By Giulia Ciliberto

Marzotto e la formazione tecnica.

Di Ethel Lotto
Il Lanificio Marzotto ha seguito la formazione delle sue maestranze fin dalla fondazione, prima mettendo a punto un modello di apprendistato in azienda, poi favorendo a Valdagno la nascita dello storico istituto tecnico a indirizzo tessile. L’eredità materiale e culturale di questa esperienza è stata indagata durante il workshop Tessile Pedemontano e Temporary Hosting dagli studenti dei corsi di laurea in moda dell’Università Iuav di Venezia. Il workshop stabilisce una serie di relazioni tra i molteplici attori che operano a vari livelli su un territorio segnato dalla presenza della manifattura tessile, sperimentando la formula della residenza temporanea per attivare scambi fra realtà produttive, istituzioni per la ricerca, giovani talenti e idee innovative.

Il rapporto di Marzotto con la formazione segue le trasformazioni dell’industria, dalla nascita nell’Ottocento del primo Lanificio di Valdagno, una piccola tessitura fondata da Luigi Marzotto per la produzione di panni per l’albergo di sua proprietà, fino all’attuale articolata organizzazione del Gruppo. La relazione è così stretta che influenza anche la definizione della Città dell’Armonia, costruita a Valdagno tra il 1927 e il 1937 per volere di Gaetano Marzotto, con il Centro Studi, il quartiere delle istituzioni scolastiche che occupa tre isolati con gli edifici dell’asilo, delle scuole elementari e medie, il liceo e l’istituto tecnico, e si definisce come un manifesto del ruolo che la famiglia riveste nello sviluppo dell’istruzione a Valdagno, ruolo preminente nel campo della formazione tecnica tessile.

Lo stabilimento Marzotto visto dalla Città dell’Armonia © Francesco de Luca
Lo stabilimento Marzotto visto dalla Città dell’Armonia © Francesco de Luca

Dal 1836, quando tutte le fasi di lavorazione vengono allocate in un unico luogo, con la costruzione del complesso produttivo a nord di Valdagno, fino al suo completamento nel 1869, la trasmissione delle competenze tecniche passa dalla tradizione ereditaria nelle case delle famiglie operaie che lavorano a cottimo, all’interno dell’opificio. Nella fabbrica il trasferimento del saper fare è affidato agli operai veterani che istruiscono gli apprendisti secondo un percorso di formazione che esplora tutti i passaggi della produzione, dalle procedure rudimentali fino a quelle specializzate per il funzionamento dei telai.

Modello originale dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca
Modello originale dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca

A partire dal 1921 la formazione tecnica esce progressivamente dalla fabbrica con l’istituzione di una Scuola operaia di primo grado, dove nella fase iniziale si tengono solo le lezioni teoriche, mantenendo la pratica nell’ambito della fabbrica. Qui è allestito uno spazio dedicato, la sala scuola, fornito di venti telai dei diversi tipi usati nell’opificio, dove gli apprendisti portano a termine la loro istruzione pratica in un periodo variabile dai tre ai cinque anni, a seconda delle attitudini. Gaetano Marzotto, alla guida della manifattura, consapevole del valore aggiunto della preparazione teorica, inizia a sostituire gli allievi della sala scuola dello stabilimento con quelli della scuola operaia, corrispondendo agli allievi migliori l’indennità di apprendisti, secondo un’ottica meritocratica.

Ingresso dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca
Ingresso dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca

Alla fine degli anni venti anche le attività formative pratiche vengono spostate all’interno della scuola, che si trasforma in Scuola di Avviamento, secondo un modello di derivazione belga che sostiene un’idea di addestramento dove la pratica avviene in ambienti simili a quelli della fabbrica, così che l’allievo possa essere in grado di riconoscere il ciclo produttivo e il macchinario utilizzato una volta assunto come apprendista.

L’interesse del Lanificio Marzotto per la scuola è manifesto, al punto che ora vengono assunti solo apprendisti tessitori che siano contemporaneamente iscritti alla scuola, inoltre la direzione stabilisce che si iscrivano e frequentino il corso anche i giovani che si stanno formando in fabbrica. L’obiettivo è avere a disposizione maestranze specializzate capaci di rispondere alle necessità sorte in seguito al grande piano di rinnovamento tecnologico e impiantistico del Lanificio avviato nel 1921, che contempla l’acquisizione di telai e macchine dalla Francia e dall’Inghilterra e il ricorso a maestranze straniere, che faticano non solo a inserirsi ma anche a formare gli operai locali. Servono quindi sia meccanici e falegnami, per la manutenzione e la riparazione dei telai e delle macchine, sia tessitori specializzati. Il corso per maestranze tessili si propone di integrare con conoscenze teoriche e tecnologiche e pratica di laboratorio le competenze professionali dell’apprendista e dell’operaio per presentare agli stabilimenti tessili giovani preparati che possano divenire in breve tempo assistenti e caposala.
Gaetano Marzotto insiste affinché il corso per operai tessili abbia un carattere strettamente laboratoriale, nel 1929 offre alla scuola cinquanta telai meccanici e diversi macchinari per la filatura, così che lezioni teoriche e pratiche si possano svolgere nello stesso luogo e con gli stessi insegnanti. Nella pratica la scuola funziona come una piccola azienda a cui il Lanificio fornisce le commesse e le materie prime, ritirando e pagando il prodotto finito.

Modello originale dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca
Modello originale dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca

Nel 1933 la Scuola di Avviamento diventa Scuola tecnica industriale per tessitori e meccanici e nel 1936 trasloca nel nuovo edificio nella “Città dell’Armonia”, che alle aule per le lezioni teoriche e agli spazi direzionali e di servizio affianca un articolato sistema di laboratori. Nello stesso edificio si trova anche la Scuola Pratica Libera di Tessitura, un corso triennale per giovani provvisti di licenza elementare, che offre una formazione strettamente tecnica per preparare ragazzi che compiuti i quattordici anni possano entrare in fabbrica con competenze tali da ridurre il periodo di apprendistato. Gaetano Marzotto, che nell’attività della Scuola Pratica chiaramente prosegue fuori dallo stabilimento l’esperienza della sala scuola, sovvenziona l’istituzione che si finanzia anche tessendo per il Lanificio. Nel 1939 all’interno dell’istituto inizia la sua attività l’Azienda Speciale, un progetto nato con lo scopo di sostenere la preparazione degli allievi alla fine del percorso formativo, offrendo loro l’opportunità di lavorare nei laboratori della scuola fino all’assunzione in fabbrica, nel caso non trovino subito un impiego. L’ Azienda fino al 1943 lavora in esclusiva per il Lanificio Marzotto, poi apre la sua attività ad altri clienti, rimanendo attiva all’interno della scuola fino alla fine degli anni sessanta. Il valore intrinseco di questo organismo indipendente è di ampliare il campo di studi e soprattutto quello della sperimentazione, sia degli allievi che del corpo docenti, mettendoli in contatto diretto con il sistema della produzione industriale, al punto che quando la Montecatini brevetta la nuova fibra artificiale “meraclon”, affida all’Azienda Speciale la parte sperimentale della lavorazione, prima di commissionare alla Marzotto la produzione industriale.

Edificio dei laboratori di tessitura dell'Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” e del Museo delle Macchine Tessili di di Valdagno © Francesco de Luca”
Edificio dei laboratori di tessitura dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” e del Museo delle Macchine Tessili di di Valdagno © Francesco de Luca”

La Scuola Tecnica per Tessitori nel 1946 diventa Istituto Tecnico Industriale “V.E. Marzotto”, ad indirizzo tessile laniero e chimico industriale. Negli anni cinquanta l’istituto, grazie anche all’incremento di iscrizioni favorito dall’apertura del pensionato studentesco nel 1953, sempre grazie all’intervento di Gaetano Marzotto, si avvia a divenire un centro di rilevanza non solo nazionale per chi desideri una formazione specializzata in ambito tessile-laniero, ne deriva un problema di spazi e di attrezzature, risolto con un progetto organico, che prevede la costruzione di un nuovo capannone e l’aggiornamento di macchine e strumentazioni, possibile grazie ai finanziamenti di Gaetano Marzotto e del Lanificio Rossi di Schio. Negli anni sessanta i rapporti tra Manifatture Lane Marzotto e Istituto Tecnico Industriale sono tali che i docenti e i tecnici della scuola visitano regolarmente lo stabilimento per pratiche di aggiornamento sui macchinari all’avanguardia e i tecnici della fabbrica tengono lezioni di approfondimento all’istituto, che a sua volta opera lavorazioni sperimentali sui telai a mano per la manifattura Marzotto, mentre il Lanificio dona all’istituto macchinari dismessi, ma utili alla didattica. Fin dalla nascita dell’istituto l’interesse e l’impegno di Marzotto verso questa istituzione è confermato dalla presenza di operai dello stabilimento all’interno della scuola come docenti e tecnici di laboratorio.

Laboratorio di tessitura dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca
Laboratorio di tessitura dell’Istituto Tecnico Industriale “V. E. Marzotto” di Valdagno © Francesco de Luca

Quando Marzotto decide di entrare nel campo dell’abbigliamento pronto, con l’implementazione nel 1951 nello stabilimento del Maglio di un reparto Confezioni seguito dall’apertura nel 1959 di uno stabilimento a Salerno e uno a Noventa Vicentina, affianca un centro per confezioniste a Salerno. Anche l’Istituto Tecnico di Valdagno, sollecitato da Marzotto, mette a punto un corso per confezionisti, che verrà però attivato come corso per l’addestramento professionale per l’industria a Noventa Vicentina.

