Il vecchio e/è l’albero di Giorgio Tremel, tratto dal Q9 “L’uomo di plastica” (2018)
“Allora mi son detto, influenzato anche dalla progressione dei miei anni, perché non utilizziamo il paradigma dell’albero per parlare del cervello dei vecchi, quindi della loro essenza, della loro vera ricchezza. L’esperienza, il vissuto, i traumi, le amputazioni, i tentativi e gli errori, il rinnovarsi di alcune parti ed il morire di altre.“
Se dovessimo dire in due parole il focus di questo Quaderno – e di questo articolo – diremmo certamente Alberi e Plastica tratteggiati ora come racconto, ora come poesia, ora come fatti di cronaca, ora come racconto di fantascienza. Gli Alberi e la Plastica diventano per gli autori il veicolo per parlare a tutto tondo di cultura e rilettura dei territori, di emergenze ambientali e di possibili correttivi, di uomo essere senziente ma anche di plastica, un non-uomo, essere inconsapevole che non vede o non vuole vedere.
Il vecchio e/è l’albero
Mi tormentava un pensiero: come mai gli alberi invecchiando diventano sempre più belli e maestosi e noi umani invece sempre più goffi e brutti?
Finché un giorno, percorrendo un viale alberato appena fuori dal paese, una quercia di dimensioni considerevoli mi offrì una nuova prospettiva.
Aveva un impalcato di rami ed una corteccia segnati dal tempo e questi segni le conferivano un senso di “autorevolezza” evocando in me un sentimento di rispetto, di curiosità ed ammirazione verso questo essere vivente che con l’invecchiamento accresceva il suo fascino.
Possibile che gli umani seguano una parabola estetica del tutto opposta, mi chiedevo.
Entrambi nascono, vivono e muoiono ma mentre il corpo degli umani, subendo la corrosione del tempo esprime una bellezza che ha la durata di un fiore, per gli alberi è diverso.
Il loro tronco solcato da profonde rughe e i loro rami diventano sempre più uno spettacolo naturale, bello da vedere, da contemplare, da abbracciare.
Mi venivano in mente anche altre specie di alberi che mi avevano provocato stupore ed ammirazione: castagni dai tronchi scavati, cipressi affusolati, magnolie dai rami contorti, cedri del Libano patrimonio dell’umanità, pini cembro dalle radici abbracciate alla roccia come
delle piovre…
Li confrontavo con i nostri grandi vecchi, pieni di saggezza, dagli occhi intelligenti e velati, ricoperti dai tessuti degli abiti a mascherare la decadenza del corpo.
È un’ingiustizia della natura.
Eppure tra un vecchio albero ed un vecchio uomo deve esserci qualche analogia riequilibratrice da rendere pari merito a due esseri pieni di storia, di vissuto.
Il mio pensiero non correva sul difficile sentiero delle conoscenze scientifiche, ma in parte utilizzava delle immagini di strutture viventi: la chioma degli alberi e la corteccia del tronco, il loro intreccio, ordinato a modo suo, ed il cervello umano con i neuroni collegati da un intreccio nervoso, anche lui ordinato a modo suo.
Soltanto che negli alberi l’intreccio è esplicito, visibile, mentre il labirinto cerebrale degli esseri umani è soltanto intuibile attraverso la luce che emanano i loro occhi e l’ascolto della loro parola.
Allora ho pensato che queste due bellezze antiche, i rami dei vecchi alberi
e le circonvoluzioni cerebrali dei vecchi uomini, siano complementari,
simmetrici: i primi estroflessi verso l’esterno a mostrare la loro esperienza
di vita, i secondi raccolti nelle oscurità della scatola cranica che li cela al mondo.
Lo so, è un paragone che non ha alcun valore scientifico. Per me ha un
valore estetico, quindi apparentemente effimero e superficiale.
Ma quante volte capita di iniziare un dialogo o una riflessione partendo
da un spunto apparentemente banale.
Magari non crediamo alle descrizioni zodiacali della nostra personalità, ma le utilizziamo per parlare di noi agli altri e per scoprire gli altri attraverso l’apertura di un primo diaframma comunicativo. Come parlare del tempo.
