172 e i 275 miliardi di euro di risparmio considerando uno scenario di transizione verso il progetto del processo circolare e tra i 285 e i 457 miliardi di euro in uno scenario più avanzato (2012).

Il progetto di processi circolari è rintracciabile anche nel settore dei materiali da costruzione e dell’arredo. Lo scambio delle informazioni tra chi progetta ed attua processi circolari è agevolato dalla piattaforma europea Cradle 2 Cradle Network (C2CN) e la visibilità di chi offre prodotti coerenti con queste teorie è promossa attraverso la certificazione volontaria Cradle to Cradle.

Il principio del processo circolare è già applicato anche a livello di edificio. Nel suo Sustainability Report (pubblicato nel 2012) l’impresa di costruzioni giapponese Sekisui House Group mostra i primi risultati di quello che viene presentato come il nuovo sistema industriale orientato al riciclo degli edifici e alla realizzazione di abitazioni attraverso un più efficiente utilizzo delle risorse. L’impresa, a fronte dello sviluppo di un più complesso quadro di esigenze da parte degli utenti del costruito, attua la progettazione del processo edilizio distinguendo il ciclo dei ‘nutrimenti naturali’ e quello dei ‘nutrienti tecnici’ inserendovi non solo le nuove costruzioni ma anche gli interventi di riqualificazione. Un esempio ne è la gestione dei rifiuti di cantiere: questi vengono suddivisi in 27 categorie differenti e la chain of custody dei sacchi di rifiuti viene seguita attraverso un sistema computerizzato che consente, raggiunto il centro di riciclaggio,14Questo viene chiamato Resource Management Center, sostituendo anche nella terminologia l’idea di rifiuto con quella di risorsa. di suddividere ulteriormente i materiali in 80 categorie, la maggior parte delle quali viene reinserita in un processo produttivo per la realizzazione di materiali da costruzione. Questi processi di produzione di nuovi materiali edili non prevedono l’impiego di prodotti chimici tossici ma, preferibilmente, sfruttano ‘nutrimenti naturali’ o scarti di altre lavorazioni di come, ad esempio i gusci delle uova impiegate nel settore alimentare. Una scelta che, oltre a recuperare alcune lavorazioni dell’edilizia storica, introduce un’innovazione nel progetto del processo edilizio, innovazione che è stata riconosciuta attraverso certificazioni internazionali e premi da parte del governo giapponese.

Le innovazioni sono possibili non solo alla scala del prodotto, ma anche a quella dell’edificio. Sekisui, attraverso una campagna di acquisizioni immobiliari, è in grado di offrire in affitto o in vendita immobili certificati sostenibili, dalle alte prestazioni energetiche e inseriti in un processo ciclico. Se si desidera cambiare casa è possibile vendere la propria a Sekisui e sceglierne una nuova all’interno del parco abitazioni già inserito nel processo ciclico, questa opzione consente agli utenti dell’abitazione un margine di convenienza superiore nella vendita e un costo del nuovo immobile non differente dal costo medio di mercato, in quanto l’impresa gestisce i propri margini di guadagno anche attraverso il progetto del processo edilizio ciclico della ristrutturazione. L’utente inoltre ha la garanzia del ridotto costo di funzionamento dell’edificio (risparmio energetico) e anche di mantenimento, in quanto le abitazioni Sekisui inserite nel processo ciclico sono sottoposte a interventi di ispezioni e manutenzioni programmate, distribuite su un lungo arco temporale (manutenzione garantita per 20 anni, termine prorogabile sino a 60 anni).

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Processo circolare, schema elaborato a partire dai documenti della Ellen Macarthur Foundation e di McKinsey Global Institute.

Ideologia

“Forse il destino dell’uomo è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante piuttosto che un’esistenza lunga, monotona e vegetativa. Siano le altre specie – le amebe, per esempio – che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare la Terra ancora immersa in un oceano di luce solare” (Georgescu-Roegen, 1982). A partire da questa definizione parlare di processo circolare è fare ideologia,15Ideologia nel senso originario del termine, l’analisi delle idee che, prescindendo dallo studio dell’anima, si basa sull’analisi del sistema nervoso; ideologia che, a prescindere dal sensazionalismo allarmistico della crisi ambientale, cerca di sviluppare l’analisi del sistema produttivo. Ideologia nel senso marxista del termine, come credenza filosofica, religiosa e morale caratterizzante la nostra epoca, nella quale la difesa della natura è contemporaneamente comportamento e giustificazione di un interesse. Ideologia nel senso sociologico del termine, cioè l’insieme di opinioni e supposizioni che orientano un gruppo sociale, in espansione sulle reti della comunicazione. attività peraltro non disprezzabile ma che viene spesso come liquidata come cosa da sognatori… Al contrario il processo circolare può essere una praticabile ideologia nella misura in cui costituisce un nuovo orizzonte per la tecnica, oggi spesso asservita unicamente allo sviluppo economico, quello sviluppo che consente di sognare un’esistenza sempre più felice per la specie umana.16In tale contesto la tecnica è “l’applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria” (Severino, 2010) grazie alla quale, se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio. Il nuovo sogno può essere invece così riassunto: la salvaguardia della terra anziché l’incremento del capitale. Si rovescia la logica secondo la quale la tecnica è al servizio del capitale e si mette il capitale al servizio di questa, in quanto la questione non è utilizzare meno e ancora meno materiali e risorse (decrescita) o produrre di più (crescita) ma progettare un processo, un ciclo, che funzioni. Affrontare la progettazione del processo circolare significa assumere la consapevolezza che non è condivisibile l’auspicio di una crescita o una decrescita indefinita e una lineare gestione economico-politica della tecnica. Fondamentale per fare ciò è il ruolo della condivisione, della comunicazione e dell’approccio dialettico (Sen, 2010): economia ed ecologia trovano nuovi schemi di interrelazione (Loikkanen, 2011) e la tecnica lascia spazio alla tecnologia, in cui la tecnica non è sorda al pensiero umano (filosofico, sociologico, …) ma è tecnologia e fa dell’argomentazione di pensiero (logos) la componente fondamentale dell’arte e del mestiere fatti con e sulla rete delle comunicazioni.

Originariamente pubblicato in:

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1. Il Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio sviluppa annualmente un Rapporto Congiunturale e Previsionale che monitora l’andamento dei diversi mercati delle costruzioni, offrendo dati per analizzare gli aspetti produttivi e di mercato, gli assetti e le trasformazioni territoriali oltre alle tematiche amministrative degli organismi pubblici.
2. CIB è l’acronimo del nome francese Conseil International du Bâtiment, nel 1998 questo nome fu cambiato in International Council for Research and Innovation in Building and Construction. Il CIB è un’associazione fondata nel 1953 allo scopo di stimolare e facilitare la cooperazione e lo scambio internazionale delle informazioni tra istituti di ricerca governativi operanti nel settore dell’edilizia, in particolare si rivolse agli istituti impegnati nella ricerca dell’innovazione tecnologica.
3. Lo Standard & Poor’s Case–Shiller Home Price Indices registra i prezzi di vendita delle case in America raccogliendo dati su 10 o su 20 aree metropolitane tra le più popolose.
4. Dati e riflessioni sul tema sono contenuti nel report State of the World’s Cities che descrive come le città del futuro non saranno singole entità politiche ma si espanderanno oltre i confini geografici di regioni e nazioni. Altri riferimenti sono contenuti nel blog VOD – Value of Differences gestito dal prof. Longhi al sito www.vodblogsite.org che contiene anche un testo esplicativo del termine ‘Antropocene’ [maggio 2014].
5. a rivista Granta 92: The View from Africa e i libri di Binyavanga Wainaina, in particolare Un giorno scriverò di questo posto, edito in lingua italiana da 66thand2nd, 2013.nd, 2013.
6. Qui di seguito la definizione che il database ICE fornisce per embodied energy ed embodied carbon: “The embodied energy (carbon) of a building material can be taken as the total primary energy consumed (carbon released) over its life cycle. The would normally include (at least) extraction, manufacturing and transportation. Ideally the boundaries would be set from the extraction of raw materials (inc. flues) until the end of the products lifetime (including energy from manufacturing, transport, energy to manufacture capital equipment, heating & lighting of factory, maintenance, disposal, … etc), known as ‘cradle to grave’. It has become common practice to specify the embodied energy as ‘cradle to gate’, which includes all energy (in primary form) until the product leaves the factory gate. The final boundary condition is ‘cradle to site’, which includes all of the energy consumed until the product has reached the point of use (i.e. building site).”
7. Costituite da scarti di lavorazione oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio.
8. I dati qui riportati sono estratti dal database ICE redatto dall’Università di Bath. http://www.circularecology.com/ice-database.html [aprile 2014].
9. Su questo argomento si veda anche Barucco M. A. , Fabian L., Embodied energy du territoire et cartes énergétiques, in Énergie et Recyclage, 2014. Rapporto pre-finale, equipe coordinata da P. Viganò e composta da Università Iuav, Venezia (Paola Viganò, Bernardo Secchi, Lorenzo Fabian, Chiara Cavalieri, Maria Antonia Barucco, Emanuel Giannotti); Studio 012 (Bernardo Secchi et Paola Viganò, Marine Durand, Roberto Sega); Tribu Energie, Paris (Bernard Sesolis, Laure Jarrige, Rofia Lehtihet); SUPSI, Lugano (Davide Fornari); Università Ca’ Foscari, Venezia (Valentina Bonifacio); Programma interdisciplinare di ricerca Ignis Mutat Res Penser l’architecture, la ville et les paysages au prisme de l’énergie finanziato da Ministère de la Culture et de la Communication, Bureau de la Recherche Architecturale, Urbaine et Paysagère (Francia).
10. Le materie prime seconde (SRM, Secondary Raw Materials) sono costituite da scarti di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti.
11. La PTS è stata utilizzata da Shigeru Ban per la prima volta nel 1986 per l’allestimento di una mostra di mobili e vetri progettati da Alvar Aalto, tre anni dopo usa lo stesso modello di strutture leggere in tubi di carta all’interno di una galleria d’esposizioni dedicata ad Emilio Ambaz: ciò che rendeva la PTS la soluzione preferita da Shigeru Ban era la possibilità di smontare la e ricostruire struttura rapidamente, per seguire l’itinerario delle esposizioni.
12. Alla fine, nel 1993 i tubi di carta sono stati autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale utilizzabile anche per edifici permanenti, che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan.
13. È il tema della durabilità del materiale ad aver creato i maggiori problemi alla produzione e commercializzazione dei tubi di carta come materiale da costruzione, soprattutto in relazione a tassi di umidità variabile. Posti all’esterno i tubi di carta durano circa 10 anni o più, tuttavia come molti altri materiali da costruzione i tubi vanno in qualche modo protetti dalle intemperie e manutenuti: come capita per le costruzioni in legno, nel caso una parte della struttura venisse danneggiata questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le parti nell’architettura con facilità.
14. Questo viene chiamato Resource Management Center, sostituendo anche nella terminologia l’idea di rifiuto con quella di risorsa.
15. Ideologia nel senso originario del termine, l’analisi delle idee che, prescindendo dallo studio dell’anima, si basa sull’analisi del sistema nervoso; ideologia che, a prescindere dal sensazionalismo allarmistico della crisi ambientale, cerca di sviluppare l’analisi del sistema produttivo. Ideologia nel senso marxista del termine, come credenza filosofica, religiosa e morale caratterizzante la nostra epoca, nella quale la difesa della natura è contemporaneamente comportamento e giustificazione di un interesse. Ideologia nel senso sociologico del termine, cioè l’insieme di opinioni e supposizioni che orientano un gruppo sociale, in espansione sulle reti della comunicazione.
16. In tale contesto la tecnica è “l’applicazione dei metodi e dei procedimenti della scienza moderna alla grande industria” (Severino, 2010) grazie alla quale, se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio.

Editoriale

Di Giulia Ciliberto
In Farewell to Growth (2009), nel proporre una radicale revisione del sistema economico vigente in favore di un modello orientato alla decrescita di produzione e consumi, Serge Latouche annovera il riciclo fra i presupposti fondamentali per l’avvento di tale scenario, rimarcando la necessità di diffonderne e praticarne i principi a tutti i livelli della società. […]

In Farewell to Growth (2009), nel proporre una radicale revisione del sistema economico vigente in favore di un modello orientato alla decrescita di produzione e consumi, Serge Latouche annovera il riciclo fra i presupposti fondamentali per l’avvento di tale scenario, rimarcando la necessità di diffonderne e praticarne i principi a tutti i livelli della società. A questo proposito, lo studioso francese richiama il concetto filosofico di convivialità, che allude a un approccio democratico nell’acquisizione e trasmissione della conoscenza, per promuovere l’idea di una cultura del riciclo intesa come istanza collettiva e non come appannaggio di poche discontinue e sporadiche esperienze.

Questo, nel nostro piccolo, è anche l’obiettivo che ci prefiggiamo con Progetto Re-Cycle. Dopo un numero pilota dedicato al Veneto e alle molteplici azioni di riciclo attuabili in relazione al suo vasto patrimonio di risorse infrastrutturali dismesse, la rivista dà ufficialmente avvio alle proprie pubblicazioni presentandosi con una nuova selezione di articoli e un programma di intenti più preciso e ambizioso: quello di istituirsi come un osservatorio di ricerca sperimentale attorno alla tematica del riciclo, che sia il fulcro di una rete di persone, imprese e istituzioni propense a investire nel nostro progetto all’interno di una visione culturale ed economica di più ampia portata.