Ingresso del Museo delle Macchine Tessili di Valdagno © Francesco de Luca
Ingresso del Museo delle Macchine Tessili di Valdagno © Francesco de Luca

Fino agli anni settanta l’Istituto Tecnico di Valdagno riesce ad assecondare le esigenze della manifattura tessile adattandosi alle sue trasformazioni con lo spostamento dell’indirizzo formativo dall’area tessile a quella chimico industriale, consapevole che gli orientamenti per superare la fase di stagnazione dell’industria, indirizzati all’automazione e alla diversificazione nelle confezioni, non possono trovare risposta nei vecchi indirizzi didattici.

Museo delle Macchine Tessili di  di Valdagno © Francesco de Luca"
Museo delle macchine tessili di di Valdagno © Francesco de Luca”

Fino a questo momento è possibile seguire l’interesse e l’impegno di Marzotto nella formazione tecnica attraverso i documenti conservati nell’archivio dell’Istituto Tecnico Industriale che testimoniano una relazione costante tra manifattura e istituto stesso. In coincidenza con le trasformazioni aziendali, che attraverso una serie di acquisizioni a partire dagli anni ottanta, hanno portato all’attuale assetto del gruppo secondo un modello di impresa-rete, è difficile tracciare il percorso seguito da Marzotto nella formazione, almeno fino alla fine degli anni novanta quando l’attenzione del Gruppo si indirizza verso forme di collaborazione tra industria, università e centri di ricerca, come attesta Massimo Lolli, Direttore Risorse Umane del Gruppo Marzotto, che in un’intervista (Cavalca Altan, 2002) dichiara che: “Ci dovrebbe essere una forte comunicazione sulle opportunità che offre il settore moda, sollecitare lo stato, le imprese, università, centri studi a lavorare nell’ottica del consorzio […].”
In questa prospettiva nel 2003 il Gruppo Marzotto organizza un Master Sistema Moda finanziato dal Fondo Sociale Europeo con l’obiettivo di fornire una formazione completa, non solo per sviluppare abilità tecniche ma anche gestionali e personali. La propensione a percorrere la strada della formazione attraverso il coinvolgimento delle università e dei centri di ricerca offre al Gruppo Marzotto l’opportunità di trasmettere i valori della cultura manifatturiera italiana e contemporaneamente consente all’azienda di attingere alle risorse creative dei giovani talenti.

La centrale elettrica dello stabilimento Marzotto vista dalla Città dell’Armonia © Francesco de Luca
La centrale elettrica dello stabilimento Marzotto vista dalla Città dell’Armonia © Francesco de Luca

In questa prospettiva nel 2011 il Gruppo Marzotto, in collaborazione con l’Università di Padova e l’Università del Michigan, ha messo a punto un progetto che coinvolge venticinque studenti universitari e neo-laureati, selezionati attraverso una call internazionale, per lavorare in team su temi strategici per l’innovazione dell’industria tessile, con l’obiettivo di tracciare una mappa delle possibili linee d’azione del Gruppo Marzotto.

Con obiettivi diversi ma in un’ottica affine opera “Linen Yarn”, un progetto del 2013 dedicato al lino e centrato sulla sostenibilità ambientale, che ha coinvolto gli studenti di tre scuole di moda internazionali: Central Saint Martins di Londra, Università Iuav di Venezia e Polimoda di Firenze. Messo a punto dal Gruppo Marzotto con Pitti Immagine, è stato presentato a Pitti Uomo 84 con l’intento di raccontare una nuova storia del lino, grazie alle sperimentazioni dei giovani coinvolti nel progetto e, nell’ottica del reciproco scambio e della contaminazione, avvicinare gli studenti a un’azienda tradizionale, mettendoli a contatto con quelle che sono le problematiche della produzione industriale.

Condivide questo orientamento anche il progetto “Looking for Designer”, una recente iniziativa del Gruppo Marzotto che mira alla selezione di giovani talenti per un percorso di formazione, che è stato definito tenendo conto che nel panorama contemporaneo della manifattura tessile è in atto un mutamento dei moderni concetti di produzione e sempre più la tecnologia convive e si confronta con una attitudine lenta e di ricerca, prevede quindi che l’attività progettuale e creativa sia articolata in azioni di team working e comprenda il confronto con gli archivi aziendali e una serie di incontri, visite e approfondimenti tematici e con esperti del mondo tessile. Il progetto ha evidenziato come il vero discriminante per la selezione e l’inserimento nelle aziende del Gruppo, sia la conoscenza delle tecniche e delle tecnologie tessili, soprattutto per le divisioni a indirizzo laniero, attualmente in fase di forte crescita. L’azienda ricerca giovani con un percorso formativo che associ sapere manuale a una preparazione superiore di tipo accademico e scientifico, una formula offerta dai programmi formativi delle scuole ad indirizzo tessile e moda soprattutto inglesi e tedesche.

In questo panorama si inserisce il workshop di progettazione “Tessile Pedemontano e Temporary Hosting”, workshop organizzato nell’ottobre 2014 nell’ambito di Re-Cycle Veneto Lab, un progetto attivato dall’unità dell’Università Iuav di Venezia all’interno della ricerca nazionale Recycle Italy, che ha costituito una rete di gruppi di lavoro per la sperimentazione di processi e progetti di riciclo nel Veneto, relazionandosi con aziende e imprese che operano sul territorio nei diversi segmenti delle attività produttive con la collaborazione della Regione Veneto attraverso finanziamenti del Fondo Sociale Europeo.

Il workshop “Tessile Pedemontano e Temporary Hosting” ha messo a confronto istituzioni che si occupano di formazione dei tecnici e dei creativi nel settore del tessile e dell’abbigliamento al fine di sperimentare nuove forme di connessione e di scambio fra industria, scuole e università. Da un lato, attraverso l’esempio dello storico Istituto Tecnico Industriale V.E. Marzotto e dell’annesso Museo delle Macchine Tessili fondato nel 1999 per testimoniare la storia tecnologica e la cultura materiale di un settore produttivo che ha segnato profondamente città e territorio, ha analizzato un modello didattico per la formazione di periti e chimici del tessile strettamente connesso alla nascita e alle trasformazioni di un’industria tessile. Dall’altro un modello legato alla cultura del design e della moda, come i corsi di laurea in Design della moda dell’Università Iuav di Venezia, una proposta formativa che nasce in un periodo di crisi della manifattura e di contemporanea ricerca di nuovi ruoli e nuove figure nel quadro di una realtà in profonda trasformazione. All’interno dell’università alcune esperienze didattiche e di ricerca sul design del tessuto istituiscono relazioni attraverso indagini d’archivio e a partire dal patrimonio delle manifatture dislocate sul territorio veneto. In questo quadro si collocano: “Archivi vivi”, un progetto in collaborazione con il comune di Schio; la mostra “Elda Cecchele: In forma di tessuto, negli spazi del Lanificio Conte” (2010); il workshop “Under the Cover”, in collaborazione con l’Archivio Lanerossi, e l’omonima mostra allestita a Venezia nelle Sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana; e anche i workshop e le mostre in collaborazione con il Lanificio Paoletti di Follina: “Refuso Tessile” (2013) e “Storytelling-Storymaking” (2014). Un terzo modello, quello sperimentale del temporary hosting, derivato dal modello delle residenze d’artista, si delinea come uno strumento di connessione tra impresa e diverse realtà che si occupano di formazione.

La riflessione sulle ipotesi progettuali e sulle metodologie di sviluppo del workshop ha individuato come modalità di restituzione del lavoro la costruzione di una serie di quaderni curati dagli studenti, che riflettono sulle tecniche abbandonate e ipotizzano la loro riattivazione nel nuovo ciclo della sperimentazione lenta, oppure considerano la progettazione del tessuto a partire dal design dell’abito e della modellistica e indagano nuove connessioni fra designer nell’industria tessile e designer nell’industria dell’abbigliamento, oppure lavorano a ipotesi di progettazione integrale o riflettono sull’identità di marca per suggerire nuovi percorsi alla produzione aziendale.

Le relazioni innescate dal workshop “Tessile Pedemontano e Temporary Hosting” tra università, industria e istituzioni dedicate alla formazione tecnica dislocate sul territorio hanno concretizzato un primo confronto tra i bisogni e l’offerta formativa in ambito tessile del territorio che ha evidenziato la possibilità – necessità di mettere a punto un progetto formativo capace di coniugare in maniera innovativa ed efficace le esigenze e le specificità dei diversi attori coinvolti, aprendo a un nuovo un percorso di ricerca focalizzato alla definizione di una piattaforma di collaborazione che coinvolga una rete di attori ai vari livelli dell’industria manifatturiera, della formazione e delle istituzioni che operano sul territorio in grado di progettare, sviluppare e gestire e un modello di formazione evoluto e innovativo.

Un tema che si inserisce nel dibattito in atto sulle potenzialità di sviluppo legate alle industrie culturali e creative e che riflette su un modello integrato di produzione che prevede la collaborazione tra artigianato, industria e creatività, e dove la formazione è un elemento generatore di connessione e sviluppo, e dimostra la necessità di interventi di connessione tra industria, università e istituzioni culturali e formative.

Bibliografia

Cavalca Altan, E., (2002) L’anima del vestito nuovo, Milano: Franco Angeli.