Allora mi son detto, influenzato anche dalla progressione dei miei anni, perché non utilizziamo il paradigma dell’albero per parlare del cervello dei vecchi, quindi della loro essenza della loro vera ricchezza.
L’esperienza, il vissuto, i traumi, le amputazioni, i tentativi e gli errori, il rinnovarsi di alcune parti ed il morire di altre.
Forse viviamo un momento storico in cui può valer la pena usare tutti i mezzi, tutte le parole, per comunicare ai giovani “rottamatori”, “innovatori”, “oggettivamente inesperti” il valore dell’esperienza. Se oggi possiamo godere il piacere di gustare un risotto con i funghi e di digerirlo
senza danni ci sarà pure un motivo, no?
Proverò ad utilizzare questa relazione estetica albero/cervello per alimentare alcuni paragoni.
L’albero potato e/o decorato è come un cervello condizionato, non più libero di esprimere la sua personalità.
Gli abeti solitari piantati in pianura con la cima potata perché da fastidio, fa ombra. I giardini con gli alberi modificati dalla creatività del giardiniere che li fa assumere forme innaturali per lo stupore e ammirazione della gente che passa, che vede il giardiniere “mani di forbice” non l’albero. Gli alberi allineati in lunghi filari sui bordi delle strade, i rimboschimenti geometrici e gli alberi costretti a farci compagnia sulle pareti dei nuovi edifici ecologici…
Questo modo di modificare la natura (ma essa sviluppa, nel frattempo, la sua inesorabile vendetta) incide sulla struttura del nostro cervello, sulle sue ramificazioni nascoste che subiscono la stessa intrusione dei rami degli alberi: allineati come soldati o greggi, castrati nello spirito come gli abeti, trasformati dall’abbigliamento di moda e dalla chirurgia plastica come gli alberi dei giardini. L’albero antico che rinnova ogni anno le gemme ed i fiori è come il cervello di un vecchio che utilizza cose note, le rielabora attraverso l’esperienza e le reinventa di nuovo.
L’albero spazzato dal vento che reagisce secondo l’intensità con cui viene colpito ricorda un cervello che si libera di vecchi pensieri (le foglie secche) che inventa una musica che alimenta lo spirito creativo quando la sollecitazione è leggera e con l’aumentare dell’intensità prova un turbamento psichico che piega la volontà ma forse non la spezza e lo fa rinascere più forte e consapevole. E, infine, un’intensità violenta che produce uno sradicamento (la fuga dalla guerra, dalle catastrofi climatiche e dalla fame), la perdita di identità e la morte (fisica o morale).
Gli uccelli che si posano sui rami e li scelgono per nidificare sono la rappresentazione dell’accoglienza, le chiome degli alberi sono pazienti ed accoglienti. Anche il cervello (non lo stomaco) può essere accogliente e paziente verso il diverso da sé.
Ho scoperto recentemente in un viaggio a Londra che i platani secolari sono diventati velenosi. Hanno assorbito tutti i miasmi della rivoluzione industriale. Forse il progresso incontrollato e selvaggio del capitalismo ha prodotto danni avvelenando anche il nostro cervello? I platani di Londra tuttavia hanno trovato il modo di adattarsi e sopravvivere a lungo e hanno trovato il modo di eliminare le scorie avvelenate accumulate nella corteccia. Speriamo che anche il nostro cervello (quello collettivo) possa trovare il modo per decontaminarsi.
La demenza senile, che cancella i ricordi e annulla il presente, assomiglia a quegli alberi che progressivamente muoiono con i rami che rinsecchiscono e le ultime foglie che fuggono dai rami ancora vivi. Meglio tagliarli o lasciare il compito alla natura? O forse trovare il modo di rendere la loro sofferenza più lieve, prolungando la loro esistenza in modo dignitoso.
Nei boschi, le città degli alberi, alcuni alberi muoiono e si trasformano in concime che alimenta le piante più giovani. Ma i nostri cervelli morti forniscono uno strumento (humus) alle nuove generazioni, che, alimentate da una giusta volontà di cambiamento, dimenticano a volte la Storia?
Quel giorno volevo abbracciare la quercia che mi aveva ispirato, l’ho fatto con il pensiero, non possiamo che volerci bene…siamo complementari.
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