Per favorire un approccio quanto più possibile inclusivo e interdisciplinare nella divulgazione di ricerca sul tema del riciclo, negli scorsi mesi si è dato luogo alla formazione di un comitato scientifico costituito, oltre che da docenti e ricercatori universitari, anche da esponenti del panorama produttivo, manageriale e amministrativo. In parallelo, attraverso la messa a punto e la gestione del profilo Linkedin della rivista, stiamo cercando di consolidare e ampliare il network dei nostri contatti, comunicando a imprese e liberi professionisti l’opportunità di aderire al nostro progetto e interpretare il riciclo come occasione per congiungere cultura e business.

I contenuti di questo nuovo numero di Progetto Re-Cycle illustrano e argomentano in vari sensi come il riciclo, a partire dalla sua intrinseca natura di procedimento tecnico e produttivo, possa evolversi qualitativamente in un atteggiamento speculativo applicabile a più livelli. A sua volta, il criterio con cui gli articoli sono stati selezionati riflette la volontà di acquisire e interpretare il riciclo anche nel ruolo di elemento portante del progetto editoriale: in tal senso, alla pubblicazione di contributi originali e inediti fa riscontro la proposta di testi già pubblicati altrove, offrendo ai significati che essi racchiudono nuove occasioni di circolazione e visibilità.

Con questa nuova uscita di Progetto Re-Cycle intendiamo dunque porre le primissime basi su cui articolare e mettere in atto il manifesto delle idee in cui crediamo: il riciclo come strategia per estrarre nuovo valore da risorse materiali e immateriali preesistenti, ma anche come possibile veicolo per aggregare filiere produttive e culturali, organizzare repertori di saperi e competenze e, non da ultimo, individuare nuove modalità di leggere, scrivere e comunicare la realtà. Un approccio conviviale alla narrazione sul – e del – riciclo, secondo uno sguardo che osserva le potenzialità di ciò che già esiste con l’intento di rendere visibili i cambiamenti che possono avvenire.


Il recycle come opzione e come necessità

Di Ezio Micelli
Alla luce dell’attuale scenario economico, l’autore individua nella pratica del riciclo una delle principali agende della cultura architettonica del futuro, proponendo un insieme di linee guida utili a indirizzare il progetto entro condizioni favorevoli perché l’azione di riciclo possa tradursi anche in vantaggio economico, produttivo e culturale.

0. Introduzione

La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile pensare e promuovere gli interventi nelle città.

Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sosteniblità, consenso e sviluppo.

Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate quando non del tutto infondate.

Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock – di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare nella città del prossimo futuro.

1. Il new normal dell’economia e delle città italiane

L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%).

L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da parte delle amministrazioni a tutti i livelli 1Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.
– e sui mercati immobiliari delle nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori.

Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte: Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte: Ance e Banca d’Italia).

Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione.

La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012).

Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta.

Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infra- strutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più precisamente, dei “sistemi territoriali locali” (Calafati, 2009) in cui le città si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati.

2. Valore, forme, energia

La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città.

Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione.

La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012).

Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori nei confronti della trasformazione dell’esistente.

3. La selezione necessaria

Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate.

In un recente saggio (2013), Marini sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni – si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale, da quelle prive di un simile potenziale.

Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale.

Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile, perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni esito del riciclo stesso.

4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente

Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione possibile.

Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa seguito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali.

In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area.

Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi.

Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di va- lore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente.

Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella & Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente.

Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea massimizzazione di rendite e profitti.

5. Quando il recycle è l’unica opzione

Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città.

I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non proprio marginali.

In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate al Piano Casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente.

A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che è stata definita la “rottamazione” della città del dopoguerra in vista di futuri investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a “concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti” (Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento dovranno dedicarsi con rinnovato impegno.

6. Una necessaria estetica del riuso

La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evi- denti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile.

Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli interventi, costituisce un problema di non poco conto.

La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della “città dei ricchi e la città dei poveri”, esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie – in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Ciorra & Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza.

Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata.

Originariamente pubblicato in:

Marini, S., & Roselli, S. (a cura di). (2014). Re-Cycle Op.Positions I. Roma: Aracne. Disponibile presso: http://recycleitaly.net/quaderno/05-re-cycle-op-positions-i/

Bibliografia

Calafati, A. (2007). Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia. Roma: Donzelli.

Camagni, R. (marzo 2012). La città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione. Eyesreg – Giornale di Scienze Regionali, 2(2), pp. 60-63.

Catella, M., & Doninelli, L. (2013). Milano si alza. Porta nuova, un progetto per l’Italia. Milano: Feltrinelli.

Ciorra, P. (2011). Senza architettura. Le ragioni di una crisi. Bari: Laterza.

Ciorra, P., & Marini, S. (a cura di). (2012). Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta. Milano: Electa.

Coppola, A. (2012). Apocalyse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana. Bari: Laterza.

Marini, S. (2013). Post-produzioni o del problema della scelta. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland (pp. 13-17). Roma: Aracne.

Owen, D. (2009). Green Metropolis. Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys to Sustainability. New York: Riverhead Books.

Secchi, B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari: Laterza.

Viganò, P. (2012). Elements for a Theory of the City as Renwable Resource. In L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (a cura di), Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion (pp. 12-13). Pordenone 2012: Giavedoni.

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1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo”
e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”.

Futuro “chiavi in mano”

Di Vincenza Santangelo
Sostanziata dallo studio di materiali d’archivio, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa occasione per rileggere agli occhi della contemporaneità il peculiare modello organizzativo alla base di un laboratorio creativo dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Alle soglie della terza rivoluzione industriale si prefigura un futuro in cui saremo chiamati a confrontarci con la post-produzione e l’evanescenza della produzione materiale (Sassen, 2004), ereditando nuove terre con cui fare i conti (Marini, 2011). Il processo di migrazione della produzione di beni e servizi verso nuovi paradisi economici sta innescando un processo di ritrazione delle aziende dal territorio italiano (Moretti, 2013), producendo inevitabilmente degli scarti. Scarti materiali come lo svuotamento, anche di senso, degli stabilimenti delle aziende italiane: uno scenario di oltre 9.000 ettari di aree inutilizzate, che fisicamente si concretizza in un vasto ed articolato patrimonio materiale dismesso, dai nodi delle grandi piattaforme industriali alle minute costellazioni di capannoni medio-piccoli. Scarti immateriali come la dissolvenza delle competenze specifiche maturate nelle aziende nel corso dei decenni, tra cui l’attività progettuale svolta nel XX secolo – a cavallo fra gli anni Trenta e Settanta – all’interno delle grandi aziende italiane dagli Uffici Tecnici. Segmento del periodo d’oro delle imprese italiane rimasto nell’ombra, sono stati laboratori di anonimi disegnatori, capi progetto, direttori dei dipartimenti, tecnici, architetti, ingegneri, geometri che hanno esplorato contesti e situazioni differenti, ibridando i saperi e contribuendo alla trasformazione del territorio italiano e oltreconfine, disegnando luci e ombre di un’idea di mondo-azienda (Marini & Santangelo, 2014).

Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973 Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Ufficio Tecnico Dalmine, 1973. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

La ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine – sostanziata dallo studio di materiali d’archivio e dal dialogo con la Fondazione Dalmine – diventa occasione per esplorare l’attività progettuale e costruttiva di questi laboratori dove il futuro veniva immaginato, progettato e consegnato “chiavi in mano”.

Il futuro oltreoceano. Il ponte con gli Stati Uniti

Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Panoramica dello stabilimento Dalmine, illustrazione da un catalogo dell’epoca, 1910. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

A partire dalla seconda rivoluzione industriale si innesca un processo di industrializzazione in Europa e negli Stati Uniti che nel giro di pochissimi anni conduce alla creazione di grandi aziende in determinati settori come la petrolchimica, l’energia, la siderurgia, i trasporti e la grande edilizia industriale (Cariati, Cavallone, Maraini & Zamagni, 2013). Il salto di scala produttivo determina sempre più spesso l’ampliamento fisico degli spazi del lavoro dell’azienda, facendo sì che negli Stati Uniti, già verso la fine dell’800, si iniziano ad introdurre nelle principali aziende industriali degli Uffici Tecnici, interni quindi alle case madri, destinati a gestire l’ampliamento organizzativo e fisico degli stabilimenti.

Nel 1906 l’azienda tedesca Mannesmann, specializzata nella produzione di tubi in acciaio senza saldatura, fonda un nuovo stabilimento nell’area rurale bergamasca denominata Dalmine. Al sorgere dello stabilimento si affiancano ben presto le infrastrutture di base che segneranno le premesse per la fondazione e lo sviluppo di una vera e propria company town: realizzazione delle case per i dirigenti e gli operai secondo diverse tipologie residenziali; introduzione di servizi come la scuola elementare, la caserma dei carabinieri, il refettorio, il garage, gli uffici postali; introduzione di standard minimi per gli spazi verdi e le strutture igieniche, in linea con i primi esempi di città-giardino di quegli anni. Nel frattempo il conflitto mondiale e l’entrata in guerra contro la Germania segnano il definitivo distacco dell’azienda italiana dall’azienda madre tedesca, con la successiva creazione di una nuova società tutta italiana (Dalla Valentina, 2006).

Gli anni Venti rappresentano l’inizio della fase di grande espansione dell’azienda in diversi mercati: tubi per condotte, impianti termici, conduzione di gas e trivellazioni, tralicci. Ciò evidenzia l’esigenza di rinnovare sia gli stabilimenti aziendali ma anche i principi organizzativi, che cominciano ad essere obsoleti. Inizia in tal senso a manifestarsi l’interesse della Dalmine, ma anche di molte altre aziende italiane come Olivetti e Fiat, ad esplorare la cultura aziendale e tecnica oltre l’Atlantico, dove le grandi aziende nordamericane con i loro Uffici Tecnici sono assunti come modello per mettere in atto i piani di espansione e modernizzazione (Banham, 1990; Castronovo, 1977; Olivetti, 1968).

A partire dal 1926 Agostino Rocca, direttore dei laminatoi e consulente della Dalmine, si reca negli Stati Uniti per delle “missioni tecniche e viaggi” (Lussana, 1998), visitando aziende come la National Tube Company, la Pittsburgh Steel Products, la United States Steel Corporation, la Ford e la Westinghouse Electriced entrando in contatto con i relativi Uffici Tecnici, dove tutte le competenze tecniche, le varie fasi e azioni e le relazioni che vi intercorrono sono rigidamente organizzate e sorvegliate dalla figura centrale del project engineer. All’interno del settore Engineering design & drafting si lavora affinché si riesca ad ottenere un tipo di progettazione spinta al dettaglio: dal collocamento sul sito di tutte le apparecchiature necessarie ai dettagliatissimi computi metrici dell’intero materiale occorrente (Rase & Barrow, 1957), cominciando ad adottare la strategia simile al just in time. L’iter progettuale è suddiviso per specialità (processo, civili, strumenti, ispezioni, supervisione ai montaggi ecc.) e ogni progetto è coordinato da un project manager, a cui viene affidato non solo il potere decisionale, ma soprattutto la responsabilità assoluta sulla riuscita del progetto. Viene introdotta la funzione “controllo del progetto” che dal punto di vista operativo consente di verificare l’andamento e la previsione dei costi e dei tempi di esecuzione del progetto, con dettagliate analisi di valutazione dei rischi, mentre la coordination procedure organizza per ogni progetto i ruoli, le competenze, le informazioni, i disegni e le loro revisioni attraverso un articolato processo di uniformazione delle modalità di trasmissione.

Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Sandro Da Re, Scuola aziendale, anni Quaranta. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltreoceano: i viaggi di Agostino Rocca negli Stati Uniti, con l’assorbimento dei principi del taylorismo e il confronto con gli Uffici Tecnici nordamericani, diventano la molla per creare anche all’interno della Dalmine un Ufficio Tecnico con lo sguardo rivolto al modello nordamericano. I saperi, le informazioni, gli incontri di Rocca fatti durante i suoi molteplici viaggi diventano il punto di partenza per introdurre un Ufficio Tecnico che sostituisse quello ormai obsoleto e insufficiente creato alla fondazione dell’azienda stessa.

Il futuro oltre l’azienda. L’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine
Schema dell’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine

La disamina degli ordini di servizio della Dalmine e dei verbali dei Consigli degli organi dell’azienda è il punto di partenza per la ricostruzione puntuale dell’evoluzione della struttura dell’Ufficio Tecnico della Dalmine, evidenziando come nel 1926 1All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”., a partire dalla reinvenzione dell’ufficio preesistente ormai obsoleto, si avvia una sorta di smembramento in gruppi e divisioni sempre più specializzati, per fronteggiare la crescente complessità dei progetti affrontati e per ampliare il campo di intervento dell’azienda stessa. Si passa dalla struttura dell’Ufficio Tecnico destinato alla manutenzione degli impianti esistenti e alla progettazione e studio di nuove strutture, alla creazione di diversi Uffici Tecnici specializzati: l’IMA-Gruppo manutenzione ed esecuzione impianti, incentrato sulle operazioni di controllo del corretto funzionamento degli impianti esistenti e alla sorveglianza dei cantieri di quelli in costruzione; il TEI-Gruppo Tecnico Impianti, destinato a gestire l’apparato amministrativo e tecnico inerente costruzioni meccaniche, carpenterie e gru sia delle macchine che delle costruzioni edili; il PAS-Servizio Partecipazioni, Soci e Immobili che comprendeva sia la parte amministrativa degli immobili dell’impresa che la parte progettuale e di manutenzione dei medesimi immobili; il CAT-Centro Carpenteria Tubolare orientato nella sperimentazione, progettazione e realizzazione di strutture in tubolari come coperture, padiglioni espositivi, palificazioni e ponti.