Gli inerti del Veneto.

Di Giuseppe Caldarola
Il recupero ecologico di materiali da costruzione individua un approccio alla pratica edilizia fondato su un principio di rigenerabilità delle stesse componenti, che si estende in una prospettiva multiscalare dalla dimensione del singolo manufatto a quella del sistema territoriale. Tuttavia, nel prefigurare frontiere operative ad alto indice di innovazione, i processi finalizzati al riciclo di inerti devono necessariamente passare al vaglio di un rigoroso sistema normativo, fatto di direttive, autorizzazioni, permessi e certificazioni, anche contrastanti, che ne regolamenta e vincola i presupposti di effettiva praticabilità o ne condiziona la “convenienza” del recupero in sostituzione dello “smaltimento”, oltre che l’opzione per i materiali riciclati in sostituzione di quelli naturali “vergini”. Uno degli esempi più lampanti di tale condizione riguarda lo scenario del Veneto, dove, all’esistenza di uno solido apparato produttivo e tecnologico fa riscontro un sistema normativo in parte arretrato, o almeno non organico e sistematico, che limita sensibilmente le opportunità di sperimentazione e ricerca da parte delle aziende specializzate nel settore.

Il riciclo di materiali attiene all’individuazione di modalità tecnico-operative e costruttive di reimpiego, tra gli altri, di scarti di attività edilizie (costruzioni e demolizioni),1 L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione. come anche di processi produttivi. La sistematica analisi di processi di riciclo di tali materiali diviene l’occasione per la creazione di reti di strutture produttive e finanziarie legate alla demolizione e allo smaltimento e al re-impiego degli scarti delle attività edilizie come dei processi di lavorazione (opportunamente trattati a costituire materie “prime” re-immissibili in cicli di produzione) ma anche all’investimento immobiliare su restauro e recupero che possono trarre vicendevolmente vantaggio economico e produttivo da un processo di riconfigurazione sostenibile del territorio.

Il continuo fabbisogno di materie prime – e per le quantità in gioco, centrali risultano la localizzazione sul territorio e il ruolo degli impianti di recupero – diviene una occasione per individuare modalità d’uso low-cost e low-tech alternative per tanti materiali di scarto generalmente destinati a smaltimento mediante conferimento in discarica o, nei casi migliori, al re-impiego per la realizzazione di sole opere ‘sottosuolo’ (sottofondi, strati di fondazione, riempimenti, colmate, ecc…). Numerosi sono gli studi e le sperimentazioni che muovono verso l’apertura di nuovi e molteplici campi applicativi per tali materiali. A fronte di numerose esperienze virtuose, specie in ambito europeo ed extra-europeo, questo settore -in verità centrale nel dibattito teorico e supportato dall’avanzamento delle sperimentazioni in atto- si muove in bilico tra innovazione tecnologica (possibile e auspicabile) e ritardi normativi. I contenuti di questo scritto racconlgono esiti interpretativi parziali delle attività condotte dall’autore durante l’annualità di assegno di ricerca FSE “Turismo, Territorio, Riciclo: riciclo di reti ferroviarie e infrastrutturali dismesse e di fabbricati abbandonati a favore dello sviluppo di itinerari turistici a percorrenza lenta nell’area veneta”, sub-titulo “Riciclo e Restauro territoriale”.2 La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.

Quali materiali: gli inerti riciclati

panoramica
Impianto di recupero, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Nell’ampia gamma dei materiali riciclati, particolarmente interessanti risultano gli inerti trattati dagli impianti di recupero il cui impiego è, sempre più spesso, sostitutivo (anche solo parzialmente) di materiali “naturali” o “vergini” nella realizzazione di manufatti infrastrutturali o in opere di ingegneria civile. Per queste realizzazioni si registra l’impiego di aggregati riciclati, specialmente ottenuti dalla lavorazione di rifiuti da costruzione e demolizione tra cui quelli derivanti dall’attività edilizia e dalla costruzione e manutenzione di strade, in affiancamento all’uso/ri-uso dei terreni e delle rocce da scavo. Tali rifiuti da C&D sono in gran parte composti da cemento, mattoni, mattonelle e altri materiali ceramici, terre e rocce, miscele bituminose, metalli, vetri, legni e plastiche, tutti (secondo la normativa vigente) catalogati come rifiuti speciali appartenenti al capitolo 17 del Codice CER. Per origine, essi derivano da attività di costruzione, manutenzione, ristrutturazione, demolizione, ecc. di edifici pubblici e privati; da opere civili e infrastrutturali; da attività industriali dei settori tra cui l’industria di prefabbricati, la ceramica, le pietre ornamentali, la fabbricazione e prefabbricazione di elementi e componenti delle costruzioni civili (mattoni, piastrelle, elementi strutturali in c.a., ecc.). La loro composizione può essere invece estremamente variabile in dipendenza dalla tecnologia di costruzione, dai tipi di materie prime, dalle condizioni territoriali (per quanto attiene a caratteristiche climatiche oltre che di sviluppo economico e tecnologico). Per tali materiali residuali, vale la pena ricordare che un impianto di recupero costituisce una alternativa al conferimento in discarica per rifiuti speciali non pericolosi e che all’interno del medesimo impianto vengono effettuate tutte quelle lavorazioni (selezione, separazione di materiali e sostanze indesiderate, vagliatura, deferrizzazione, ecc…) necessarie alla trasformazione del “rifiuto” stesso, sia questo composto da macerie o da scarti di processi produttivi, altrimenti destinato al conferimento in discarica e che comunque ha già esaurito il suo ciclo di vita, in materia prima. In un impianto di recupero si producono materiali che si possono ricomprendere nelle macrocategorie dei misti cementati (calcestruzzi e laterizi) generalmente composti da rifiuti da C&D, frazioni di raccolta differenziata non direttamente re-immissibili in cicli di produzione, scarti di processi di lavorazione (i.e., le sabbie refrattarie). Tra queste ultime, anche lo scarto di quelle impiegate per la realizzazione delle tegole canadesi), scorie (ceneri, scorie di acciaieria o loppa di fonderia) o sabbie di vetro (provenienti dalla frantumazione del vetro, la frazione non ricondotta in vetreria, proveniente da raccolta differenziata). Tutti questi materiali opportunamente trattati e vagliati concorrono alla formazione di macinati e stabilizzati per l’uso in sottofondi per opere infrastrutturali.

Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Stoccaggio di inerti lavorati, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

Tali scarti di attività edilizie e di processi di lavorazione, attraverso le lavorazioni condotte all’interno di impianti di recupero, concorrono alla formazione di nuovi materiali, utilizzati singolarmente o aggregati in mescola (con o senza agenti leganti bituminosi o cementizi) classificabili come: macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati vagliati. Costituiscono aggregati riciclati tecnici con più o meno elevate caratteristiche meccaniche di resistenza e portanza, prodotti da processi di frantumazione, selezione e vagliatura.

Ipotizzare per questi materiali usi alternativi in settori “altri” (pur tutti collegati alle attività edilizie) significa provare a valutarne l’applicabilità in ambiti innovativi tutti in grado di restituire esiti costruiti sul territorio e di delineare sostanziali variazioni nell’immagine complessiva dei luoghi. In generale i materiali riciclati possono divenire “occasione” per innescare processi produttivi e post-produttivi virtuosi se adottati in sostituzione di quelli di “prima” produzione e il loro uso risulta sostenibile sia da un punto di vista economico che ambientale. In questo senso è inevitabile il riferimento all’infrastrutturazione del territorio.

Con specifico riferimento all’area veneta, si possono già registrare una serie di progetti (alcuni realizzati, altri in corso di realizzazione o non ancora cantierizzati) di infrastrutturazione sia “pesante” che “leggera” del territorio che compongono una casistica più o meno “virtuosa” dell’uso degli inerti riciclati in sostituzione degli aggregati naturali. Vi si possono annoverare le realizzazioni della terza corsia sull’autostrada A4, da Venezia in direzione Trieste, della Valdastico e della Pedemontana Veneta piuttosto che numerosi percorsi e itinerari ciclabili e pedonali attrezzati sull’intero territorio regionale (i.e., la trasformazione della ferrovia dismessa Treviso-Ostiglia in itinerario ciclabile). Questi compongono una quadro variegato di esiti costruiti sul territorio, alcuni peraltro recentemente divenuti oggetto di cronaca per questioni di “qualità” del progetto, usi impropri o difformità dei materiali utilizzati, rispetto ai parametri fissati in fase di affidamento degli incarichi di progettazione o cantierizzazione, o per problematiche di natura ambientale occorse in fase di realizzazione o durante il ciclo di vita dei manufatti costruiti.

I cicli produttivi

Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014
Processi di lavorazione: movimentazione, separazione e vagliatura, REM srl, Motta di Livenza, foto di Giuseppe Caldarola, 2014

I cicli di produzione edilizia si sono tradizionalmente strutturati secondo modelli “lineari” che vanno dal reperimento delle risorse naturali (i.e., le attività estrattive) alla formazione dei rifiuti passando attraverso la produzione delle materie prime e delle componenti, la costruzione, l’intero ciclo di vita di materiali e di manufatti fino alla demolizione e allo smaltimento. Per contro l’uso dei materiali riciclati può dirsi innescare modelli di uso e gestione “ciclici” con un migliore impiego di risorse e con l’allungamento del loro ciclo di vita. In questa condizione tali materiali possono destinarsi al riuso di edifici interi, alla costruzione di nuovi edifici, alla produzione di nuovi componenti, alla produzione di nuovi materiali. Possono legarsi a scenari terminali quali il riuso di edifici o loro ricollocazione, di componenti (o ricollocazione in nuovi edifici), di materiali nella produzione di nuove componenti, il riciclo dei materiali da utilizzarsi al posto di risorse primarie. Gli inerti riciclati non sono più “rifiuti” ma a materie prime “seconde”, cioè non “vergini” ma derivanti da materiali per i quali, mediante post-produzione, si rende possibile un secondo ciclo di vita. Il passaggio terminologico dalle parole “rifiuto”, “scarto”, “scoria” a quello di “materie prime seconde” rende conto di un necessario cambio di paradigma di primaria importanza.

Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza
Tipologie di materie prime “seconde” (macinati rilevati vagliati, macinati rilevati, sabbie per sottofondi, stabilizzati variati) © REM srl, Motta di Livenza

Il loro uso suggerisce altrettanto necessari cambiamenti nei criteri di progettazione dei manufatti basati sulla circolarità della produzione edilizia, fondata sul recupero e riciclo di risorse e prodotti: a fine vita, non più “rifiuti”, ma materie prime “seconde” da riusare o riciclare. Il rifiuto diviene risorsa: si supera il concetto di “scarto” e, laddove ogni prodotto è composto da parti tecniche e biologiche, le prime possono re-immettersi nei cicli produttivi per nuovi assemblaggi e riusi con minimi consumi possibili di energia. Tutto ciò si basa su lavorazioni e cicli di post-produzione in impianto di recupero in verità abbastanza “elementari” (selezione, deferrizzazione, vagliatura, ecc.) e a basso contenuto tecnologico ma la loro efficacia, nei termini della produzione di materiali riciclati qualitativamente assimilabili a quelli naturali, passa necessariamente attraverso un più generale ripensamento dell’intero sistema della produzione edilizia.

Quali opportunità: gli usi possibili

Gli inerti riciclati trovano applicazione in forma legata o non legata: gli aggregati sono utilizzati “sciolti” o in mescola con agenti leganti, a formare misti cementati o bituminosi. È opportuno ricordare che, dal punto di vista del mercato, i fattori favorevoli all’uso degli aggregati riciclati in sostituzione di quelli naturali consistono prevalentemente nel prezzo minore, nella elevata domanda di materiali con basse prestazioni e nel contenimento dei costi di trasporto. I settori prevalenti di utilizzo riguardano la realizzazione delle opere in terra dell’ingegneria civile, dei corpi di rilevati delle medesime opere, di recuperi ambientali, riempimenti e colmate, di lavori stradali e ferroviari, di sottofondi stradali, ferroviari, aeroportuali e di piazzali civili e industriali, di strati di fondazione delle infrastrutture di trasporto, di strati accessori con funzione anticapillare antigelo e drenante. I conglomerati bituminosi, recuperati con fresatura, sono prodotti di elevate caratteristiche tecniche riutilizzabili nell’ambito delle stesse costruzioni stradali da cui provengono (strati di usura e collegamento composti da aggregati lapidei naturali e da bitume). I frantumati misti di demolizione trovano applicazione nella realizzazione dei corpi dei piazzali o delle strade in alternativa alle sabbie naturali, alle ghiaie e agli stabilizzati. I frantumati grossi di mattoni e cementi divengono materiali applicabili in sottofondi stradali quali strati inferiori rispetto alla stesa di misti stabilizzati, nonché in strati di fondazione di parcheggi e strade al di sotto di misti stabilizzati.

Tali materie prime seconde, opportunamente trattate in modo da poter essere assimilate ai materiali lapidei, trovano ulteriori utilizzi in manufatti per i quali si ricorre normalmente a inerti naturali. Tra gli usi possibili va citata la composizione di elementi alveolari, ripetibili all’infinito, utilizzati nella formazione di sistemi di pavimentazione da esterni. Possono inoltre divenire componenti per la rimodellazione ambientale, a formare elementi di svariate forme, anche molto irregolari. Tra gli usi più largamente attestati si ritrovano applicazioni per la formazione di elementi standardizzati per pavimentazioni di superfici scoperte (i.e., nei parcheggi) con caratteristiche utili a garantire percentuali graduali di permeabilità dei suoli e sagome idonee alla formazione di vuoti normalmente destinati all’inerbimento. Ulteriori impieghi di inerti riciclati in sostituzione di quelli naturali riguardano la formazione di terre armate, pareti di sostegno rinverdibili per scarpate, rilevati e terrapieni; rivestimenti e terrazzamenti, divisori di proprietà, barriere verdi fonoassorbenti (anche in calcestruzzo riciclato e terra), barriere verdi di protezione visiva, elementi di arredo urbano tra cui dissuasori stradali, elementi di seduta, pavimentazioni di percorsi pedonali. Ma i materiali riciclati (non solo gli inerti classici) vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di calcestruzzi (con funzione non strutturale): si fa riferimento ai calcestruzzi additivati con vari materiali anch’essi di riciclo (applicazioni in pavimentazioni industriali), con polimeri riciclati (in sottofondi di supporto per impianti di riscaldamento a pavimento, per barriere antirumore), con canapa e materiali naturali di origine vegetale (per isolamento murature, formazione di intonaci isolanti per murature interne e esterne e coperture), con ceneri volatili (produzione di cementi di miscela e sottofondi stradali).

Quali ostacoli: tra normative e filiere produttive interrotte

La molteplicità di usi individuati per gli inerti riciclati rende conto di una serie di “occasioni” di progetto che possono trarre vantaggio dal ricorso a tali materiali in sostituzione di quelli naturali o di prima produzione. Sussistono tuttavia anche elementi ostativi e limitazioni d’uso che attengono a molteplici ordini di fattori. Si tratta di vincoli indotti dai processi di produzione piuttosto che dalle specifiche normative di settore. A questi si affiancano questioni più strettamente legate alla “percezione” di tali materie prime seconde, ancora legate alla condizione di “rifiuto”, di “scarto”. La sommatoria di questi tre fattori rende il settore degli inerti riciclati non ancora in grado di esplicitare a pieno le proprie potenzialità.

Il primo ordine di fattori è legato alle problematiche relative alla selezione di materiali idonei a essere immessi all’interno di processi di recupero ecologico, che vincola e gradua su scala territoriale (con differenze cospicue a seconda dei contesti geografici) l’effettiva opportunità di propendere per riciclare tali materiali presso aziende specializzate invece che per il conferimento in discarica. A questo si deve sommare la disponibilità di materie prime e la facilità di reperimento in prossimità degli ambiti territoriali in cui si localizzano gli interventi. Da questa condizione sembra infatti derivare la maggiore o minore propensione all’uso dei riciclati sia dal punto di vista dell’investimento su innovazione tecnologica e sperimentazione che dell’adeguamento dei processi produttivi e delle progettazioni per il conseguimento di obiettivi di qualità di prodotto e per la costruzione di filiere produttive con il coinvolgimento di più attori di processo. E le problematiche legate alla filiera produttiva attengono anche alle specifiche condizioni e tipologie degli impianti di recupero e delle lavorazioni dagli stessi effettuate.

Il secondo ordine di fattori è legato ai quadri normativi vigenti, alla sommatoria degli stessi (direttive, normative e regolamenti europei, nazionali, regionali e locali) e ai conflitti di competenze tra Enti e soggetti legiferanti o preposti al controllo e tra questi e i tessuti produttivi locali. Ne derivano alterne applicazioni, più o meno “virtuose” dal punto di vista del contenimento del consumo di risorse e delle condizioni di facilitazione o inibizione di lavorazioni, produzioni e immissioni sul mercato di materiali innovativi o di facilitazioni di processo.

Il terzo ordine di fattori – in parte più aleatorio rispetto ai precedenti – appare parimenti importante e attiene ad un cambiamento nella “percezione” della qualità dei materiali riciclati, da scindersi rispetto all’origine degli stessi a partire da un “rifiuto”, dallo “scarto”: ciò, al fine di generare nuove disponibilità all’uso di tali materiali da parte dei possibili nuovi utilizzatori. Favorisce questo necessario cambiamento di percezione la sostituzione dei termini di “rifiuto” e di “scarto”con quello di materie prime “seconde” e una diversa comunicazione sui temi del recupero ecologico, al fine di sensibilizzare gli attori di processo all’aggiornamento dei quadri conoscitivi sulle proprietà e caratteristiche dei materiali riciclati, anche attraverso un più sistematico confronto di caratteristiche, convenienze, opportunità e possibilità applicative.

Si muovono sicuramente nella direzione della rimozione di alcuni degli elementi limitativi dell’uso degli inerti riciclati alcune modifiche recenti sui dispositivi di legge e sui principali documenti normativi, anche se gli indirizzi innovativi hanno carattere prevalentemente ambientale e sono spesso riconducibili a strategie e politiche legate ad un’ottica di futura “Discarica zero” senza incidere sulle nature dei materiali e sul loro confezionamento e trattamento.

