Il territorio non è una mappa e la mappa non è il territorio di Roberto Ervas è il secondo articolo del nuovo Quaderno Q16 “Paesaggi umani, paesaggi urbani” da luglio scaricabile qui
Il corpo territoriale può essere paragonato al corpo biologico.
Nel corpo territoriale troviamo la compresenza di aree agricole e/o aperte, infrastrutture residenziali e produttive, infrastrutture di servizi energetici, idrici, dati, ecc., infrastrutture viabilistiche e/o trasportistiche, come quelle carraie, ferroviarie, aeree, marittime, ciclabili e pedonali.
Oltre a ciò, esistono e agiscono nel territorio le “reti” cognitive, relazionali, biologiche, sociali, antropologiche, culturali, ecc.
Tutto ciò dimostra che le dinamiche territoriali sono fenomeni pluridimensionali, integrati e complessi.
Semplificando, si può dire che le categorie di ragionamento territoriale sono fondamentalmente cinque e fanno riferimento ai contesti complessi del biospazio, del sociospazio, del tecnospazio, dell’ethospazio -spazio dell’etica e/o del sacro- e del noospazio -lo spazio dell’apprendimento culturale in grado di interpretare i segni territoriali-.
Dalla prima derivano tutte le altre. Si potrebbe dire che il biospazio è lo scenario planetario su cui si sovrappongono tutte le altre “nature” di spazio. Questi spazi non fanno riferimento alla semplice dimensione geometrica. Essi sono fenomeni con dense connotazioni culturali, cognitive, economiche, biodinamiche, autopoietiche, resilienti, antropiche, entropiche e sociali.
Appare in ogni caso evidente che, come il corpo biologico non può essere composto dai soli muscoli e/o dal solo sistema venoso, anche il corpo territoriale non può sostenersi se su di esso prevalgono funzioni e pressioni antropiche a forte discapito del biospazio.
Come nel corpo biologico il prevalere di strutture e/o organi porta alla sua morte e/o disfunzione, così avviene anche per il corpo territoriale, che non può reggersi sulla sola dimensione antropica-entropica.
Esiste ormai una quantità di letteratura e di studi, nonché di modelli urbani, che incontrovertibilmente hanno posto al centro della loro riflessione, per la risoluzione dei problemi, la questione del limite.
Le realtà urbane più vivibili – e guarda caso più ricche – sono quelle che hanno accettato tale sfida e fanno, del “darsi un limite”, l’occasione per il loro rilancio e successo.
Senza addentrarci su questioni fondamentali, che rischiano purtroppo di non interessare, come i concetti di impronta ecologica, di entropia e di bioeconomia, è bene ribadire che, in tutti i sistemi complessi, dove interagiscono diverse azioni e tipologie di flusso non governate da una regia, si innescano fenomeni di inefficienza sistemica e di scompenso. Il mondo degli insetti ci insegna come, nei loro “sistemi organizzativi”, tali fenomeni siano sconosciuti.
Qui si aprirebbe un capitolo molto stimolante, ma per ora, ci accontentiamo di ricordare che, tali sistemi “miniaturizzati” si organizzano ed agiscono comportandosi come una grande intelligenza olistica fortemente integrata al contesto di cui fa parte.
Gli uomini no. Agiamo e ci comportiamo, rispetto alla “modalità” degli insetti, in modo irrazionale e diseconomico. Il mondo degli insetti persegue obiettivi collettivi, noi no. Il mondo degli insetti interagisce velocemente ed efficacemente, noi no. Il mondo degli insetti è fortemente interconnesso e funzionalista, mentre il nostro è disarticolato, conflittuale e irrazionale.
Viabilità carraia
Un esempio eclatante di tale irrazionalità è la viabilità carraia urbana in contesti densi e plurifunzionali, la quale presenta sistematici punti di conflitto, rallentamento, densificazione, inefficienza, ecc.