Negli anni Venti l’Ufficio Tecnico è impegnato con l’esigenza di una riconfigurazione e ristrutturazione aziendale per essere competitiva a livello europeo. Ciò determina la modernizzazione dell’azienda dal punto di vista produttivo espandendosi soprattutto nel mercato dei pali elettrici e tralicci per le imprese ferroviarie, consolidando il rapporto con le Ferrovie dello Stato. Al consolidamento nel mercato si affianca anche quello dell’omonima company town che nel frattempo cominciava ad ampliarsi, affidando la progettazione delle infrastrutture, delle abitazioni destinate ai dipendenti e degli edifici pubblici all’architetto milanese Giovanni Greppi, delineando così un processo di urbanizzazione che sarà sancito con la nascita dal punto di vista amministrativo del comune di Dalmine nel 1927.

Giovanni Greppi, Quartiere operai, planimetria, Dalmine, anni Venti – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere operaio, planimetria, Dalmine, anni Venti. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Giovanni Greppi, Quartiere Leonardo da Vinci. Villa per impiegati, facciate, Dalmine 1930. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Negli anni Trenta, con l’entrata in guerra, la Dalmine sposta la produzione verso materiali bellici, facendo sì che l’Ufficio Tecnico si confronti con una committenza militare ma anche nel completamento del centro di Dalmine con piazze ed edifici pubblici, sempre su progetto di Greppi, e nella realizzazione del nuovo stabilimento ad Apuania, che comprenderà anche la realizzazione di un complesso residenziale e attività commerciali, a cui seguiranno poi gli stabilimenti di Sabbio Bergamasco, Costa Volpino e Torre Annunziata.

Alla fine degli anni Quaranta, con la conclusione del secondo conflitto mondiale e l’inizio della modernizzazione del territorio italiano, l’Ufficio Tecnico comincia a mettere a frutto le conoscenze maturate, soprattutto le innovazioni riguardanti le strutture tubolari, per affiancare lo Stato nella progettazione e realizzazione di autostrade, gasdotti, oleodotti, elettrodotti, ponti tubolari, come ad esempio l’impianto NATO di La Spezia, il terminale per l’oleodotto a Falconara Marittima e l’acquedotto per l’approvvigionamento idrico di Ischia e Procida che vince il premio ANIAI 1958.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta il boom del settore petrolifero porta l’Ufficio Tecnico a confrontarsi con dei progetti oltre i confini nazionali, in quelli che all’epoca venivano definiti paesi emergenti, come la piattaforma di attracco delle petroliere nel Mar Rosso e la raffineria del Canale di Suez, che si configuravano come piccole isole artificiali di acciaio al largo delle coste totalmente autosufficienti, dotate di ogni comfort per gli addetti e collegate alla terraferma attraverso tubazioni sottomarine.

Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma dell’IMA-Gruppo Manutenzione ed Esecuzione Impianti, 1951
Ricostruzione dell’organigramma del CAT-Centro Carpenteria Tubolare, 1958
Ricostruzione dell’organigramma del CAT- Centro Carpenteria Tubolare, 1958

Negli anni Sessanta esplode il boom economico e vengono introdotti i Piani Casa. Si concretizzano degli accordi con l’InaCasa che portano all’acquisto di alcuni lotti di case a Milano, a cui seguiranno investimenti per case popolari a Bergamo e nei comuni limitrofi a Dalmine, e la partecipazione al programma Gestione Case Lavoratori per la realizzazione di abitazioni a Milano e Roma (Lussana, 2014).

Publifoto, Fiera campionaria. Stand Dalmine, Milano 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Publifoto, Fiera campionaria, stand Dalmine, Milano 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Brevetto per invenzione industriale della Dalmine, 1967. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro è oltre i confini dell’azienda: l’evoluzione dell’Ufficio Tecnico Dalmine dagli anni Venti agli anni Sessanta diventa cartina al tornasole della sfida di andare sempre oltre, di affrontare progetti sempre più complessi e di coinvolgere ed integrare competenze sempre più diversificate. L’azienda non è più solo il luogo fisico della produzione materiale, ma dove alle competenze progettuali si affianca una forte visione d’insieme dell’economia e della società. L’articolazione dettagliata e specializzata dell’Ufficio Tecnico consente alla Dalmine di valicare i “perimetri” aziendali, avviando e consolidando un esteso processo di progettazione degli spazi del lavoro e delle relative infrastrutture di servizio, ma anche di modernizzazione del territorio, configurando la Dalmine come dispositivo di progetto e strutturazione di paesaggi nazionali e internazionali.

Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962 – Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa
Fiera Campionaria di Milano, stand Dalmine, 1962. Archivio Fondazione Dalmine © Dalmine Spa

Il futuro oltre la crisi. La Fondazione Dalmine

A partire dagli anni Settanta il ciclo degli Uffici Tecnici inizia un graduale esaurimento con l’affermarsi della società post-industriale e l’affiorante obsolescenza della piattaforma industriale italiana. Nel caso della Dalmine, l’acquisizione di nuovi stabilimenti da altre imprese pubbliche porta all’esaurimento del ruolo dell’Ufficio Tecnico nelle sue diverse declinazioni implicando una dismissione del sapere tecnico accumulato nei decenni precedenti. Si dissolve la capacità di prefigurazione del mondo, vengono a mancare visioni di futuro per i territori ed il ruolo del lavoro come elemento fondativo della città e dello spazio, l’anonimato cede il passo al protagonismo degli imprenditori, si affievolisce il dialogo fra pubblico e privato nel disegno dello spazio. Si dismette l’impegno progettuale delle aziende sul territorio e nel disegno degli spazi del lavoro, per cedere il passo a società di ingegneria con orientamenti fortemente tecnicisti e finanziari, ma spesso aride di nuove visioni di futuro. Nel quadro complessivo della delicata congiuntura di crisi economica e di dislocazione della produzione verso i paesi emergenti, si intravede tuttavia dei primi germi del progressivo innesco di un ciclo di inversione della delocalizzazione del Made in Italy e di ritorno al territorio italiano in termini di investimenti, per riconquistare e riconfigurare la sua piattaforma industriale (Bertagna, Gastaldi & Marini, 2012), puntando sulla nuova generazione di lavoratori e sul passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza (Florida, 2003).

La Dalmine, attraverso la creazione dell’omonima Fondazione, prova a reinventare l’azienda come luogo di formazione, insegnamento, rilancio. La sua storia e i suoi saperi maturati nel corso dei decenni, testimoniati dai ricchi materiali d’archivio in fase di sistematizzazione e valorizzazione, sono l’eredità culturale da cui partire.

Il futuro è oltre la crisi: in un momento in cui si riciclano materiali, ma anche idee, la ricostruzione della vicenda dell’Ufficio Tecnico Dalmine diventa cartina al tornasole per leggere la trasformazione fisica e strutturale delle aziende nel territorio italiano, ma anche le possibili future traiettorie progettuali degli spazi del lavoro. Una vicenda entro cui rintracciare le mo­dalità di strutturazione di un laboratorio culturale ed architettonico per ripensare l’impegno progettuale delle aziende sul territorio italiano, il ruolo dell’architettura nel disegno degli spazi del lavoro, sviluppare riflessioni sul modello industriale di progetto dei territori, ritornare ad un possibile futuro “chiavi in mano” che consenta di andare oltre la crisi, il tecnicismo imperante, la dismissione materiale e immateriale, recuperandone i fattori competitivi e riaffermando l’azienda che torna a progettare il territorio, superando l’attuale scollamento e mettendo in gioco nuovi cicli che vanno oltre l’evanescenza della produzione.

Questo contributo prende le mosse dalla ricerca “Dalla Fabbrica al mondo. Gli Uffici Tecnici delle grandi aziende italiane” svolta all’interno dell’Assegno di Ricerca di Ateneo coordinato dalla Prof.ssa Sara Marini, Dipartimento di Culture del Progetto, Università IUAV di Venezia, Gennaio 2013 – Gennaio 2014.

Bibliografia

Banham, R. (1990). L’Atlantide di cemento. Edifici industriali americani e architettura moderna europea 1900-1925. Roma: Laterza.

Bertagna, A., Gastaldi, F., Marini, S. (a cura di). (2012). L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto. Macerata: Quodlibet.

Cariati, V., Cavallone, S., Maraini, E., & Zamagni, V. (a cura di). (2013). Storia delle società italiane di ingegneria e impiantistica. Bologna: Il Mulino.

Castronovo, V. (1977). Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945. Torino: Einuadi.

Della Valentina, G. (2006). Dalmine: un profilo storico. In F. Amatori, S. Licini (a cura di), Dalmine: 1906-2006. Un secolo di industria (pp. 31-80). Dalmine: Fondazione Dalmine.

Florida, R. (2003). L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni. Milano: Mondadori.

Lussana, C. (giugno 1998) Misure di razionalizzazione nella Dalmine degli anni Trenta. Sistemi & Impresa, 5.

Lussana, C. (2014) Fonti e spunti di ricerca dall’archivio della Fondazione Dalmine. In S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Gli Uffici Tecnici delle granzi aziende italiane. Progetti di esportazione di un fare collettivo (pp. 83-114). Padova: Il Poligrafo.

Marini, S. & Santangelo, V. (a cura di). (2014). Gli Uffici Tecnici delle granzi aziende italiane. Progetti di esportazione di un fare collettivo. Padova: Il Poligrafo.

Marini, S. (2011). Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto. Macerata: Quodlibet Studio.

Moretti, E. (2013). La nuova geografia del lavoro. Milano: Mondadori.

Olivetti, C. (1968). Lettere americane. Milano: Edizioni Comunità.

Rase, H.F., Barrow, M.H. (1957). Project Engineering of Process Plant. New York: John Wiley & Sons Inc.

Sassen, S. (2004). La città nell’economia globale. Bologna: Il Mulino.

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1. All’interno del Verbale del Consiglio dell’8 novembre 1926 si legge come punto all’ordine del giorno: “Creazione di un nuovo Ufficio Tecnico per assoluta insufficienza di quello attuale”.

Recycle. La sfida nel settore delle costruzioni

A cura dell’Osservatorio Recycle di Legambiente
Il contributo riproduce integralmente il primo rapporto pubblicato dall’osservatorio Recycle – La sfida nel settore delle costruzioni, organismo istituito nel 2015 da Legambiente con l’intento di approfondire e promuovere la ricerca attualmente in corso nel campo della lavorazione e dell’implementazione di materiali riciclati.

L’Italia ha la possibilità di aprire una nuova pagina nel settore delle costruzioni, che riguarda in particolare gli impatti che produce nei territori. Ridurre il prelievo di materiali e l’impatto delle cave nei confronti del paesaggio è una questione importante nel nostro Paese, perché sono tante le ferite gravissime ancora aperte nei territori. Oggi è possibile dare risposta a questi problemi: lo dimostrano i tanti Paesi dove ormai da anni si sta riducendo la quantità di materiali estratti con una forte spinta al riutilizzo di rifiuti aggregati e inerti provenienti dal recupero, oltre che con regole di tutela del paesaggio e gestione delle attività. In Italia esistono oggi circa 2.500 cave da inerti, e almeno altre 15.000 abbandonate, di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia. Cambiare questa situazione, aprendo un filone di green economy che produca ricerca, innovazione e posti di lavoro, è nell’interesse del sistema delle imprese e dell’ambiente.

L’obiettivo dell’Osservatorio Recycle, promosso da Legambiente, è di raccontare e approfondire l’innovazione già in corso nel settore della produzione di aggregati riciclati. Un processo che oggi è spinto anche dalla Direttiva 2008/98/CE che prevede che nel 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione. Un punto va sottolineato con attenzione: oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici per non utilizzare materiali provenienti da riciclo nelle costruzioni. Le esperienze raccontate in questo Rapporto descrivono cantieri e capitolati dove queste innovazioni sono già state portate avanti. E dimostrano come, se si fa riferimento a norme codificate basate sulle prestazioni, i materiali da riciclo e recupero di aggregati risultino assolutamente competitivi sul piano sia tecnico che economico.

Dov’è il problema?

Se in teoria oggi non esistono impedimenti tecnici o motivazioni di natura normativa che ne impedirebbero l’utilizzo, in realtà la diffusione di materiali provenienti dal recupero ha di fronte forti ostacoli in Italia.

Il primo problema riguarda i cantieri dei lavori pubblici e privati, dove spesso i capitolati sono una barriera insormontabile per gli aggregati riciclati. In molti capitolati è previsto l’obbligo di utilizzo di alcune categorie di materiali e di fatto ne è impedita l’applicazione per quelli provenienti dal riciclo. Per fare chiarezza su questa situazione, nel Rapporto sono descritti alcuni esempi pratici che dimostrano l’efficacia degli aggregati riciclati e degli asfalti derivati dal riutilizzo di pneumatici usati. Tra i lavori stradali e quelli edilizi è chiaro come ormai si possa intervenire con l’utilizzo di questi materiali in situazioni molto diverse fra loro (dal Palaghiaccio di Torino al nuovo Molo del Porto di La Spezia, dal Passante di Mestre all’Aeroporto di Malpensa). La Provincia di Trento è uno dei migliori esempi in Italia vista la pubblicazione di un capitolato tecnico per l’uso dei riciclati nei lavori di manutenzione pubblica, con le schede prodotto e l’elenco prezzi, destinato proprio a promuovere tra gli addetti ai lavori questo tipo di materiali. Per cambiare questa prospettiva serve che le stazioni appaltanti, pubbliche e private, e a tutti i livelli cambino i propri capitolati per impedire queste discriminazioni. In questa direzione vanno le proposte che abbiamo presentato con il capitolato speciale d’appalto Recycle, elaborato da Legambiente in collaborazione con Atecap, Eco.Men ed Ecopneus, che si pone l’obiettivo di stimolare le stazioni appaltanti a intraprendere la strada già fissata dall’Europa. L’obiettivo è di contribuire attraverso questo strumento a “calarsi” nei diversi capitolati esistenti (sono centinaia, e impossibili da sostituire con un capitolato unico) per introdurre i corretti e aggiornati riferimenti normativi che permettono di superare le barriere e le discriminazioni oggi esistenti. I capitolati rappresentano uno snodo fondamentale per fare chiarezza in particolare nell’utilizzo, nelle garanzie e nelle prestazioni degli aggregati riciclati e superare quella diffidenza da parte dei direttori dei lavori legata alla paura delle responsabilità amministrative e penali derivanti da un eventuale uso improprio dei materiali.