Un esempio di aggiornamento dei quadri normativi di riferimento è rintracciabile ad esempio nell’autorizzazione all’uso (in quota parte) dei materiali riciclati per il confezionamento dei calcestruzzi. Tra le previsioni del Green Public Procurement (GPP o Acquisti Verdi), vi sono alcune definizioni di Criteri Ambientali Minimi per le categorie delle costruzioni e ristrutturazioni di edifici con particolare attenzione ai materiali edili, alla costruzione e manutenzione delle strade e all’arredo urbano. Nella Direttiva 98/2008/CE, che fissa gli obiettivi di riciclo e riporta la politica europea in tema di rifiuti, si rimarca la priorità delle operazioni di riciclaggio rispetto a quelle di smaltimento in discarica e vi si dettano le condizioni per elaborare criteri affinché i rifiuti, se sottoposti ad operazioni di recupero (incluso il riciclaggio), cessino di essere tali in un’ottica di perseguimento dell’obiettivo end of waste.3 La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione. Con riferimento alla Certificazione LEED degli edifici, si fissano una serie di pre-requisiti obbligatori per i quali l’edificio o il manufatto edilizio in costruzione o ristrutturazione possa ottenere, appunto, la certificazione: tali criteri attengono alle macro-categorie di sostenibilità del sito, gestione delle acque, energia e all’atmosfera, materiali e uso delle risorse, qualità ambientale, innovazioni introdotte nella progettazione. Con riferimento al tema dei rifiuti da C&D, sussistono una serie di requisiti e relativi obblighi corrispondenti tra cui la dotazione di stazioni di riciclo o riuso dedicate alla separazione, alla raccolta e allo stoccaggio di materiali da riciclare o la localizzazione di progetti all’interno di amministrazioni locali che effettuino la raccolta differenziata; la presenza di punti di raccolta per conferimento di rifiuti potenzialmente pericolosi; di stazioni o siti di compostaggio; localizzazione in isolati ad uso misto o non residenziale di contenitori per la raccolta differenziata. Per le attività di costruzione e demolizione, infine, l’obbligo di riciclare e/o recuperare almeno il 50% dei rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi e di elaborare un piano di gestione dei rifiuti che identifichi i materiali destinati a discarica e/o a impianto di recupero. Tutto ciò, come evidente, fa riferimento alla tendenza al potenziamento d’uso dei materiali riciclati – nello specifico, appunto, gli inerti – e passa soprattutto attraverso l’accurata progettazione delle attività di demolizione, nel senso di giungere a una “vera” demolizione selettiva.

A livello di regolamenti e di quadri di riferimento normativi prodotti dagli Enti locali, la Provincia Autonoma di Trento ha elaborato un apposito Piano Provinciale per lo Smaltimento dei Rifiuti con specifico stralcio per la gestione dei rifiuti speciali inerti non pericolosi provenienti da costruzione e demolizione; le Norme Tecniche Ambientali per la produzione dei materiali riciclati e posa nella costruzione e manutenzione di opere edili, stradali e recuperi ambientali (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011, n.1333 – All. B) e le Linee Guida per la corretta gestione di un impianto di recupero e trattamento rifiuti e per la produzione di materiali riciclati da impiegare nelle costruzione (Del. Giunta Provinciale 24 giugno 2011 – All. A). La necessità della dotazione di tali strumenti nasceva proprio dalle specifiche condizioni dei settori produttivi trainanti dell’economia trentina, specie caratterizzata dall’attività estrattiva. Inoltre la Regione Emilia Romagna ha più recentemente predisposto il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti che, tra i numerosi obiettivi e priorità, ha posto la promozione di strumenti operativi finalizzati a favorire una gestione dei rifiuti ambientalmente corretta e sostenibile, anche finalizzata a dare nuovo impulso allo sviluppo economico di vari settori imprenditoriali.

Ben diverso appare lo stato di avanzamento dei quadri di riferimento normativi e delle ricadute sui processi produttivi se si guarda all’area veneta. Questo contesto regionale appare significativo per sue condizioni intrinseche: non solo per la localizzazione e il numero di impianti di recupero sul territorio ma anche (dato, questo, che sembrerebbe in controtendenza) la ridotta operatività degli stessi a fronte della quantità di domanda di movimentazione di materiali generata e supportata dalle specifiche condizioni del tessuto produttivo e delle attività edilizie. In questo contesto territoriale, a fronte di un elevato indice di innovazione di processo e di prodotto, molte lavorazioni e sperimentazioni non risultano possibili o ancora economicamente vantaggiose a causa di ritardi e lacune dei sistemi e degli strumenti normativi oltre che delle specifiche condizioni del settore di produzione dei materiali riciclati. Tra le altre cose, vale la pena ricordare l’assenza di un piano generale sistematico di gestione dei rifiuti o di regolamentazione delle attività estrattive, condizione per cui se da un lato è cresciuta negli ultimi anni la localizzazione di impianti di recupero sul territorio, dall’altro (e parallelamente) si assiste ancora al rilascio di licenze per lo sfruttamento delle attività estrattive che generano ulteriori consumi di risorse naturali e di territorio. E questa condizione appare rafforzata dall’attuale crisi del settore edilizio che ha generato anche una riduzione delle “convenienze” in termini di costi di produzione, di vendita e di trasporto di materiali riciclati rispetto a quelli naturali, di cava. Da ciò, la non primaria necessità e importanza dell’aggiornamento dei capitolati d’appalto e una sostanziale riduzione della disponibilità degli attori di processo alla valutazione di scenari alternativi di produzione edilizia.

Inerti riciclati e progetto di architettura, di territorio, di paesaggio

Il bilanciamento tra opportunità d’uso dei materiali riciclati ed elementi ostativi del loro impiego – li si è detti di carattere normativo, di processo di produzione, di filiera e di applicazioni possibili – restituisce parimenti “saldo positivo” e sostiene ugualmente la tendenza all’innovazione. Tra le varie possibilità, risulta particolarmente in grado di aprire nuovi scenari l’impiego degli inerti riciclati in opere “sopra-suolo” e, più specificatamente, nel progetto di architettura, di territorio e di paesaggio. Il lavorare con gli inerti riciclati offre infatti ampie potenzialità multiscalari che vanno dalla scala del singolo manufatto edilizio e delle sue componenti alla ristrutturazione territoriale e sua nuova infrastrutturazione secondo logiche differenti rispetto a quelle ormai consolidate nelle pratiche progettuali. Rispetto alle attuali condizioni di contesto – e con riferimento non solo al livello nazionale italiano, ma soprattutto ai contesti regionali e, specie, in aree quali quella veneta – il settore degli inerti riciclati per meglio esprimere le potenzialità dei materiali stessi necessita della garanzia di adeguatezza della lavorazione dei materiali negli impianti di trattamento (in termini di efficacia ed efficienza) e di disponibilità dei prodotti recuperati nel territorio; della rispondenza delle caratteristiche dei prodotti recuperati ai requisiti di idoneità previsti dalle specifiche normative di settore; dell’individuazione di condizioni di applicabilità degli inerti, opportunamente verificati e certificati, alle varie occasioni progettuali; del perseguimento dell’obiettivo del raggiungimento di livelli prestazionali in opera simili o confrontabili tra aggregati riciclati e di origine naturale anche attraverso una attenta valutazione dei benefici ambientali ed economici.

Tali condizioni possono generarsi anche e soprattutto attraverso un’alterazione dell’attuale network di relazioni –ancora in contesto veneto molto limitate – che coinvolge il sistema delle aziende che si occupano di recupero ecologico, ipotizzando prospettive di apertura verso ulteriori categorie di interlocutori.

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1. L’andamento del settore delle costruzioni a livello nazionale (fointe ISPRA, rapporto sui rifiuti, gennaio 2013, disponibile on-line all’indirizzo www.isprambiente.gov.it) fornisce indicazioni utili a comprendere le quantità in gioco. I dati disponibili sono aggiornati al 2010 e indicano che a fronte di una produzione pari a 42 Mt, le quantità di materiali destinati a recupero si aggirano intorno a 30Mt con un tasso pari a circa il 70%. Occorre tuttavia discutere questo dato in quanto non tutti i rifiuti recuperati rientrano nella filiera delle costruzioni e che una parte delle quantità in gioco vengono indicate come “recuperi” solo impropriamente ove dovrebbero più correttamente indicarsi come smaltimenti. Infine, va rimarcato che non tutti i materiali recuperati hanno le caratteristiche per essere veri e propri prodotti da costruzione.
2. La ricerca è stata condotta in partenariato tecnico-operativo con l’azienda REM srl di Motta di Livenza, referenti aziendali Alberto Battistella e Marta Camilotto, che qui si ringrazia per il contributo di idee e per il supporto generale in ogni fase delle attività.
3. La direttiva impone, al fine di definire il momento il cui un rifiuto sottoposto a operazioni di recupero diventi prodotto, di elaborare criteri specifici finalizzati alla valutazione della qualità degli aggregati riciclati. Gli aggregati devono rispondere a requisiti tecnici e ambientali. Dal punto di vista del primo ordine di requisiti, la rispondenza viene ‘certificata’ a mezzo della marcatura CE secondo le Norme Europee Armonizzate; per quanto attiene invece ai requisiti ambientali, la rispondenza viene verificata a mezzo di test di cessione.

Vecchi edifici per nuove architetture.