Tralasciando le condizioni a noi lontane dei contesti territoriali estesi, come le aree metropolitane americane e asiatiche e focalizzando l’attenzione sulle realtà urbane più felici di matrice nord europea , si scopre che le città che hanno risolto meglio il problema del traffico privato sono quelle che hanno smesso di “assecondarlo”, promuovendo il trasporto pubblico e la viabilità ciclopedonale e supportando quello commerciale attraverso specifici percorsi, tecnologie dedicate e organizzazioni logistiche innovative.
Molti di questi contesti vengono chiamati “aree metropolitane” ma, a ben guardare, essi si presentano ancora con un buon tasso di biodiversità, ampie aree verdi, percorsi protetti e dedicati per la viabilità dolce, eccellente trasposto pubblico, organizzazione urbanistica e territoriale di primordine, ottima agricoltura di prossimità, forestazione urbana e un capitale sociale di elevata consapevolezza e cultura. La qualità della vita in tali contesti è la migliore del mondo (*) –fonti ONU-OCSE-.
Riducendo il traffico viario pesante e attivando politiche rigenerative biosociali questi contesti socio territoriali hanno ottenuto:
1- Riduzione significative delle morti dirette e indirette -si rammenta che in Italia sono circa 70 mila l’anno e circa 500 mila in Europa-, per il solo inquinamento dell’aria-;
2- Miglioramento dell’attività cardiocircolatoria e delle difese immunitarie grazie soprattutto alle piste ciclabili dedicate -riduzione della spesa sanitaria annua calcolabile tra il 20% e 25 %!
3- Riduzione dei tempi di spostamento tenuto conto che un’automobile in zona congestionata percorre circa 8-10 km ogni ora;
4- Aumento della resa lavorativa grazie alla maggiore attività fisica e al tempo che si libera durante il trasposto pubblico -connessioni wireless, accessi facilitati, possibilità di concentrarsi, ecc.-;
5- Miglioramento della salute psicologica e riduzione dello stress;
6- Riduzione dei morti per incidenti;
7- Risparmio economico grazie all’utilizzo dei mezzi pubblici rispetto al trasporto privato carraio -è sempre considerevole la percentuale di persone che scelgono il primo quando l’offerta è di qualità-;
8- Riduzione degli aborti spontanei e dei feti deformi;
9- Aumento delle attività economiche legate al turismo e alle attività ricreative;
10- Innovazione nel campo della domotica, telerilevamento, mobilità elettrica, software, ecc.;
11- Riduzione del teppismo e/o microdelinquenza;
12- Aumento e/o massimizzazione dei valori immobiliari;
13- Aumento delle aree dedicate a parco, alle infrastrutture vegetazionali e all’agricoltura di prossimità;
14- Possibilità di pianificare, riconvertire e gestire le trasformazioni future grazie al minor tasso di infrastrutturazione carraia, ovvero maggiore resilienza. Possibilità di sviluppo plurifunzionale;
15- Maggiore autonomia energetica grazie al teleriscaldamento da biomassa ricavabile da ambiti di agricoltura e/o forestazione di prossimità;
16- Significativo aumento della vita media;
17- Maggiore biodiversità, riduzione dei contaminanti sui terreni agricoli, maggiore protezione delle falde acquifere e dei corsi d’acqua nonché migliore qualità dell’aria;
18 -Riduzione dei costi di manutenzione delle reti infrastrutturali;
I contesti che invece hanno perseguito la politica dell’aumento delle infrastrutture viarie pesanti per sorreggere simultaneamente il trasporto commerciale, personale e pubblico -ovvero l’infrastruttura plurifunzionale carraia- hanno ottenuto:
1- Nessuna gerarchizzazione funzionale e nessuna distinzione tra strade di percorrenza e strade di destinazione. Rafforzamento dell’inefficienza sistemica e della disorganizzazione. Incremento del disordine urbano;
2- Peggioramento del capitale sociale e delle “competenze profonde”;
3- Impossibilità a future riconversioni socioeconomiche e agroalimentari, compromissione dei processi di resilienza. Rafforzamento della territorialità monodimensionale;
4- Riduzione degli investimenti nel campo dell’innovazione tecnologica come la domotica, il trasporto elettrico, le reti integrate, il telerilevamento, i software gestionali, il teleriscaldamento, ecc.;
5- Nessun miglioramento nei livelli di congestione del traffico;
6- Peggioramento dei tempi di percorrenza e aumento della conflittualità viaria
7- Aumento delle morti e delle patologie da inquinamento da traffico;
8- Aumento degli incidenti violenti;
9- Incremento dei contaminanti su suolo, acqua e aria;
10- Aumento della spesa sanitaria e riduzione della vita media;
11- Aumento delle “isole di calore” e della temperatura media estiva;
12- Aumento della microdelinquenza;
13- Aumento degli aborti spontanei, delle malformazioni fetali e del ritardo mentale nei bambini;
14- Maggiore rischio idrogeologico;
15- Compromissione dei valori immobiliari;
16- Minore attrattività turistico-ricreativa;
17- Maggiore difficoltà nell’approvvigionamento agroalimentare. Riduzione dell’agricoltura di prossimità e della bioagricoltura;
18- Aumento dei costi di gestione e/o manutenzione delle reti infrastrutturali.