Il secondo problema riguarda lo scenario che la Direttiva 2008/98/CE dovrebbe aprire nel nostro Paese. Perché questo processo vada avanti servono infatti riferimenti chiari per accompagnare la crescita nell’uso dei materiali fino al target del 70% previsto al 2020. La Direttiva indica con chiarezza la necessità di accompagnare attraverso specifici provvedimenti questi processi e sono previsti decreti attuativi dallo stesso Decreto Legislativo 205/2010 che l’ha recepita nel nostro ordinamento. L’articolo 11 della Direttiva prevede che si adottino “criteri in materia di appalti” per favorire il riutilizzo. Il DL di recepimento prevede che questi criteri siano definiti attraverso Decreti Attuativi approvati dai Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico (Art. 6 del Dlgs 205/2010). Inoltre la Direttiva prevede all’articolo 29 che gli Stati possano stabilire dei propri traguardi intermedi, proprio per monitorare lo sviluppo della situazione al 2020.

Il rischio che non dobbiamo correre è che l’applicazione di questa direttiva risulti un’occasione sprecata, come avvenuto con l’applicazione del DM 203/2003 che già prevedeva per le società a prevalente capitale pubblico di coprire con il 30% del fabbisogno di manufatti e beni attraverso materiali riciclati. Come raccontano le risposte avute da alcune grandi stazioni appaltanti che si trova in fondo a questo rapporto, è diffusa la non applicazione di questi obiettivi per mancanza di corrette informazioni sui prodotti riciclati, per pigrizia o per interessi stratificati nel tempo intorno alla gestione dei materiali di cava e alla gestione di cantieri dove si fa largo uso di acqua, prodotti petroliferi. Per questo serve che il Governo intervenga per dare forza a questo percorso di cambiamento.

I vantaggi che questo tipo di prospettiva aprirebbe sono infatti rilevanti. In primo luogo in termini di lavoro e attività imprenditoriali, perché le esperienze europee dimostrano che aumentano sia l’occupazione che il numero delle imprese attraverso la nascita di filiere specializzate. In secondo luogo, nella riduzione del prelievo da cava. Perché arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che permetterebbero di chiudere almeno 100 cave di sabbia e ghiaia per un anno. Infine, da un punto di vista della riduzione di emissioni di gas serra. Perché aumentando la quantità di pneumatici fuori uso recuperati e utilizzati fino a raddoppiarla al 2020, diventerebbe possibile riasfaltare 26.000 km di strade. Il risparmio energetico ottenuto, considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio, sarebbe di oltre 400.000 MWh. Ossia il consumo in più di due anni di una città come Reggio Emilia, con un taglio alle emissioni di CO2 pari a 225.000 tonnellate.

Le scelte per spingere la green economy nel settore delle costruzioni

1. Cambiare i capitolati fissando obiettivi prestazionali.

Da Anas alle concessionarie autostradali, da RFI a Terna, fino alle stazioni appaltanti comunali, occorre che siano rivisti tutti i capitolati che ancora fissano barriere per l’utilizzo di materiali riciclati. I capitolati rappresentano infatti uno snodo fondamentale per fare chiarezza nell’utilizzo, nelle garanzie e nelle prestazioni degli aggregati riciclati e per superare la diffidenza da parte dei direttori dei lavori legata alla paura delle responsabilità amministrative e penali derivanti da un eventuale uso improprio dei materiali.

La responsabilità è in capo alle Stazioni appaltanti ma anche ai Ministeri delle Infrastrutture e dell’Ambiente perché siano introdotti quei chiarimenti previsti dalle Direttive europee.

2. Attuare la Direttiva Europea introducendo obblighi crescenti di utilizzo di aggregati riciclati

I Ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture devono dare seguito a quanto previsto dalle Direttive europee, in termini di chiarimenti normativi e di obblighi crescenti nei capitolati di utilizzo degli aggregati/materiali di recupero minimo e crescente fino al 70% già previsto al 2020. In questo modo si possono costruire le condizioni per raggiungere gli obiettivi europei prefissati. Questo obiettivo deve interessare non solamente gli Enti pubblici e le società a prevalente capitale pubblico, come previsto attualmente per il solo 30% dei materiali, dal Decreto Ministero dell’Ambiente 203/2003, ma tutte le opere senza distinzione. Inoltre nei bandi di gara si deve prevedere che a parità di altre condizioni debba preferirsi l’offerta che proponga la più alta percentuale di impiego dei materiali riciclati o comunque non di origine naturale.

A dimostrare come questo cambiamento sia possibile, lo dimostra l’esempio della Provincia di Trento. La Legge Provinciale n. 10 del 2004 ha introdotto l’obbligatorietà di acquistare prodotti in materiale riciclato per almeno il 30% del fabbisogno. I requisiti ambientali chiesti alle imprese sono stati poi definiti dalle norme tecniche e ambientali per gli aggregati riciclati (D.G.P. 1333/2011) ed hanno interessato tutte le fasi (programmazione e progettazione, realizzazione e manutenzione) con la stessa Provincia di Trento che in qualità di soggetto acquirente dà ormai costantemente il suo contributo allo sviluppo del mercato degli aggregati riciclati.

Il cambiamento di cui abbiamo bisogno è infatti innanzi tutto culturale, riguarda progettisti, imprese, enti pubblici. Per questo ha bisogno di una chiara visione del futuro, come quello disegnato dall’Europa, e poi di una attenta azione di informazione e di formazione, oltre che di riferimenti operativi in grado di fornire indicazioni chiare e precise sulle caratteristiche che i materiali di recupero devono avere per essere utilizzati nell’ambito delle costruzioni. In tale contesto ben si inserisce l’esempio che la Regione Veneto ha dato con propria deliberazione n. 1060 del 24/06/2014; delibera che, per ogni materiale recuperato ai sensi del D.M. 5/2/98 ed utilizzabile nel settore delle costruzioni, ha definito per ogni possibile impiego previsto dal DM tutti i puntuali riferimenti normativi UNI-EN applicabili.

Abbiamo davvero la possibilità di far crescere una moderna filiera delle costruzioni in cui siano le stesse imprese edili a gestire il processo di demolizione selettiva degli inerti provenienti dalle costruzioni in modo da riciclarli invece che conferirli in discarica. Governo e Regioni devono aiutare questo processo con leggi che obblighino a utilizzare una quota di inerti provenienti dal recupero in tutti gli appalti pubblici. Le quantità più rilevanti di materiali estratti ogni anno in Italia sono utilizzate per l’edilizia e le infrastrutture, oltre il 62,5% di quanto viene cavato sono inerti, principalmente ghiaia e sabbia. Serve una spinta rapida se si considera che ogni anno vengono prodotte quasi 40 milioni di tonnellate di rifiuti inerti e che la capacità di recupero sfiora a mala pena il 10%, anche se con differenze significative tra Regione e Regione. L’Italia, attraverso queste scelte, può recuperare il ritardo nei confronti degli altri Stati europei che già da tempo hanno introdotto politiche di riciclo che coinvolgono questa particolare categoria di rifiuti: l’Olanda con il 90% dei materiali recuperati è la nazione più virtuosa, seguita da Belgio (87%) e Germania (86,3%). Esistono tra l’altro esempi importanti e positivi anche nel nostro Paese come dimostra ciò che avviene in Veneto, dove si producono in media oltre 5.500.000 di tonnellate all’anno di rifiuti da C&D, di cui più dell’ 80% vengono avviati a recupero e utilizzato anche in infrastrutture stradali.

Le buone pratiche

1. Asfalti in Val Venosta (BZ)

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In Italia, in 27 Province ci sono già circa 250 km di strade con asfalti con gomma riciclata, una tecnologia che ha il suo punto di forza nel dimezzamento del rumore del traffico al quale vanno aggiunte una vita media tre volte superiore agli asfalti “tradizionali” e la maggiore resistenza a crepe e fessurazioni, con una minore necessità di interventi di manutenzione. Questo si traduce in meno cantieri per la città e meno costi per la Pubblica Amministrazione, avendo al contempo una pavimentazione di ottimo livello e ambientalmente sostenibile. In particolare sono particolarmente positivi i risultati del monitoraggio effettuato sul tratto stradale in Val Venosta, tra Coldrano e Vezzano, realizzato con asfalti modificati con gomma riciclata da Pneumatici Fuori Uso (PFU). L’asfalto prodotto con polverino di gomma è risultato in grado di ridurre il rumore causato dal rotolamento degli pneumatici fino a 5 db. La riduzione del rumore rende inoltre questi asfalti una valida alternativa all’utilizzo delle barriere acustiche su strade ad alta percorrenza. Anche il rapporto tra i costi di realizzazione e manutenzione delle barriere sonore e la posa di asfalti “modificati” è favorevole a quest’ultima soluzione.

2. Circonvallazione di Venaria e Borgaro (TO)

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Anche in Provincia di Torino è stato sperimentato l’utilizzo del polverino di gomma per la realizzazione del manto stradale, in particolare per la pavimentazione della strada Borgaro – Venaria. Nell’ambito dei lavori per la realizzazione della circonvallazione di Venaria e Borgaro è stato asfaltato un tratto di 1.200 m con conglomerato bituminoso contenente polverino di gomma da pneumatici fuori uso. Si tratta della più grande opera pubblica che la Provincia di Torino abbia mai realizzato. La superficie coperta è di circa 16.000 m2. Per ricoprire con il conglomerato bituminoso 1 km di strada si utilizza (miscelandolo con altri materiali) il polverino proveniente dal riciclo della gomma di 2.000 pneumatici di autovetture (o di 1.400 pneumatici di autocarri).

3. Passante di Mestre (VE)

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Una delle infrastrutture più importanti realizzate dal recupero di rifiuti di lavorazioni industriali e di materiali da demolizione e costruzione è il Passante di Mestre. L’utilizzo di Econcrete ha garantito un risparmio di materiale naturale del 71%, una riduzione delle deformazioni del materiale sottoposto a sollecitazioni veicolari variabile dal 10 al 37%, un aumento della vita utile della strada pari a 88% e un sensibile abbattimento dei costi complessivi dell’opera. I dati che riguardano il Passante di Mestre parlano chiaro: il calcolo del volume del materiale da cava risparmiato è di circa 320.000 m3, corrispondente alla produzione annuale di una cava di medie dimensioni. Ad affiancarsi a questo già enorme beneficio ambientale ci sono i viaggi di camion per il trasporto del materiale che sono stati quindi evitati, circa 40.000, come se per un intero giorno non circolasse nel Passante di Mestre alcun mezzo e di conseguenza un deciso risparmio di emissioni di CO2 ottenuto dalla minor quantità di energia elettrica per l’estrazione e la lavorazione di materiale inerte, dal minor utilizzo di conglomerato bituminoso e dal minor numero di viaggi di trasporto effettuati, e che corrisponde a circa 11.400 tonnellate di CO2.

4. Variante di Canali (RE)

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Il progetto nasce con lo scopo di deviare parte del traffico dalla cintura urbana, verso l’imbocco della A1. A seguito di una prima stesura del progetto con criteri tradizionali, è stata realizzata una variante progettuale tesa a ridurre l’impatto ambientale non solo relativamente alla scelta del tracciato ed alla sua integrazione nel contesto, ma anche nella scelta di materiali e tecnologie che riducessero significativamente il ricorso a cave di prestito, legante a caldo e  tecnologie a freddo adottando modalità costruttive e processi operativi sostenibili. Si tratta della costruzione di un semi-anello di 3 km di sviluppo per una sezione trasversale media di 10,5 m per una superficie di 31.500 m2 in totale. Il progetto originale prevedeva conglomerati a caldo per uno spessore medio di 25 cm con una richiesta di inerti vergini per oltre 18mila tonnellate. Grazie alla variante di progetto il materiale vergine necessario è stato di 5.071 tonnellate, con un risparmio di oltre 13.000 tonnellate. La base bitumata è stata realizzata con inerti interamente di riciclo (fresato stradale) legati a freddo con emulsioni bituminose per riciclaggio alla temperatura di 60-70°C senza emissione di fumi e realizzazione in situ. Inoltre il risparmio energetico nella fase di realizzazione è stato quantificato in 40.839 kWh grazie alla variante adottata in termini di riduzione degli spessori, lavorazioni a freddo, minori trasporti. Di conseguenza anche la CO2 non emessa è stata notevole: 23.687 kg. A questi dati vanno aggiunti
quelli del risparmio
energetico e della CO2
 evitata grazie all’aumento della 
vita utile previsto, e valutati 
rispettivamente in 28.620 kWh e 16.600 kg
. A 6 anni dall’entrata in esercizio della pavimentazione non sono presenti deformazioni di sagoma, né interventi manutentivi di alcun tipo. Inoltre la minore emissione di rumore da rotolamento è quantificabile in 2 db rispetto ad una pavimentazione realizzata nello stesso periodo e presa a riferimento. Anche gli spazi di frenata necessari risultano inferiori di circa il 20% rispetto alla pavimentazione di riferimento.