Di Damiana Lucia Paternò
Per lungo tempo, l’immagine di Andrea Palladio è stata quella veicolata attraverso I Quattro Libri dell’Architettura: sfogliando le pagine del trattato, i disegni per i palazzi, le ville, le opere pubbliche e religiose emergono dallo spazio bianco del foglio senza dare indicazioni sulle soluzioni materiche e tecnologiche adottate, sulle esigenze dettate dal cantiere, sulla presenza o meno nel sito di costruzione di manufatti più antichi. In realtà, in molte delle opere sicuramente attribuibili all’opera dell’architetto cinquecentesco si rileva l’esistenza di strutture precedenti, più o meno antiche e di consistenza variabile, cui la nuova costruzione si affianca o si sovrappone direttamente. La scelta di non demolire ma di riutilizzare ciò che è esistente determina, nelle architetture palladiane, una condizione di partenza che spesso influenza non solo le modalità costruttive adottate, ma anche quelle formali e compositive.

Le mot et la chose sont modernes”, la parola e la cosa sono moderne: è questo l’incipit con cui Eugène Viollet-le-Duc apre la voce “Restauration” nel Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVe siècle (1865). E’ una frase tanto breve quanto illuminante, con la quale l’architetto francese evidenzia come il termine restauro – sebbene di origine antica – abbia assunto nell’Ottocento un diverso significato rispetto ai secoli precedenti in relazione a una nuova concezione della storia e ad una diversa sensibilità verso le attestazioni del passato. Una tale definizione potrebbe essere mutuata anche per la parola “riciclo”: le diverse accezioni del suo significato, infatti, non possono essere comprese senza fare riferimento al panorama culturale del XX secolo e, più in dettaglio, alla crisi della società dei consumi e del relativo modello di crescita, basato sul continuo processo di dismissione/distruzione dei propri prodotti quale principale premessa per la realizzazione del nuovo (Emery, 2011). Il riciclo si configura come una delle alternative possibili per reimmettere in un circuito di produzione e significato quei materiali, oggetti, architetture, o addirittura parti di città che seguendo un ciclo di vita lineare quanto mai contratto, possono essere diventati obsoleti o trasformati in scarti. Alla luce di tali considerazioni, appare scontato osservare che una condizione come quella appena descritta è molto lontana dal periodo in cui opera Andrea Palladio, contraddistinto da un altro modo di intendere le parole “tempo”, “consumo”, “durata” e “produzione”. Sarebbe quindi improprio parlare di riciclo nell’architettura del Cinquecento, ma, semmai, di riuso: inglobare, trasformare, ricollocare pezzi o intere parti di fabbriche preesistenti nelle nuove costruzioni è infatti una consuetudine della prassi edificatoria sin dal mondo antico, rispetto alla quale le architetture palladiane non fanno eccezione.

Per lungo tempo, l’immagine di Palladio è stata quella veicolata attraverso I Quattro Libri dell’Architettura (1570): sfogliando le pagine del trattato, i disegni per i palazzi, le ville, le opere pubbliche e religiose emergono dallo spazio bianco del foglio senza dare indicazioni sulle soluzioni materiche e tecnologiche adottate, sulle esigenze dettate dal cantiere, sulla presenza o meno nel sito di costruzione di manufatti più antichi. La principale ragione di questa scelta dipende dalla visione teorica che sottende alla stesura dell’opera scritta: per presentare i modelli di quella “usanza nuova” di cui è ambasciatore, Palladio elabora delle versioni perfezionate dei propri lavori, frutto molte volte di vere e proprie riprogettazioni eseguite nell’ultima fase della vita alla luce di una diversa maturità (Burns, 2009). La realtà costruita è quindi spesso molto distante da quelle xilografie: già nel Settecento il palladianista Ottavio Bertotti Scamozzi (1776-1783) sottolineava le numerose discrepanze tra ciò che era raffigurato ne I Quattro Libri e quanto effettivamente realizzato, ma solo a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, sulla scia degli apporti della cultura materiale, l’effettiva consistenza fisica degli edifici palladiani è divenuta oggetto di studi approfonditi, aprendo a nuove prospettive con cui indagare l’attività di questo architetto. Un dato d’immediata evidenza, desumibile sia dalla bibliografia edita che dall’osservazione diretta di alcune fabbriche realizzate, è che almeno in ventidue delle opere sicuramente autografe e il cui cantiere inizia prima del 1580 – anno della morte di Palladio – si rilevano strutture precedenti più o meno antiche e di consistenza variabile, a cui la nuova costruzione si affianca o si imposta direttamente. 1Si rimanda a questo proposito alla ricerca “Andrea Palladio: materiali tecniche e finiture”, svolta nel 2014 presso l’Università IUAV di Venezia in partnership con il Ministero dei Beni Culturali e il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, i cui esiti sono stati esposti al XIV seminario internazionale sul restauro architettonico “Andrea Palladio: cantieri di carta, calce e mattoni” a cura di D. Paternò, M. Piana, U. Soragni (Albettone 27 novembre 2014).

La scelta di non demolire ma di riutilizzare ciò che è già esistente è principalmente dettata dalla necessità di “lasciar da parte […] le superflue spese” (Palladio, 1570, I, p. 5) e rappresenta una condizione di partenza che spesso influenza non solo le modalità costruttive adottate, ma anche quelle formali e compositive.

Nella villa Gazzotti, ad esempio, vengono completamente inglobate le strutture murarie appartenenti a una torre di difesa di epoca medievale, il cui ingombro – come si evince anche solo osservando lo spessore più consistente delle murature nella pianta del piano nobile – corrisponde all’ambiente a destra della loggia (Winter & Fuchs, 2011). L’assenza d’intonaco di finitura permette di avanzare puntuali osservazioni stratigrafiche e di leggere chiaramente sia all’interno che sul prospetto orientale lo sviluppo di tale manufatto e le trasformazioni occorse prima del XVI secolo: la parte cinquecentesca si imposta direttamente sulla preesistenza e sfruttando anche i resti di una casa quattrocentesca, la villa Pagello, si estende verso ovest e verso nord. Il prospetto principale a meridione, invece, si configura come una nuova quinta muraria di spessore pari a quattro teste in corrispondenza delle paraste addossata alla torre, la cui presenza, però, obbliga Palladio ad adottare su questa porzione soluzioni che in apparenza contraddicono le regole di simmetria del Trattato. Le due piccole aperture sul basamento dell’ala est, infatti, non sono centrate rispetto alle finestre del superiore piano nobile, pur essendo realizzate contemporaneamente al resto della muratura. E’ un’eccezione dettata dal totale mantenimento della volta a botte al piano seminterrato della preesistenza, la quale essendo contraddistinta sul lato sud da lunette e unghie a definizione dei suddetti varchi murari, obbligava a rispettarne la posizione.

Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto meridionale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro, prof. M Piana, 2011
Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto meridionale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro, prof. M Piana, 2011
Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto orientale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro prof. Piana, 2011
Vicenza, villa Gazzotti. Ortofoto del prospetto orientale, Università Iuav di Venezia, Corso di Restauro, prof. M Piana, 2011

Cingere con nuove murature strutture già esistenti, reimpostando così le facciate è una ‘strategia’ ricorrente che appare anche in altre opere; solo per citarne alcune, si pensi a villa Trissino a Meledo, dove ai resti di edifici adibiti ad attività molitoria viene aggiunto esternamente un possente paramento in bugnato rustico lapideo (Battilotti, D’Incau, Franceschi, Lazzari & Piana, 2012), o a villa Thiene a Quinto Vicentino, le cui paraste sui prospetti esterni rivestono in alcune parti murature precedenti, quest’ultime ancora parzialmente riconoscibili per le caratteristiche dei laterizi e per le tracce di finitura a regalzier (Gabbiani, 2000; Ghisetti Giavarina, 2003; Gabbiani, 2011).

Proprio villa Thiene è forse uno dei casi più significativi per comprendere lo scarto tra la versione pubblicata nel 1570 (Palladio, II, p. 64) e l’effettiva realizzazione; quest’ultima si configura come una vera e propria operazione di trasformazione e ampliamento di una casa dominicale del XV secolo, ragione a cui probabilmente ascrivere la peculiare distribuzione degli ambienti rispetto ad altri edifici palladiani della medesima tipologia. Dalla testimonianza di Francesco Muttoni (1740) e dalle indagini compiute in occasione dei restauri degli anni ‘90 del XX secolo (Gabbiani 2003; Gabbiani 2011), sappiamo che la fabbrica cinquecentesca era contraddistinta da un corpo centrale con un’ampia loggia, fiancheggiato da ali aventi distribuzione planimetrica speculare; in quella meridionale la casa quattrocentesca era stata integralmente mantenuta nelle sue forme e dimensioni, mentre nella porzione a settentrione – l’unica sopravvissuta alle profonde trasformazioni e demolizioni avvenute tra fine Settecento e inizi Ottocento – era stata in parte inglobata in una nuova costruzione dall’aspetto classico.

Quinto Vicentino, villa Thiene. Vista del prospetto occidentale, foto di Damiana Paternò , 2014
Quinto Vicentino, villa Thiene. Vista del prospetto occidentale, foto di Damiana Paternò, 2014
Quinto Vicentino, villa Thiene
Quinto Vicentino, villa Thiene. Prospetto occidentale, dettaglio della finitura a regalzier appartenente al corpo quattrocentesco, foto di Damiana Paternò, 2014

L’esigenza di mantenere e adattare fabbriche più antiche è una condizione ancora più stringente quando Palladio interviene in tessuti densamente edificati come quello della città di Vicenza; è una permessa che caratterizza sin dalle prime fasi l’iter progettuale di due tra le sue opere più famose, palazzo Barbaran da Porto e la Basilica: in entrambe egli sviluppa soluzioni asimmetriche sia in pianta che in alzato, in cui vengono adottate specifiche scelte compositive atte ad assorbire l’irregolarità dimensionale data dalle preesistenze.

Nel caso delle logge che cingono il palazzo della Ragione, la necessità di rispettare gli allineamenti dei percorsi che al piano terra attraversavano trasversalmente il corpo medievale comporta l’elaborazione di una vera e propria ‘macchina elastica’, basata sull’iterazione del sistema a serliana (Beltramini, 2008). Tenendo costante la luce degli archi e variando quella dei due architravi laterali, Palladio realizza così delle facciate che si percepiscono come regolari, ma in cui la dimensione delle campate varia sempre in relazione alle aperture e ai passaggi del più antico palazzo pubblico.

Strategie analoghe vengono attuate quasi venti anni dopo dall’inizio del cantiere per la Basilica nel palazzo Barbaran da Porto, l’unico edificio che Palladio riuscirà a terminare in vita nella città berica. L’area su cui insiste l’edificio può essere interpretata come un vero e proprio palinsesto che racconta un brano della storia di Vicenza. Le indagini archeologiche condotte durante l’ultima campagna di restauri (Rigoni, 2000) hanno infatti riscontrato i resti del primo decumano minore del settore destrato del municipium di Vicentia e di murature fondazionali appartenenti a fabbriche di periodo romano e medievale, su cui poi era successivamente sorto un complesso edilizio nel corso del Quattrocento. Articolato in più corpi intorno a un cortile centrale (Beltramini, 2000b), tale complesso era stato negli anni venti del Cinquecento diviso tra i due rami della famiglia Barbarano: una casa alta e poco profonda che occupava il lato settentrionale del lotto e alcuni ambienti sul fronte sud verso contra’ Porti erano stati ereditati da Montano Barbarano, il committente del palazzo palladiano. Un edificio con un doppio loggiato caratterizzava invece il lato sud ed era di proprietà dei cugini; un alto muro di cinta con ballatoio, dove era ubicato anche il portone, delimitava l’area a nord. I limiti dettati dall’impossibilità di demolire le fabbriche esistenti e l’acquisto a cantiere avviato della porzione dei cugini da parte di Montano spingono anche in questo caso Andrea a elaborare una soluzione finale in cui si distanzia nettamente dai suoi schemi abituali e dove rinuncia a qualsiasi soluzione simmetrica. Egli non interviene sul fronte ovest e si limita solamente a regolarizzare le aperture dell’edificio a nord, sul cui prospetto esterno affacciato su contra’ Riale è ancora chiaramente riconoscibile il basamento a scarpa con toro lapideo superiore. Invertendo l’accesso principale di 180° gradi e spostandolo su contra’ Porti, realizza sul lato orientale un atrio il cui sviluppo planimetrico – sebbene percepito come perfettamente rettangolare- presenta invece un andamento trapezoidale, essendo pesantemente vincolato dall’andamento sghembo delle strutture murarie preesistenti. L’espediente che adotta è assimilabile a quello delle serliane della Basilica, in quanto la distanza tra le colonne centrali su cui imposta le volte è sempre la medesima, ma cambia progressivamente la dimensione delle architravi laterali. Allo stesso tempo evita che gli angoli acuti ed ottusi dell’ambiente vengano percepiti come tali, introducendo nei punti di congiunzione tra le pareti dei quarti di colonne. Scelta simile si ripete anche nella facciata principale, dove la differente luce delle campate, dettata sempre dal problema dagli allineamenti con le preesistenze, è mascherata mantenendo costante la dimensione delle finestre rettangolari e variando quella delle spalle (Beltramini, 2000a; Beltramini & Gros, 2008).

Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista del fianco settentrionale, foto Damiana Paternò 2015
Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista del fianco settentrionale, foto Damiana Paternò 2015
Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista dell’atrio di ingresso, foto Damiana Paternò, 2015
Vicenza, palazzo Barbaran da Porto. Vista dell’atrio di ingresso, foto Damiana Paternò, 2015

Ultimo caso da citare in questo breve excursus è il teatro Olimpico, progetto il cui cantiere inizia pochi mesi prima dalla morte dell’architetto cinquecentesco. In questo caso lo schema del teatro romano mutuato da Vitruvio viene opportunamente reinterpretato per rispettare i confini dell’area a disposizione e sfruttare al meglio le murature medievali appartenenti alle vecchie prigioni; la cavea diventa così ellittica e viene inserita all’interno della lunga stanza trapezoidale preesistente, il cui muro verso sud è parzialmente demolito per permettere la realizzazione del palcoscenico e della scena (Burns, 2008; Danzi, 2011).

L’Olimpico è il ‘testamento spirituale’ di Palladio sotto molteplici aspetti: per la capacità di reinterpretare i dettami degli antichi, per l’uso di materiali economici come legno, mattoni e intonaco a simulazione di più ricche superfici marmoree e non ultimo per la capacità di riutilizzare quanto già presente, trasformando i vincoli imposti dal sito come occasioni di per fare una nuova architettura. Proprio quest’ultimo aspetto è uno dei meno indagati nell’ambito della storiografia palladiana: è un tema che però potrebbe aprire nuove prospettive con cui osservare l’opera dello scalpellino Andrea e che al tempo stesso – in un momento come quello odierno in cui il dibattito architettonico ruota intorno al problema del ‘costruire nel costruito’, rigenerando, riciclando e ripensando l’esistente – rappresenta una lezione di grande attualità.

Bibliografia

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Beltramini, G. (2000a). L’architettura. In Avagnina, M. E., Beltramini, G., Binotto, M., Ferrari, S. & Rigoni, M., Guida a Palazzo Barbaran da Porto (pp. 20-27). Verona: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio.

Beltramini, G. (2000b). Palladio e il palazzo di Montano Barbarano. In Avagnina, M. E., Beltramini, G., Binotto, M., Ferrari, S. & Rigoni, M., Guida a Palazzo Barbaran da Porto (pp. 8-19). Verona: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio.

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Beltramini, G. & Gros, P. (2008). Palazzo Barbarano. In G. Beltramini & H. Burns (a cura di), Palladio (pp. 208-217). Venezia: Marsilio.

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Ghisetti Giavarina, A. (2003). Preesistenze e trasformazioni in due opere di Palladio: villa Godi a Lonedo e villa Thiene a Quinto Vicentino. Opus. Quaderno di storia dell’architettura e del restauro, 7, 236-240.

Muttoni, F. (1740). Architettura di Andrea Palladio vicentino. Di nuovo ristampata e di figure in rame diligentemente intagliate arricchita, corretta, e accresciuta di moltissime fabbriche inedite con le osservazioni dell’architetto N.N. (Vol. I, pp. 39-41). Venezia: Angelo Pasinelli.

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Viollet Le Duc, E. E. (1865). Restauracion. In Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle (Vol. VIII, pp. 14-34). Paris: Morel et Co.

Winter, T. & C. Fuchs (2011). Villa Gazzotti a Bertesina. Notizie sulle ricerche in corso. In M. Piana & U. Soragni (a cura di), Palladio materiali tecniche restauri in onore di Renato Cevese (pp. 87-95). Venezia: Marsilio.

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1. Si rimanda a questo proposito alla ricerca “Andrea Palladio: materiali tecniche e finiture”, svolta nel 2014 presso l’Università IUAV di Venezia in partnership con il Ministero dei Beni Culturali e il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, i cui esiti sono stati esposti al XIV seminario internazionale sul restauro architettonico “Andrea Palladio: cantieri di carta, calce e mattoni” a cura di D. Paternò, M. Piana, U. Soragni (Albettone 27 novembre 2014).

Breaking the Mould.

Intervista con AUT
Nel panorama italiano della produzione artigianale, il contesto dell’isola di Murano possiede una posizione di indubbio rilievo per la sua millenaria tradizione nel settore relativo alla lavorazione del vetro soffiato. A fronte di tale specificità, tuttavia, il distretto muranese vive ormai da anni una condizione di lento declino, causato in prima istanza dalla difficoltà che le aziende locali sperimentano nel mettersi al passo con le sempre più incalzanti esigenze del mercato. È in questo scenario che, a partire dal 2011, si colloca Breaking the Mould: un progetto di ricerca analitica e sperimentale che ragiona sulla possibilità di recuperare le tecniche tradizionali di soffiatura del vetro muranese integrandole con le opportunità innovative offerte dall’attuale contesto tecnologico, con l’intento di approdare all’individuazione di approcci produttivi in grado di coniugare proficuamente tradizione e innovazione.

Come e quando nasce Breaking the Mould?

In seguito a varie sperimentazioni condotte individualmente da alcuni di noi sul vetro soffiato a bocca, alla fine del 2011 abbiamo sentito l’esigenza di creare uno spazio di condivisione di saperi ed esperienze, il più possibile aperto e multidisciplinare: una vera e propria piattaforma di ricerca e sperimentazione, che coinvolgesse non soltanto designer, ma anche artigiani, tecnici, scienziati dei materiali, videomaker, architetti. Ciò che ci interessava maggiormente allora, e ci interessa tutt’ora, è creare piccoli cortocircuiti all’interno del mondo tradizionale e consolidato del vetro artigianale, che riescano a introdurre un qualsiasi grado di innovazione formale, tipologica o produttiva. Ovviamente è un processo non sempre facile, di mediazione, con risultati a medio e a lungo termine.

BTM 01 / The Mould – Esperimento 02a
BTM 01 / The Mould: esperimento 02A
Quali sono i principali aspetti del processo tradizionale di soffiatura del vetro muranese su cui avete concentrato le vostre sperimentazioni?