5. Merano (BZ)

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A Merano sono stati realizzati numerosi lavori di riqualificazione della pavimentazione stradale esistente nell’ambito dei piani di risanamento acustico della Provincia per un totale di 30.000 metri quadrati. L’impatto della rumorosità da traffico sull’ambiente e le abitazioni circostanti era rilevante, ed in alcuni casi si sono rilevati livelli di incidenza del rumore superiori ai minimi di legge anche nelle ore notturne. L’intervento è stato scelto dalla Provincia di Bolzano, in alternativa alle previste barriere anti- rumore di 3 m di altezza rivelatesi troppo costose, impattanti sull’ambiente circostante e fonte di potenziale pericolosità considerata la presenza di incroci a raso sui quali avrebbero limitato la visibilità. Il costo delle barriere acustiche (per una vita utile prevista in 30 anni) era di 60 euro/anno mentre il costo della pavimentazione Asphalt Rubber di tipo GAP nei 30 anni presi a riferimento, considerato il rifacimento ogni 5 anni per garantire nel periodo in esame l’abbattimento del rumore generato dal traffico veicolare di almeno 3 db rispetto ad una pavimentazione tradizionale, è di 35 euro/anno. Si tratta di un risparmio di 125.000 euro. La pavimentazione allo stato attuale non presenta deformazioni né interventi manutentivi.

6. Autostrada dei Parchi (A24 Roma – Teramo)

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Nel caso della A24 i lavori hanno previsto una pavimentazione sperimentale per testare le prestazioni fisico-meccaniche, di emissione di rumore da rotolamento generato dal traffico e la riduzione degli spazi di frenata, in ambito autostradale. La superficie complessiva interessata è stata di 47mila metri quadrati con un conglomerato di tipo OPEN (semi drenante e fonoassorbente). L’esecuzione dei due tratti sperimentali ha confermato le caratteristiche proprie di questo tipo di pavimentazioni, assicurando un abbattimento del rumore da rotolamento di oltre 3 db e la riduzione degli spazi di arresto anche in condizioni di bagnato di circa il 25% rispetto ad una pavimentazione tradizionale coeva. Allo stato attuale la pavimentazione non presenta difettosità di sagoma né ha richiesto interventi manutentivi.

7. Autostrada del Brennero (A22 Modena – Passo del Brennero)

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L’intervento effettuato nei pressi di Rolo (RE) ha riguardato circa 8.000 m2. La tecnologia impiegata in questo caso è DRY, con un conglomerato di granulometria 0/14 mm., realizzato con bitume modificato con polimeri SBS e additivi per la riduzione delle temperature di produzione e stesa, non superiori a 165 °C e 150 °C rispettivamente ed aggiunta di polverino di gomma da PFU di granulometria 0/4 dmm a fine processo di muscolazione. La pavimentazione sperimentale a bassa temperatura ha dimostrato di mantenere le caratteristiche tipiche di capacità drenante associando a queste ultime una buona riduzione del rumore generato dal rotolamento da traffico veicolare (-2db rispetto ad una pavimentazione tradizionale coeva) ed una riduzione degli spazi di arresto stimata del 25%. La posa del conglomerato è avvenuta a temperatura non superiore a 150 °C con effetti benefici in ordine alla ridotta emissione di fumi ed emissioni di cattivi odori tipiche di soluzioni di applicazione a temperature standard (superiori di 30/40 °C). Allo stato attuale la pavimentazione non presenta difettosità di sagoma né ha richiesto interventi manutentivi.

8. Interporto di Fiumicino (RM)

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Un’altra infrastruttura di notevole estensione e che ha visto l’utilizzo di materiali riciclati è la Piattaforma logistica dell’interporto di Fiumicino. Nel 2009 infatti sono stati realizzati i capannoni, le strade e le aree di sosta per un totale di 330.000 m2 di superficie con l’ impiego di aggregati riciclati per 50.000 m3.

9. Aeroporto Malpensa (MI)

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Simile realizzazione è quella del completamento e dell’ampliamento delle vie di rullaggio e dei piazzali di sosta dell’Aeroporto di Malpensa, che ha visto un impiego addirittura di 120.000 m3 di aggregati riciclati.

10. Ampliamento Molo Garibaldi (Porto di La Spezia)

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Uno degli utilizzi di aggregati riciclati in campo portuale riguarda i riempimenti a mare , come nel caso dell’ampliamento del molo nel Porto di La Spezia. Essendo reperibili in zona aggregati C&D è stata considerata nello specifico tale opzione tenuto conto sia della difficoltà di reperire inerti naturali che del volume di materiale da porre in opera, di oltre 130.000 m3. L’abbinamento della tecnica della vibroflottazione (una tecnica di miglioramento delle caratteristiche geotecniche del terreno di fondazione, che consiste nell’addensamento del terreno stesso, sia esso di tipo granulare che coesivo, con conseguente riduzione dell’indice dei vuoti, e miglioramento della sua resistenza al taglio) con l’impiego di materiale proveniente da attività di demolizione e l’entità del volume di riempimento trattato inseriscono l’intervento in oggetto nel novero delle applicazioni più significative di compattazione profonda realizzate recentemente in Italia.

11. Palaghiaccio di Torino

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Anche il Palaghiaccio di Torino, opera costruita nell’ambito delle realizzazioni olimpiche per Torino 2006, rappresenta un interessante esempio di applicazione di materiali riciclati. In particolare l’aggregato riciclato è stato utilizzato per la realizzazione di tutto il sottofondo sia interno che esterno alla struttura. L’opera ha visto l’impiego di 20.000 m3 di aggregati riciclati.

Le normative e i bandi

1. Legge Regione Toscana – Obbligo di utilizzo del 15% di aggregati riciclati gia’ nel 1998

Azione fondamentale è quella legata al cambiare le norme vigenti andando verso un sistema di obbligatorietà dell’uso di materiali riciclati. La Regione Toscana già nel 1998 fece suo un provvedimento destinato a favorire l’uso di materiali recuperabili per la realizzazione di opere pubbliche di interesse pubblico, finanziate dalla Regione. La Legge ha previsto che nel caso di opere realizzate dalla Regione o da enti da essa dipendenti, i bandi di gara devono prescrivere obbligatoriamente l’impiego di una percentuale minima di materiali, stabilita nel 15%, provenienti da recupero/riciclo di rifiuti e stabiliscono un sistema di incentivi che premino l’utilizzo di una percentuale superiore a quella minima suddetta.

2. Legge Provincia Trento – Acquisti pubblici verdi anche sui materiali inerti (30%)

Altra realtà che pone da tempo attenzione a questo tema è la Provincia Autonoma di Trento dove è stato implementato un capitolato tecnico per l’uso dei riciclati nei lavori di manutenzione pubblica, con le schede prodotto e l’elenco prezzi, il Piano di smaltimento dei rifiuti inerti, nel quale è stata data priorità al riciclo e recupero, e le linee guida per il corretto trattamento e recupero di tali rifiuti. Tutti questi documenti sono stati elaborati considerando l’intera filiera del riciclo, dai produttori agli utilizzatori. La Provincia ha inoltre reso obbligatori con una delibera del 2010 gli acquisti verdi includendo appunto anche gli aggregati riciclati, per almeno il 30% del totale. Tutto ciò in una visione ispirata agli orientamenti comunitari ed a ciò che le Direttive Europee già richiedono.

3. Legge Provincia Lecce – Obblico di riciclo al 70% degli inerti stradali

La Giunta Provinciale di Lecce ha dato indirizzo agli uffici tecnici di prevedere il recupero e il riutilizzo del materiale inerte dalla demolizione di sovrastrutture stradali, superando così i livelli italiani per mettersi al passo dell’Europa. È infatti noto che l’inerte presente all’interno dei conglomerati bituminosi di cui sono piene le strade provinciali, essendo totalmente privo di catrame, ha caratteristiche tali da consentire il re- impiego nella formazione di miscele di aggregati destinati ad essere nuovamente utilizzati nel settore. Questa pratica comporterà un notevole risparmio nell’attività della estrazione dei materiali dalle cave e un immediato risparmio ambientale, oltre che un miglioramento della stessa qualità del nostro territorio, risparmiato da continue estrazioni. L’ente, già da qualche tempo, aveva avviato la sperimentazione di alcuni appalti che hanno seguito questa logica, prevedendo il riutilizzo degli inerti per percentuali sempre più alte, come nel caso della strada Nardò–Avetrana, ma ora si muoverà in questa direzione uniformemente, per tutti i suoi progetti e cantieri.

4. Capitolato Provincia Pisa – Canale scolmatore dell’Arno

Un esempio importante di come un Capitolato Speciale d’Appalto possa incentivare e supportare il mercato del riciclo dei materiali da costruzione è quello della Provincia di Pisa realizzato per l’adeguamento idraulico del canale scolmatore dell’Arno. I lavori (che dovranno concludersi nel 2016) riguardano la costruzione di due moli foranei, aggettanti verso mare per circa 550 metri, che costituiranno la “foce armata” del Canale Scolmatore necessaria a prevenire i fenomeni di insabbiamento dello sbocco a mare che in passato ne hanno limitato l’efficienza idraulica. L’area d’intervento è ubicata in corrispondenza dello sbocco a mare del Canale Scomaltore d’Arno che costituisce il naturale confine tra i Comuni di Pisa e Livorno. All’interno del CSA si richiama, e se ne fa obbligo di attuazione, il decreto del ministero dell’ambiente 8 maggio 2003, n. 203 che prevede l’utilizzo di almeno il 30% di materiali riciclati.

5. Capitolato Genova – Strada locale (via San Biagio)

Stessa situazione si presenta nel caso del Capitolato Speciale d’Appalto per l’adeguamento di via San Biagio a Genova. Vengono infatti richiamate le disposizioni del D.M. 8 maggio 2003, n. 203 per coprire il fabbisogno di materiali con una misura non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo tramite aggregati riciclati. Inoltre per quest’opera vengono anche richiamati gli obblighi previsti dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 per il recupero e riutilizzo delle terre e rocce da scavo (sostituito poi dal D.Lgs. 205/2010).

6. Capitolato Odolo (BS) – Riqualificazione ambientale torrente Vrenda

Ancora un altro esempio viene dal CSA del Comune di Odolo, provincia di Brescia, per la riqualificazione ambientale del Torrente Vrenda. Qui viene specificato che i materiali occorrenti per la costruzione delle opere devono risultare in ottemperanza al D.M. 203/2003 dove appunto si prescrive l’utilizzo di materiali riciclati nella misura complessiva del 30% del fabbisogno dell’opera da realizzare.

7. Capitolato S. Giovanni in Fiore (CS) – Due fabbricati di edilizia residenziale pubblica

Infine interessante anche il caso del CSA di San Giovanni in Fiore, dove le opere in oggetto riguardano due fabbricati di edilizia residenziale popolare, la realizzazione di garage, la sistemazione del verde pubblico e la ristrutturazione del Centro Anziani Comunale. Anche qui viene richiamato l’obbligo del 30% di aggregati riciclati presente nel D.M. 8 maggio 2003, n. 203, e le norme riguardanti le terre e rocce da scavo contenute nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e sostituito dal D.Lgs. n. 205/2010. Vengono inoltre stabiliti i limiti di impiego degli aggregati grossi provenienti da riciclo a seconda dell’origine degli stessi. Per le demolizioni di edifici (macerie) fino al 100%, per le demolizioni di solo calcestruzzo e calcestruzzo armato di classe C30/37 minore del 30%, per quelli di classe C20/25 fino al 60%.

8. Roma capitale – Riempimento di buche con aggregati riciclati

Un esempio su come aiutare il settore degli inerti riciclati viene dalla decisione, presa nel Dicembre 2014, dell’Amministrazione Comunale e dell’Assessorato ai Lavori Pubblici di Roma Capitale di indire due gare per il riempimento delle buche delle strade con l’utilizzo esclusivo di prodotti provenienti dal riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione in sostituzione dei materiali inerti ottenuti da attività estrattive. Per gli interventi verrà impiegata una miscela cementizia a bassa resistenza confezionata con prodotti inerti riciclati; secondo uno studio elaborato dall’Università Sapienza di Roma l’uso di tale miscela cementizia consentirà al Comune un risparmio economico superiore al 20% rispetto all’utilizzo dei prodotti di cava, senza contare i connessi vantaggi ambientali.

Le risposte dei grandi cantieri

Per capire il modo in cui le stazioni appaltanti stanno affrontando il tema dell’utilizzo degli aggregati riciclati, Legambiente negli scorsi anni ha chiesto se venissero utilizzati questi materiali in alcuni grandi cantieri italiani, quali il cantiere del nuovo palazzo dei Congressi a Roma, le varianti sulla SS 14 Triestina e l’Autostrada Catania-Siracusa di ANAS, la nuova Stazione di Bologna Centrale per Grandi Stazioni. Le risposte ricevute sono diverse, ma tutte uguali nelle conclusioni: mancanza di conoscenza della qualità degli aggregati riciclati e poche informazioni sul reperimento dei materiali stessi sono tra le principali cause, ma anche scelte progettuali e quelle da parte delle Direzioni Lavori hanno influenzato l’esito finale.

Proprio le risposte ricevute confermano quanto sia urgente e importante fare chiarezza attraverso obiettivi, regole e sistemi di controllo.

ANAS s.p.a.

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Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane

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EUR s.p.a.

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Ceramica Made in Umbria

Intervista a Elisabetta Furin
La storia del territorio umbro è strettamente legata a quella del suo rapporto con l’arte della lavorazione della ceramica. Il progetto Ceramica Made in Umbria, avviato nel 2013, interpreta il recupero di tale tradizione come opportunità per aggregare una rete di imprese del settore e rilanciare la produzione locale sui mercati nazionali e internazionali.

Quando, come e perché nasce il progetto Ceramica Made in Umbria?

Il progetto nasce nel 2013, quando il servizio per l’internazionalizzazione, lo sviluppo economico e il credito alle imprese della Regione Umbria ha intrapreso un’indagine in merito alla situazione di crisi in cui attualmente versa lo scenario locale della lavorazione della ceramica. A scapito di un passato glorioso che lo ha reso famoso in tutto il mondo, quello della ceramica umbra appare ormai da anni come un settore in grave difficoltà, in cui all’assenza di investimenti finalizzati a generare innovazione ha corrisposto la dismissione di un ingente numero di imprese. È stato quindi per approfondire le cause di tale crisi che la Regione ha avviato una mappatura delle aziende ceramiche attualmente operanti in area umbra, nell’ottica di individuare quali, fra di esse, apparissero più adeguatamente “attrezzate” a supportare un’azione di rilancio produttivo e merceologico del settore. Lo studio, condotto in collaborazione con la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Perugia, ha portato alla selezione di una ventina di soggetti su più di un centinaio, fra singoli artigiani, micro-imprese e aziende di dimensioni più cospicue. Di qui è nata l’idea di un “contributo operativo” alla ricerca, volto alla progettazione di una serie di oggetti in ceramica in grado di intercettare più efficacemente le esigenze dei nuovi mercati nazionali ed esteri. Questo compito è stato affidato a me in qualità di docente dell’Istituto Italiano di Design, l’unica scuola in Umbria a includere il design del prodotto nella propria offerta formativa.

Elisabetta Furin
Elisabetta Furin

Quali sono dunque le cause di tale crisi?

La ceramica umbra ha tradizionalmente goduto di un elevato grado di consenso da parte del mercato, raggiungendo un picco fra gli anni ‘80 e ‘90 del XX secolo. La crisi finanziaria globale, da un lato, e le rinnovate esigenze manifestate dal pubblico in termini economici ed estetici, dall’altro, hanno fatto sì che tale domanda calasse drasticamente nel giro di pochi anni, cogliendo le aziende del distretto del tutto impreparate a far fronte alla situazione. Le tecniche produttive e gli stilemi formali a cui esse si attenevano erano ancora quelli che hanno fatto celebre la storia della maiolica umbra, ma che al giorno d’oggi, per varie ragioni, non risultano più sostenibili (basti pensare che un piattino del diametro di 20 cm completamente dipinto a mano può arrivare a costare intorno ai 300 euro). Per anni queste aziende hanno vissuto di rendita senza prendere in considerazione le future evoluzioni del mercato, e ciò ha finito per mettere in crisi il settore stesso, e i modelli di produzione e fruizione su cui esso si era fino ad allora basato.

Case, set di vassoi in due dimensioni. L'Antica Deruta, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Case, set di vassoi in due dimensioni. L’Antica Deruta, Deruta (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Quante aziende sono coinvolte nel progetto, e in che modo sono state selezionate?

Il progetto coinvolge 21 aziende, selezionate in base a prerogative che denotassero una particolare propensione a innovare e internazionalizzare la propria attività produttiva: un solido apparato tecnico e organizzativo, una buona percentuale di esportazioni all’estero, l’adozione di strategie di comunicazione e vendita online… E via dicendo. Al tempo stesso, la selezione ha tentato di riflettere la ricchezza e la varietà delle tecniche di lavorazione ceramica storicamente diffuse sul territorio umbro: le aziende che partecipano al progetto appartengono non solo all’area di Deruta (il centro produttivo più noto e rinomato), ma anche a realtà come Gubbio, Gualdo Tadino, Orvieto e altre ancora, ciascuna con le sue caratteristiche e peculiarità. È stato principalmente questo aspetto a suggerirmi l’idea di una collezione di prodotti che, a partire dalla tradizione della ceramica umbra intesa nella sua unitarietà, sapesse anche rispecchiare e valorizzare le specificità locali.

Coppa, ciotoline con cucchiaino, anche cocotte da forno, in due grandezze. Azienda Mastro Giorgio, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Coppa, ciotoline con cucchiaino, anche cocotte da forno, in due grandezze. Mastro Giorgio, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Che tipo di modello produttivo ed economico risiede alla base della nuova collezione di prodotti?

Per agevolare economicamente le imprese senza per questo penalizzare la prestazione del designer, oltre ai costi di realizzazione degli stampi e dei prototipi la Regione Umbria ha scelto di coprire anche quelli di progettazione. I diritti della collezione appartengono alla Regione, e ogni impresa coinvolta ne produce uno o più pezzi, svincolata dal pagamento di royalty nei confronti del progettista e facendosi carico unicamente dei costi legati ai processi di produzione degli articoli avuti in concessione. In questo modo i prodotti della collezione valorizzano anche le abilità specifiche delle singole aziende, a partire dalla loro identità storica e dalle tipologie di prodotti già consolidate verso i loro abituali clienti di riferimento.

Maschio e Femmina, set di bicchierini per shot e finger food . Rampini, Gubbio (PG). © Foto di Michele Tortoioli
Maschio e Femmina, set di bicchierini per shot e finger food . Rampini, Gubbio (PG). © Foto di Michele Tortoioli

Perché ritieni importante recuperare la tradizione della ceramica umbra?

In un territorio come l’Umbria, ricco di boschi e fiumi, l’argilla si offre spontaneamente, e fin dai tempi degli Etruschi la produzione di oggetti in ceramica ha rappresentato un’importante testimonianza di evoluzione economica, artistica e culturale. È tuttavia con il Rinascimento che il settore raggiunge la sua soglia di massimo sviluppo, quando artisti come Raffaello, Pinturicchio e il Perugino commissionano agli artigiani ceramisti la messa in forma di oggetti elaborati a partire dai dettagli presenti nelle proprie opere, dando vita agli esemplari che possiamo ammirare oggi in alcuni dei musei più importanti del mondo. Lavorando alla nuova linea di prodotti ho ritenuto imprescindibile confrontarmi con una tradizione che ha segnato a tal punto l’identità storica della nostra regione: ho anzi sentito che, per realizzare qualcosa che fosse al tempo stesso innovativo e tipicamente umbro, era necessario partire proprio dal recupero di questa tradizione, proiettandola nella contemporaneità tramite una rilettura che agisse analogamente sul piano produttivo, funzionale ed estetico.

Fiasca, Brocca da 1.5 l per bevande e ampolla da 200 ml per condimenti. Bizzirri, Città di Castello (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Fiasca, brocca da 1.5 l per bevande e ampolla da 200 ml per condimenti. Bizzirri, Città di Castello (PG) © Foto di Michele Tortoioli

Cos’è il Banchetto Contemporaneo, e a che categoria di pubblico si rivolge?

Il Banchetto Contemporaneo è una collezione composta da 45 articoli (in prevalenza oggetti da tavola, ma anche altre differenti tipologie di prodotti), che fa riferimento a un mercato contract e retail di alto livello nel campo della ristorazione e dell’ospitalità. Nel reinterpretare un tema ricorrente nella tradizione della ceramica umbra, quello del banchetto, la collezione tenta di intercettare i nuovi scenari della socialità condivisa, concentrandosi principalmente su situazioni conviviali quali catering, degustazioni, aperitivi. Gli oggetti della collezione nascono per connotare scenograficamente lo spazio collettivo e, pur non escludendo un loro possibile uso nel privato delle mura domestiche, si prestano maggiormente a essere impiegati nell’ambito di occasioni speciali piuttosto che a una fruizione quotidiano e di routine. La scelta di una vendita al dettaglio (pensiamo ad esempio agli hotel e ai ristoranti italiani all’estero) è stata motivata anche dai limiti tecnici e funzionali del materiale: la maiolica è molto fragile e, pur essendo un materiale povero, al contrario di impasti come porcellana e grès, non risulta particolarmente adatta a un utilizzo di vasta scala.

L’intera collezione

Quali sono gli aspetti del processo tradizionale di lavorazione della maiolica che il progetto va a recuperare?

La lavorazione tradizionale è legata all’uso del tornio, alle forme di rotazione, alla circolare perfezione descritta ne I tre libri del vasaio di Cipriano Piccolpasso, in cui il trattatista cinquecentesco raccoglie e sintetizza le conoscenze tecniche sulla produzione della ceramica fino ad allora codificate. Gli oggetti che compongono la collezione richiamano le geometrie realizzabili al tornio, ma sono prodotti tramite stampi in gesso a colaggio: tecnologia, anch’essa di origini antichissime, che permette di ottenere forme anche complesse con costi ridotti e logica di serialità, facendo eco a una standardizzazione di tipo industriale pur rimanendo un procedimento essenzialmente artigianale. Un’ulteriore prerogativa della collezione fa riferimento a un’istanza di astrazione estetica e formale. Storicamente la maiolica è dipinta, fattore che portato, nel corso del tempo, ad assimilare tale lavorazione alla stregua di una vera e propria forma d’arte, tradendone in un certo senso il principio originario: quello di abbellire gli oggetti d’uso quotidiano. Nel mio progetto ho privato la pittura di questo ruolo centrale attribuendolo invece alla materia, tramite la creazione di motivi in rilievo ispirati alle decorazioni pittoriche tradizionali; il colore è invece ridotto a poche pennellate, che, a seconda di come il pigmento si distribuisce fra una rientranza e l’altra, creano effetti unici e irripetibili che contribuiscono a rimarcare il carattere artigianale di ciascun prodotto.

Bacile, piatto da portata. Pimpinelli, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli
Bacile, piatto da portata. Pimpinelli, Gualdo Tadino (PG) © Foto di Michele Tortoioli

E in che modo il progetto mette in relazione tale tradizione produttiva con il panorama delle tecnologie attuali?

Le texture che appaiono in rilievo sulla superficie dei pezzi sono state disegnate attraverso un software CAD e successivamente trasferite su maschere in lamiera metallica da imprimere sul materiale in fase di stampaggio. Oltre al fatto che sarebbe stato assurdo chiedere allo stampista di riprodurre delle forme così regolari e minute direttamente all’interno dello stampo, tale procedura asseconda tecnicamente l’idea di decoro applicato come strato materico anziché cromatico. Un secondo aspetto riguarda l’utilizzo di un codice QR, leggibile tramite smartphone e altri dispositivi mobili, in luogo del classico marchio di fabbrica con cui ogni bottega usava siglare i propri pezzi per denotarne la provenienza. Grazie a questo sistema, ciascun pezzo rimanda interattivamente a un contenuto online correlato, che permette di rintracciare, insieme ai dati dell’azienda produttrice, alle specifiche tecniche del prodotto e alle informazioni sull’acquisto, anche un approfondimento storico sul dettaglio della tradizione locale a cui l’articolo in questione si ricollega.

Mug, set di tazze impliabili. G & P. di Gialletti e Pimpinelli © Foto di Michele Tortoioli
Mug, set di tazze impliabili. G & P. di Gialletti e Pimpinelli © Foto di Michele Tortoioli

Quali sono state le strategie di comunicazione legate al progetto?

L’identità visiva trae ispirazione dagli elementi tipici del processo produttivo della ceramica: il logo, ad esempio, richiama il profilo del parallelepipedo di argilla, il blocco di materia grezza da cui la lavorazione ha inizio per svilupparsi attraverso configurazioni via via sempre più articolate. Dal punto di vista comunicativo, un ruolo predominante è stato affidato al sito web, realizzato con la logica dell’app e pertanto facilmente fruibile su dispositivi sia desktop che mobile. Interamente gestito dallo studio perugino Salt & Pepper, il progetto di immagine coordinata e comunicazione di Ceramica Made in Umbria è stato di recente selezionato per la partecipazione all’edizione 2016 di ADI Design Index.

Ceramica Made in Umbria, logo del progetto
Ceramica Made in Umbria, logo del progetto
Ceramica Made in Umbria, sito web del progetto
Ceramica Made in Umbria, sito web del progetto

Che tipo di impatto economico ha riscontrato il progetto a livello sia nazionale che internazionale?

Il Banchetto Contemporaneo è stato presentato per la prima volta nell’ambito della grande mostra dedicata a Steve McCurry tenuta a Perugia nel 2014. Successivamente è stato proposto in diverse altri circostanze – in occasione delle manifestazioni milanesi del Salone del Mobile e Homi, ad esempio, e anche all’estero, nel contesto della sede newyorchese di Eataly –, in ciascuna delle quali ha ricevuto riscontri molto favorevoli e incoraggianti da parte del pubblico. Tuttavia, nonostante l’interesse suscitato dal progetto in ambito sia nazionale che internazionale, è venuta a mancare la creazione di una struttura commerciale in grado di gestire tale richiesta a livello di brand unitario. Per suo stesso statuto la Regione non può assumere ruoli e fini commerciali, per cui ad assolvere questo compito avrebbero dovuto essere le aziende, cooperando nella messa a punto delle strategie di produzione, promozione e distribuzione dell’intera collezione. Purtroppo, anziché una propensione al lavoro in squadra, le aziende coinvolte nel progetto hanno dato prova di una certa tendenza all’individualismo che ha inibito in partenza la possibilità di agire entro una dimensione che fosse effettivamente di rete. L’aggregazione, come sottolineano le direttive emanate a tal riguardo dall’Unione Europea, è l’unica opzione che queste aziende hanno oggi per rilanciare la propria produzione all’interno del mercato globale: un’opzione che il sistema dell’imprenditoria umbra sembra non essere ancora pienamente maturo ad accogliere.

Re-Cycle Veneto

Di Lorenzo Fabian e Stefano Munarin
La pubblicazione Re-Cycle Veneto riassume gli esiti del lavoro svolto da alcuni docenti, assegnisti di ricerca e studenti della laurea magistrale dell’università Iuav di Venezia che, nell’ambito della più vasta ricerca Recycle Italy, si sono organizzati in dieci “tavoli di lavoro” per indagare le possibilità di riciclo del territorio veneto. Le sperimentazioni progettuali e le mosse di ricerca illustrate esplorano da angolazioni differenti i concetti base e condivisi della ricerca, ossia l’avvio di nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture esistenti, dismesse o obsolete, entro strategie di progettazione che intervengano in particolare sui temi ambientali, energetici e della mobilità. Il territorio veneto è qui inteso quale elemento in continuo divenire, mai fisso ma neanche mai morto: supporto e “patria artificiale”, che offre resistenze ma al tempo stesso è plasmabile e adattabile agli orizzonti di senso che le esplorazioni progettuali individuano.