I primi tre progetti si sono concentrati sul processo di soffiatura a stampo, inteso come una delle principali tecnologie produttive attraverso cui è possibile dare forma al vetro. È una decisione che abbiamo preso per il valore culturale che questo particolare processo possiede, dovuto al suo legame con la storia e l’identità del contesto produttivo muranese. È stato, infatti, il metodo tradizionalmente più utilizzato a Murano per la realizzazione di oggetti in vetro, in particolar modo per quelli di uso comune. È certamente meno spettacolare, meno “artistico” delle lavorazioni a mano libera, ma è altrettanto interessante perché, per sua natura, sottintende un legame quotidiano con la lavorazione del vetro e le sue implicite dinamiche. Insomma: con la vita di tutti i giorni di una tipica fornace muranese.

BTM 03 / Venice>>Future –  In Salviati durante le fasi di soffiaggio
BTM 03 / Venice>>Future: in fornace durante le fasi di soffiaggio (Salviati)
E in che modo, di contro, avete messo in relazione le specificità implicite in tale tradizione produttiva con il panorama delle tecnologie attuali?

Le prime due fasi del progetto (BTM 01/The Mould e BTM 02/Pattern) questo processo produttivo è stato alterato: i tradizionali stampi in legno di pero, usati per formare il vetro, sono stati sostituiti da “tubolari” cuciti con tessuti “tecnici” a matrice ceramica e silicea (solitamente utilizzati in ambito siderurgico e quindi studiati per resistere a temperature estemamente elevate). Con BTM 03 / Venice>>Future, l’ultimo progetto realizzato (e presentato al FuoriSalone 2015), abbiamo esplorato invece le possibilità di implementazione di questo processo attraverso l’utilizzo di alcuni elementi prodotti mediante una stampante 3D per ceramiche e porcellane.

BTM 01 / The Mould
BTM 01 / The Mould: l’intera famiglia
BTM 02 / Pattern
BTM 02 / Pattern: l’intera famiglia
BTM 03 / Venice>>Future  – Famiglia
BTM 03 / Venice>>Future: l’intera famiglia
Che generi di professionalità sono coinvolte nel progetto, e quali ritenete siano stati i relativi contributi alla sua evoluzione?

Proiettarsi verso una ricerca “attiva”, che rispetti la tradizione ma ne proponga al contempo una una lettura alternativa – in questo caso coniugandola, per quanto possibile, con mirate innovazioni tecnologiche – non può prescindere dal coinvolgimento di persone con competenze differenti, capaci di arricchire il progetto conferendo ad esso stabilità e ampio respiro. Ognuno mette a disposizione del progetto la propria esperienza per cercare di raggiungere un obiettivo soddisfacente e condiviso. Quindi, come detto, progettisti e “tecnici”, ma anche esperti di comunicazione e videomaker. Siamo infatti convinti che un’adeguata gestione degli strumenti comunicativi sia fondamentale per divulgare opportunamente il progetto nella sua interezza e complessità.

BTM 01 / The Mould – In fornace durante le fasi di soffiatura (Salviati)
BTM 01 / The Mould: in fornace durante le fasi di soffiatura (Salviati)
BTM 02 / Pattern – Workshop a Londra coordinato da Rebecca Hoyes per la produzione di una serie di tessuti tubolari in tessuti silicei
BTM 02 / Pattern: workshop a Londra coordinato da Rebecca Hoyes per la produzione di una serie di tessuti tubolari in materiale siliceo
Quali sono le principali categorie di pubblico a cui il progetto si rivolge?

La ricerca, in alcuni casi, può accrescere il proprio impatto culturale se viene appositamente concepita per essere condivisa. In tal senso, comunicare il proprio operato per singoli passi rappresenta una modalità estremamente efficace per verificare la loro effettiva validità. Dal nostro punto di vista, proviamo a fare questo su due fronti opposti: da un lato, attraverso selezionati momenti espositivi, cerchiamo di mostrare i risultati ottenuti a un pubblico internazionale (come è avvenuto recentemente con il terzo step del progetto, Venice>>Future), dall’altro crediamo sia necessario divulgare il nostro operato a livello locale, cercando il dialogo con le istituzioni (università in primis, stazione sperimentale del vetro di Murano) e le altre aziende vetrarie.

BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012
BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012
BTM / Threads – Evolutionary steps in glass, Galleria Venice Art Factory, Venezia, 2014
BTM / Threads – Evolutionary steps in glass, Galleria Venice Art Factory, Venezia, 2014, invito
Nel corso della storia, diversi altri designer e artisti si sono confrontati con il processo produttivo del vetro muranese e con il più ampio contesto culturale in cui esso si colloca. Rispetto a tali interventi, ritenete che il vostro lavoro si collochi in una relazione di rottura o di continuità?

La storia della produzione vetraria veneziana ha vissuto momenti in cui si è assistito a un’accelerazione nell’evoluzione tecnologica e formale, che ha portato, nella maggior parte dei casi, a risultati eccezionali. L’ultima fase caratterizzata da questa spinta alla ricerca, questa spinta a innovare e rinnovarsi, è rilevabile tra gli anni venti e quaranta del secolo scorso, e il suo esempio più limpido rimane la collaborazione tra Carlo Scarpa e l’azienda Venini. Scarpa riscoprì alcune tecniche produttive cadute in disuso, ne inventò di nuove, lavorò a stretto contatto con i maestri vetrai: in sostanza riuscì ad attuare una perfetta sinergia tra progettazione e produzione.
Fu in grado di pensare al vetro non solo come a un materiale legato alla tradizione, ma anche e soprattutto come a un vasto argomento di ricerca e sperimentazione, capace di dare adito a soluzioni innovative sia dal punto di vista formale che tecnologico. Ed è in questo senso che ci sentiamo di lavorare in piena continuità.

BTM 03 / Venice>>Future – in fornace Salviati
BTM 03 / Venice>>Future: in fornace (Salviati)
Quali sono, a vostro avviso, le cause della condizione di crisi economica e produttiva in cui attualmente versa il distretto produttivo muranese, e in che modo il vostro progetto tenta di rispondervi?

Le cause sono molteplici. Fra le più eclatanti rientrano indubbiamente la crisi economica internazionale, la concorrenza sul mercato e la mancanza di una politica di sostegno capace di tutelare le specificità produttive del nostro paese. Ma esistono anche problematiche più profonde, radicate alla specificità del contesto locale: fra queste, in prima istanza, rileviamo la progressiva perdita di identità e obiettivi condivisi che, negli ultimi decenni, ha interessato sempre più insistentemente la realtà del distretto produttivo muranese. Nel relazionarsi con una situazione così complessa e sfaccettata, il progetto non aspira ad avanzare risposte certe o soluzioni definitive, ma piuttosto a inserirsi nella produzione del vetro di Murano confrontandosi con tale materiale in maniera analitica e sperimentale: in che modo è possibile aggiornare un processo produttivo artigianale senza snaturarne le prerogative essenziali? Come ampliare l’immaginario collettivo connesso con la dimensione degli oggetti in vetro arricchendolo di nuovi e inediti punti di vista? Qual’è il ruolo dell’artigianato, e nella fattispecie della lavorazione del vetro, in relazione al contesto contemporaneo?

BTM 02 / Pattern Esperimento 09
BTM 02 / Pattern: esperimento 09
BTM 03 / Venice>>Future – Esperimento 09
BTM 03 / Venice>>Future: esperimento 09
I presupposti di tale crisi risiedono evidentemente anche nella difficoltà che il distretto muranese sperimenta al giorno d’oggi nel promuoversi, comunicarsi, esplicitare la propria identità. È una componente, questa, che l’identità in continua evoluzione di Breaking the Mould prova a rispecchiare?

Il problema della “giusta” rappresentazione e della mancanza di attenzione comunicativa è evidente. L’immaginario del vetro artigianale Muranese nella maggior parte dei casi è cristallizzato e stereotipato. La comunicazione di BTM invece segue la sperimentazione. Possiamo considerarla al pari degli esperimenti “imprevedibile” perchè nasce e si sviluppa sul campo non prima o dopo. E una fotografia scattata in corsa, senza cavalletto né post-produzione. Un’identità instabile, che assimila errori, variazioni e che ingloba le caratteristiche delle professionalità che si aggiungono alla piattaforma.

BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012, manifesto
BTM / Exhibition #1, Direktorenhaus, Berlino 2012, manifesto
BTM / Learning in glass, Aram Gallery, Londra, 2013
BTM / Learning in glass, The Aram Gallery, Londra, 2013, cartolina
BTM / Venice>>Future – Subalterno 1, Milano, 2015, brochure
BTM / Venice>>Future, Subalterno 1, Milano, FuoriSalone 2015, brochure
Quali sono le prospettive future del progetto?

Continueremo a lavorare per far sì che questa piattaforma rimanga culturalmente e produttivamente attiva. Nello specifico l’intenzione è quella di esplorare ulteriormente la relazione tra vetro e tecnologie di stampa 3D della ceramica, coinvolgendo una realtà locale con grande conoscenza del mondo vetrario muranese e una internazionale che rappresenta un punto di riferimento in fatto di innovazione legata alle nuove tecnologie.

BTM 03 / Venice>>Future – stampa 3D di componenti in ceramica refrattaria
BTM 03 / Venice>>Future: stampa 3D di componenti in ceramica refrattaria