Il volume Re-Cycle Veneto, in corso di pubblicazione nella collana dei Quaderni del PRIN Re-Cycle Italy, riassume gli esiti del lavoro svolto da alcuni docenti, assegnisti di ricerca e studenti della laurea magistrale dell’Università Iuav di Venezia che, nell’ambito della più vasta ricerca Recycle Italy, si sono organizzati in dieci “tavoli di lavoro” per indagare le possibilità di riciclo del territorio Veneto e, al contempo, utilizzare questo contesto per indagare alcune possibile articolazioni dell’idea di riciclo. Le ricerche e le sperimentazioni progettuali che illustrati esplorano da angolazioni differenti i concetti base e condivisi della ricerca, ossia la possibilità di avviare nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture esistenti, dismesse o obsolete, entro strategie di progettazione che si interrogano su diversi temi, che vanno dalle questioni ambientali, energetici e della mobilità alla percezione e fruizione di alcuni specifici paesaggi o alla riflessione intorno al concetto di patrimonio.

Questo specifico progetto, della durata di un anno e intitolato Re-Cycle Veneto Lab,1 Recycle Veneto Lab (TURISMO, TERRITORIO, RICICLO: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza “lenta” nell’area veneta, Università Iuav di Venezia, marzo 2014 – marzo 2015), è un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, con i finanziamenti erogati dal Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma operativo 2007- 2013 della Regione. Le ricerche del Recycle Veneto Lab si fondano sulla trasformazione dell’offerta turistica nel territorio veneto, in rapporto ad un’idea di riciclo come pratica virtuosa: sia in considerazione della presenza di infrastrutture ed edifici dismessi sia rispetto a una idea di turismo compatibile e di sostenibilità ambientale. si è concluso con il workshop di progettazione Ve.Net,2Il workshop di progettazione Ve.Net, (3 -12 ottobre 2014, Venezia, Pieve di Soligo) organizzato dall’Università Iuav di Venezia con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, ha coinvolto tredici aziende Venete, dieci docenti, 15 assegnisti di ricerca e 85 studenti della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università Iuav di Venezia. Il programma del workshop ha in particolare previsto un seminario inaugurale a Pieve di Soligo cui sono stati invitati i rappresentanti di tutte le aziende coinvolte, cinque giorni di lavoro collettivo a Venezia nella sede Iuav dell’Ex-Cotonificio Veneziano, e infine un seminario di illustrazione degli esiti e di dibattito generale con la partecipazione di ricercatori della rete nazionale Recycle Italy, di esperti, associazioni e amministratori locali. tenutosi nell’ottobre 2014 all’Università Iuav di Venezia e presso la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo. Al progetto hanno partecipato, insieme ai docenti, studenti e ricercatori dell’Università Iuav i rappresentanti di associazioni di categoria, amministrazioni, aziende e imprese, coinvolti in una comune riflessione volta ad esplorare le possibili ricadute economiche e strategiche di un’ipotesi di radicale trasformazione del territorio veneto. Nel workshop, come nella pubblicazione, i dieci tavoli sono stati suddivisi in tre parti, cui corrispondono anche differenti ambiti tematici e geografici.

La prima parte, Riciclare i territori del Piave e del pedemonte, fa riferimento agli ambiti compresi fra le Alpi e l’alta pianura asciutta, territori dinamici, oggi interessati dai cambiamenti indotti dalla realizzazione dell’autostrada pedemontana e alla ricerca di una nuova e più chiara definizione. La seconda parte, Riciclare i territori dei fiumi e delle infrastrutture, fa riferimento al deposito di acque, strade e ferrovie regionali che hanno strutturato la pianura e la città diffusa veneta, al loro necessario ripensamento alla luce dell’emergere di nuovi temi ambientali, del welfare e della valorizzazione del paesaggio. La terza parte, Riciclare i territori della produzione, fa riferimento alla conclusione di un lungo ciclo economico-produttivo e al necessario ripensamento, anche concettuale, dei suoi spazi. Infine un’ultima parte, cui corrisponde anche un ultimo tavolo di lavoro, è dedicata, fra storytelling e processo, alla narrazione del territorio come possibile forma del progetto.

Un nuovo ciclo di trasformazione

Anche in Veneto, come in altri territori contemporanei, è sempre più chiara la percezione che un lungo ciclo di costruzione della città si stia chiudendo. Nel rapporto sul mercato delle costruzioni del centro studi CRESME (2011) tale percezione si rende manifesta in un grafico che illustra il susseguirsi dei cicli del mercato immobiliare in Italia dal 1950 ad oggi. Il grafico, che mostra l’alternarsi dei momenti di espansione e di contrazione del mercato, si conclude con un ultimo grande ciclo edilizio – il sesto in ordine di tempo – iniziato a metà degli anni novanta del XX secolo e che oggi è in fase conclusiva e di intensa deflazione. Caratterizzato dalla dirompente crescita dei volumi edilizi e del suolo urbanizzato, esso fa luce su una strategia di trasformazione che, nei quindici anni a cavallo dei due millenni, ha applicato al territorio le tipiche dinamiche del mercato di consumo: una trasformazione senza riciclo, avvenuta perché ciò che esisteva non sembrava più adeguato a rispondere alle esigenze di una società in rapido e profondo cambiamento o al fine di alimentare artificialmente la crescita “squilibrata” di un mercato delle costruzioni ormai saturo.

Naturalmente il processo non è stato senza conseguenze. L’ultimo ciclo edilizio, oltre ad aver consumato nuove consistenti porzioni di territorio sottraendole all’agricoltura, ha depositato sul suolo scarti di forma e dimensioni differenti che oggi, anche alla luce dei rischi ambientali e della crisi economica, rendono evidente le fragilità del territorio e introducono ad alcuni possibili slittamenti di senso dei temi del progetto.

Ricicli

Anche alla luce di questi problemi, recentemente, e in particolare a partire dalla crisi del 2007, si è cominciato a guardare anche al territorio Veneto mettendone in evidenza i processi di abbandono e dismissione edilizia. Se si prova però a rilevare il fenomeno, a costruire delle mappe dell’abbandono ci si trova nella necessità di articolare le categorie analitiche, riconoscendo che se si cerca ciò che è completamente e univocamente abbandonato si trova poco mentre diventa assai più interessante segnare ciò che è solo parzialmente utilizzato, ciò che è momentaneamente vuoto, sottoutilizzato o sta cambiando destinazione, ciò che è in attesa di diventare altro, ecc. La dismissione, la chiusura e l’abbandono cioè, qui nel Veneto, appaiono come fenomeno articolato, sia spazialmente (con situazioni economiche ed insediative che reggono, altre che si trasformano ma continuano e altre ancora che soffrono e chiudono) sia nelle forme e nei processi.

Se si cammina nelle zone industriali del Veneto osservando i processi di dismissione ci si trova spesso di fronte a situazioni spurie, dove accanto a pochi eclatanti ed univoci abbandoni si ritrovano tante altre situazione intermedie. Se si osserva l’area di Bassano, la valle del Chiampo o la grande zona industriale di Vittorio Veneto si nota che il capannone e la zona industriale cambiano, si evolvono, diventano altro, ma assai più raramente vengono semplicemente abbandonati. La dismissione qui appare fenomeno opaco, micro, frammentato, richiedendo sguardi più attenti e progetti e politiche più articolati e mirati.

Un ingente patrimonio immobiliare sottoutilizzato o dismesso si scopre invece se si osserva l’edilizia residenziale. I due idealtipi prevalenti – la casa isolata e la piccola palazzina – che pervadono il territorio veneto costituendo quasi la nota di base, oggi sembrano improvvisamente subire un precoce invecchiamento, appaiono obsoleti e non più congrui rispetto alle nuove domande sociali. Obsoleto, male utilizzato o abbandonato appare spesso anche quel vasto supporto costituito dalle reti di acque, strade e ferrovie minori che nel tempo lungo ha reso estensivamente abitabile il territorio, permettendo di attraversarlo e stabilirsi praticamente ovunque. I canali, i fossi e le scoline che, come i fossati di cui ci parla Richard Mabey, sembrano “vocaboli superstiti dell’antico idioma della terra… e anche se l’antico tracciato è interrotto in più punti […], sembrano criptiche trincee scavate in ere remote per assolvere a molteplici funzioni […]. Di sicuro, un fossato non è mai un fossile, una cosa inerte, ma è l’elemento di una narrazione della terra, tenace e adattabile come una buona storia tramandata da generazioni” (2010, pp. 105-106).

Allo stesso modo, le ferrovie minori e le piccole stazioni, le strade bianche, le carrarecce, le rive dei fiumi, i “trosi”, appaiono come tante piccole opere che, come ci ricorda Robert Macfarlane parlando in modo particolare dei sentieri, costituiscono una sorta di “labirinti di libertà, supporto mondano nel senso migliore del termine perché appartengono al mondo, sono aperti a tutti», e come i sentieri, spesso, sono «tracce di esperienze collettive [che] senza manutenzione collettiva e collettivo impiego spariscono” (2013, pp. 17-20).

Questo elenco aperto di infrastrutture, edifici e attrezzature ci invita ad andare a fondo sul concetto di “crisi”, dismissione e possibili scenari di “riciclo”, ricordandoci subito che diventa interessante e necessario riconoscere vari gradi di dismissione, che l’idea di riciclo se applicata ai sistemi insediativi rinvia all’idea di “ciclo di vita” (Viganò 2011). Ai processi di continuo cambiamento che attraversano la città e il territorio, al grado di disponibilità alla trasformazione che i diversi materiali urbani consentono, alla malleabilità del patrimonio esistente, che se vogliamo continui ad essere veramente patrimonio dobbiamo continuamente reinventare e riadattare e quindi alla possibilità di prospettare nuove interessanti visioni di cambiamento senza utilizzare ulteriore suolo libero, senza “urbanizzare” nuovo suolo agricolo ma facendo diventare diversamente abitabile ciò che abbiamo fin qui già edificato. Tra l’altro, ricordando che proprio attraverso un continuo processo di riciclo dell’esistente nei secoli scorsi abbiamo prodotto i centri antichi che ora tanto ci affascinano.

Più in generale le trasformazioni in atto nel territorio veneto ci segnalano che il sesto ciclo edilizio ha qui prodotto una competizione non solo tra attività produttive e tendenze speculative, ma anche tra le parti di territorio che richiedono operazioni di recupero e quelle dove sono ancora possibili nuove urbanizzazioni di suolo agricolo: se nel prossimo futuro lasceremo che le nuove energie economiche e sociali (gli investimenti e le idee imprenditoriali) producano nuovi edifici in territori agricoli (operazioni facili) difficilmente troveremo altre energie in grado di rilavorare l’enorme quantità di edifici e spazi che hanno concluso un loro primo ciclo di vita e richiedono l’avvio di nuovi processi d’uso e attribuzione di senso.

Muovendo dal presupposto che il sistema insediativo contemporaneo non rappresenta lo stato conclusivo di un lungo processo di modificazione e stratificazione ma solamente una sua fase, appare evidente come proprio a partire dalla “crisi” che stiamo vivendo si possa avviare un nuovo sforzo di immaginazione volto a definire futuri assetti territoriali. Nuovi assetti che devono certamente rispondere a criteri di sostenibilità (anche economica) ma dimostrarsi al contempo maggiormente inclusivi, garantire sicurezza idraulica ed ambientale, essere capaci di rispondere alle domande espresse da nuove popolazioni (immigrate e non) immaginando un nuovo ruolo sia per gli innumerevoli edifici e spazi dismessi sia per il patrimonio costituito dagli spazi del welfare, elementi che nell’insieme possono diventare nuovi assi portanti dell’assetto territoriale complessivo.

Occorre domandarsi quindi come un vasto insieme di manufatti e spazi costruiti nel corso di più di mezzo secolo possano costituire oggi il punto di partenza per una grande trasformazione del territorio veneto, per l’avvio di nuovi cicli di vita basati sulla reinterpretazione e riconcettualizzazione dell’esistente, sulla logica delle tre “R” (“riduci”, “riusa”, “ricicla”).

Osservando il territorio veneto ci troviamo di fronte ad un sistema insediativo dinamico, che certamente sta attraversando e deve affrontare sfide assai rilevanti: è un territorio nel quale il tumultuoso processo di sviluppo economico dei decenni passati ha lasciato un ingente patrimonio di spazi in disuso o comunque potenzialmente riusabili; è un territorio che si scopre sempre più spesso a rischio idraulico, nel quale occorre tornare ad osservare attentamente lo spazio occupato dall’acqua e il suo ruolo nella formazione del paesaggio sotto molteplici forme (dal grande fiume fino al più piccolo fosso, dalle aree depresse e umide agli ambiti di risorgiva, ecc.); è un territorio non sempre e non da tutti facile da abitare, nel quale la mobilità è privilegio degli adulti in possesso dell’automobile; è un territorio che si deve confrontare con l’arrivo di nuove e diverse popolazioni con il relativo sviluppo di tensioni e innovazioni sociali; è un territorio in cui si assiste all’incessante processo di trasformazione della sua base economica e produttiva, con i distretti in continuo mutamento, spesso capaci di ripresentarsi sotto forme nuove, sorprendenti, proprio mentre se ne sta studiando la presunta fine.

Un territorio abitato, caratterizzato dalla compresenza di diversi sistemi insediativi, certo non immune da difetti e limiti ma dinamico, che appare ai nostri occhi dotato di una buona resilienza, capacità di mutare, “adattarsi” al cambiamento, un sistema insediativo “intrigante” proprio perché difficile da ridurre entro un’unica immagine riassuntiva (positiva o negativa che sia). Un sistema insediativo interessante perché formato da diversi “modelli urbani” posti vicino l’uno all’altro e che consentono stili di vita diversi: dalla città antica, che ha in Venezia l’esempio esemplare, all’abitare nella rada “città inversa” che si è sviluppata lungo le strade della centuriazione romana; dai quartieri di edilizia residenziale pubblica, troppo spesso criticati sulla base di pregiudizi mentre invece con la loro ricca dotazione di servizi costituiscono una sorta di “isole del welfare” cui fanno riferimento anche gli abitanti delle lottizzazioni private di case su lotto spesso prive dei servizi elementari, alle parti di città compatta costruite a partire dal secondo dopoguerra attorno ai nuclei antichi, parti che grazie alla loro relativa alta densità permettono lo sviluppo di “strade corridoio” con i negozi al piano terra e servite dal trasporto pubblico. Un sistema insediativo nel quale diventa interessante prestare attenzione al contempo agli spazi, ai diversi materiali che vi si sono depositati e alle pratiche, ai soggetti e ai processi sociali che li attraversano reinterpretandoli.

Osservare gli spazi riflettendo sul concetto di “capacità”, sulle possibilità che questi offrono, misurando il benessere sulla base di ciò che gli individui possono fare ed essere, piuttosto che su ciò che possiedono. Pensando che anche di fronte ai problemi e alle crisi del territorio, sia utile cercare di ridurre le forme di ingiustizia (che limita ciò che possiamo fare ed essere) piuttosto che puntare alla realizzazione di un mondo perfettamente giusto (finendo con il riflettere più sulle forme istituzionali che sulla concreta giustizia). Un atteggiamento pragmatico ed incrementale forse, che si alimenta anche di più suggestive ed ampie immagini utopiche ma che ci sembra interessante perché non parte dalla condanna preventiva di ciò che stiamo osservando (cioè modi di abitare il mondo, qui ed ora).

Interpretando il deposito materiale realizzato e più volte riscritto nel corso del tempo come lascito imprescindibile, “supporto” fisico a partire dal quale è possibile sviluppare nuove immagini e idee, nuovi “modi di stare al mondo” che non devono necessariamente fare riferimento all’idea tradizionale di città o di campagna, ma ad inediti spazi di civitas che consentano lo sviluppo di forme di “democrazia sostanziale”.

Le conseguenze del nuovo ciclo di trasformazione dell’esistente, 3Il CRESME indica il ciclo che si sta aprendo e che caratterizzerà il mercato della costruzione dei prossimi anni come una nascente fase di “trasformazione dell’esistente”, di essa nel rapporto si intuiscono i temi prevalenti – la ristrutturazione del patrimonio edificato, la manutenzione del territorio, l’adeguamento infrastrutturale ed edilizio al rischio sismico e idrogeologico – ma non ancora l’intensità o la durata. se applicate al territorio veneto, implicheranno una revisione radicale dei modi d’uso dello spazio, degli stili di vita, delle forme della mobilità, dei sistemi di produzione delle merci, delle principali razionalità energetiche. E’ anche su queste sfide, sulla necessità di immaginare un prossimo ciclo futuro del territorio basato sulla radicale riconcettualizzazione dell’esistente, che può essere interpretata la domanda di progetto che è implicita nelle esplorazioni progettuali documentate nel Quaderno.

Recycle Veneto

Pochi dei temi esplorati in questa pubblicazione sono inediti per i gruppi veneziani coinvolti nella ricerca. Molti di essi precedono la ricerca Recycle Italy e, probabilmente, proseguiranno anche oltre ad essa. In questo senso, le numerose ricerche condotte sul territorio Veneto e che in queste pagine sono sintetizzate, con le loro differenti angolazioni, ambiscono attraverso le ipotesi e le esplorazioni progettuali a produrre nuova conoscenza sul tema della “trasformazione dell’esistente” declinando in diverse forme e prospettive il tema generale del riciclo.

Le ricerche indagano il territorio Veneto e, attraverso il concetto di riciclo, ne osservano i materiali costitutivi, il suo deposito e le attrezzature. Parafrasando Max Black (1983, pp. 87-88), possiamo dire che, attraverso il paradigma del riciclo, i progetti illustrati consentono di “versare nuovo contenuto in vecchie bottiglie”. Grazie al riciclo è infatti possibile traguardare alcuni temi e luoghi già esplorati producendo nuova conoscenza per il territorio veneto e la città diffusa e, contemporaneamente, proprio grazie al lavoro sui casi studio il concetto di riciclo può assumere nuovi significati e legittimità. Considerando che “una metafora efficace ha il potere di mettere due domini separati in relazione cognitiva ed emotiva usando il linguaggio direttamente appropriato all’uno come una lente per vedere l’altro; le implicazioni, le associazioni, i valori costitutivi intrecciati nell’uso letterale dell’espressione metaforica ci permettono di vedere un nuovo argomento in un nuovo modo”, agendo sul territorio come una metafora radicale il riciclo ci permette di vedere cose nuove. Il riciclo è così una metafora che consente di illuminare il territorio alla ricerca di cicli di vita in fase di conclusione e di ipotizzare per essi una nuova e radicale concettualizzazione.

Prese singolarmente le ipotesi di ricerca e le esplorazioni progettuali avanzate dai dieci tavoli di lavoro, rilevano dei tanti modi attraverso cui il riciclo diventa una metafora radicale, capace di parlare della trasformazione dell’esistente e delle sue tante prospettive progettuali.

Il riciclo può, ad esempio, diventare un modo per attribuire valore ai tanti oggetti ordinari che compongono il paesaggio della città diffusa veneta: case, fabbriche, campi coltivati, l’immenso armamentario di elementi che attraversano il territorio veneto sono in questa prospettiva, un deposito di fatiche e energia grigia, risorse rinnovabili di una urbs in horto che idealizza lo spazio del quotidiano ed aspira ad un riciclo completo delle sue parti. Spostando parzialmente il punto di vista nello spazio e nel tempo, adottando lo sguardo del militare e osservando il deposito delle tante rovine e macerie con cui la Grande Guerra ha inciso le montagne, il riciclo diventa anche una modalità di reinvenzione del paesaggio veneto. Lo sguardo strategico in questo caso, da un lato, proiettivamente, prova ad avviare un nuovo ciclo per i teatri della Grande guerra e, da un altro lato, retrospettivamente, consente di imparare dalla tattica del militare: un albero e un campanile possono diventare punti di vista per l’esplorazione del paesaggio, le corrugazioni della terra possono diventare punti di attestamento, i fiumi un ostacolo all’avanzata delle truppe, le colline i possibili presidi. Se invece oggetto della ricerca sono i temi energetici, il riciclo diventa lente per il radicale ripensamento delle infrastrutture che innervano la regione, un tempo supporto alla diffusione insediativa e oggi emblema di un modello energetico e della mobilità inadatto a rispondere agli obiettivi di riduzione delle emissioni e alla realizzazione di eque politiche economiche e di accessibilità. Riciclo in questo senso può significare un nuovo ciclo della mobilità della città diffusa che, attraverso la valorizzazione dei tessuti reticolari di strade bianche e ferrovie, può offrire attraverso l’uso integrato della bicicletta e del treno una valida alternativa all’auto di proprietà. Può anche essere la reinvenzione dei paesaggi di alcuni grandi fiumi, come il Piave, profondamenti manomessi nei decenni passati e che oggi appaiono mondi sospesi, in attesa di un nuovo ciclo e di nuove prospettive. Oppure riciclo può essere il ripensamento di alcune ferrovie ormai dismesse, come nel caso dell’Ostiglia, un tempo supporto della prima modernizzazione della Regione e oggi infrastruttura ciclabile di scala territoriale.

Traslando ancora poco lo sguardo, mettendo a fuoco i temi ambientali e delle tante fragilità che attraversano la Regione, riciclo diventa reinvenzione di un deposito spugnoso e capillare di acque, grandi fiumi, fossi e scoline che oggi, oscillando fra abbondanza e carenza, appare inadeguato o insufficiente a fare fronte alle sfide poste da una efficiente gestione della risorsa idrica, dalle mutazioni del clima e dal crescente dissesto idrogeologico. Un supporto che, alla luce di questi elementi può essere riciclato, come nei casi qui indagati del Marzenego o del Piave, attraverso nuovi processi e prospettive capaci di valorizzare nello stesso quadro sinottico, la condizione di risorsa e di rischio, la domanda di nuovi spazi del welfare, la dimensione di trama pubblica e di paesaggio fluviale in produzione. La metafora del riciclo può infine essere ulteriormente deformata per essere connessa a quella degli archivi dello scarto: ciò che rimane dell’isola storica di Venezia o degli spazi del tessile pedemontano, la discrasia che esiste fra i tanti edifici abbandonati e le poche risorse a disposizione, una strategia per tornare a progettare patrimoni.

L’esperienza della comune ricerca e del workshop hanno tuttavia permesso di aggiungere qualcosa di più che non il semplice accostamento di ipotesi. L’accostamento, a volte la sovrapposizione di temi ed esplorazioni progettuali, ha infatti permesso di individuare alcune grandi cornici di senso che ambiscono ad aggiungere conoscenza alle singole ricerche.

Una prima è legata ad un’idea di progetto inteso come processo di natura incrementale. Il riciclo suggerisce infatti che la politica territoriale non si faccia solo attraverso la realizzazione di alcune grandi opere infrastrutturali il cui progetto e realizzazione è affidata a pochi soggetti e operatori. Il progetto di radicale riciclo del Veneto si può realizzare invece anche attraverso un diffuso, minuto e continuo e processo di trasformazione dell’esistente, affidato a una moltitudine di soggetti le cui istanze sono spesso differenti, a volte confliggenti. La realizzazione di un grande plastico comune ai dieci gruppi è stato in questo senso una sorta di terreno condiviso di esplorazione di un immenso progetto di riciclo immaginato come processo incrementale, additivo, frutto della somma di tante piccole mosse discrete. Attraverso il grande plastico i temi del riciclo hanno mostrato come questo elenco aperto di infrastrutture, attrezzature e paesaggi antropizzati, nel tempo lungo supporto fondamentale dello sviluppo regionale, possano essere oggi ripensati entro progetti integrati e non settoriali, capaci di assorbire entro la stessa cornice di senso i temi sociali, ambientali, energetici e di rivalutazione, anche spaziale, del paesaggio veneto. Il riciclo consente di rendere visibili alcuni fenomeni, come l’abbandono, i disuso e il sottoutilizzo di parti di territorio e di inquadrarle entro una nuova prospettiva progettuale capace di attraversare le scale del progetto.

Più in generale, forse diversamente da quanto avvenuto in altre unità di ricerca, i diversi casi studio qui illustrati intendono il progetto di riciclo entro una prospettiva che intende il territorio come palinsesto, deposito di fatiche e razionalità di elementi che non necessariamente sono abbandonati ma che devono essere radicalmente ripensati. Il territorio è così inteso quale elemento in continuo divenire, mai fisso, nel quale sono sempre compresenti e occorre intrecciare parti e materiali che stanno attraversando diverse fasi di vita, dove si tratta di lavorare non solo con ciò che è completamente dismesso, vuoto, abbandonato, ma con tutto ciò che è sottoutilizzato, marginale, inadeguato, obsoleto, dimenticato. Interpretando il territorio come supporto e “patria artificiale”, che offre resistenze ma al tempo stesso è plasmabile e adattabile ai nuovi cicli e agli orizzonti di senso che le esplorazioni progettuali attuate indicano. 


Bibliografia

Black, M. (1983). Modelli, archetipi, metafore. Parma: Pratiche editrice.

Centro Ricerche Economiche, Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio. (2011) Il mercato delle costruzioni 2011, XXII rapporto congiunturale e previsionale Cresme. 2010-2015 l’avvio del VII ciclo edilizio. (Volume 3). Roma: CRESME.

Mabey, R. (2010). Natura come cura. Torino: Einaudi. (Pubblicato originariamente nel 2005).

Macfarlane, R. (2012) Le antiche vie. Un elogio del camminare. Torino: Einaudi. (Pubblicato originariamente nel 2012).

Viganò, P. (2011). Re-cycling Cities. In P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Milano: Mondadori-Electa.

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1. Recycle Veneto Lab (TURISMO, TERRITORIO, RICICLO: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza “lenta” nell’area veneta, Università Iuav di Venezia, marzo 2014 – marzo 2015), è un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, con i finanziamenti erogati dal Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma operativo 2007- 2013 della Regione. Le ricerche del Recycle Veneto Lab si fondano sulla trasformazione dell’offerta turistica nel territorio veneto, in rapporto ad un’idea di riciclo come pratica virtuosa: sia in considerazione della presenza di infrastrutture ed edifici dismessi sia rispetto a una idea di turismo compatibile e di sostenibilità ambientale.
2. Il workshop di progettazione Ve.Net, (3 -12 ottobre 2014, Venezia, Pieve di Soligo) organizzato dall’Università Iuav di Venezia con la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, ha coinvolto tredici aziende Venete, dieci docenti, 15 assegnisti di ricerca e 85 studenti della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università Iuav di Venezia. Il programma del workshop ha in particolare previsto un seminario inaugurale a Pieve di Soligo cui sono stati invitati i rappresentanti di tutte le aziende coinvolte, cinque giorni di lavoro collettivo a Venezia nella sede Iuav dell’Ex-Cotonificio Veneziano, e infine un seminario di illustrazione degli esiti e di dibattito generale con la partecipazione di ricercatori della rete nazionale Recycle Italy, di esperti, associazioni e amministratori locali.
3. Il CRESME indica il ciclo che si sta aprendo e che caratterizzerà il mercato della costruzione dei prossimi anni come una nascente fase di “trasformazione dell’esistente”, di essa nel rapporto si intuiscono i temi prevalenti – la ristrutturazione del patrimonio edificato, la manutenzione del territorio, l’adeguamento infrastrutturale ed edilizio al rischio sismico e idrogeologico – ma non ancora l’intensità o la durata.