Un principio su cui è bene sempre riflettere, quando si tratta di valutare i “costi/benefici” delle infrastrutture pesanti, è il principio di non reversibilità. Ovvero che tali interventi permangono nel tempo e compromettono definitivamente il territorio.
Diversamente, le modalità innovative nel campo della riorganizzazione tecnica e funzionale dei flussi, l’ottimizzazione delle reti e la loro integrazione, l’adozione di modelli trasportistici innovativi – tipici del nord Europa -, l’implementazione della viabilità dolce e l’accrescimento della maturità sociale e delle consapevolezze sui temi dell’innovazione urbana e della tutela ambientale, sono decisamente molto più sostenibili ecologicamente, economicamente e socialmente.
Intervenire pertanto sulla territorialità con questo approccio vuol dire accettare la sfida del miglioramento socioeconomico ed ecologico della propria comunità.
Per le nostre comunità questa è una sfida difficile, perché prevede di attivare competenze e predisposizioni non comuni, le uniche in grado di aiutarci ad abbandonare il nostro immaginario monodimensionale, ormai definitivamente colonizzato, dalla primitiva cultura “dell’urbanistica del retino”.
Le conoscenze e gli strumenti che abbiamo messo in atto sino a ora sono stati totalmente inadeguati per rispondere alle sfide che la società ci richiede. Stiamo già pagando, in modo salato, l’assenza di innovazione nel campo della pianificazione e gestione territoriale degli ultimi 60 anni.
E’ evidente che, non essendoci stata un’adeguata programmazione nel lungo periodo, una sufficiente preveggenza biosociale e socioeconomica, nonché un’appropriata sensibilità ambientale, l’attuale condizione di buona parte del territorio nazionale non può che dirsi drammatica.
In particolar modo, le nostre realtà territoriali venete, che ereditano una condizione profondamente compromessa, dovranno attivare politiche di lungo respiro, almeno ventennale, come insegnano le felici programmazioni delle città nord europee, per poter definire al meglio una strategia coerente e un’idea di territorio e di comunità all’altezza delle sfide che le attendono.
I modelli non mancano, le competenze e le visioni culturali innovative nemmeno. Serve in primis un atto di volontà e un “obiettivo di senso”. Abbiamo bisogno di significati e non di tecnicismo spiccio. Vanno attuati modelli e processi organizzativi e progettuali totalmente diversi dai tradizionali approcci cartografico-ingegneristici. Tale sfida non può che prescindere da un coinvolgimento attivo della collettività e dei suoi “soggetti intermedi”.
Si dovranno ridefinire i ruoli all’interno delle amministrazioni comunali, creando processi e piani di lavoro ampi e inclusivi, dove le cosiddette “competenze informali” possano esprimere tutta la loro creatività. Si dovranno coinvolgere professionisti in grado di strutturare approcci multidisciplinari, in grado di superare la logica pianificatoria dell’urbanistica del retino per poter attivare processi biosociali in grado di riprogettare socialmente lo spazio, secondo paradigmi di ben-essere e ben-stare.
Concludendo, auspico che i soggetti pubblici prepostisi possano mettere finalmente in campo piani di lavoro dove, oltre alle “competenze classiche” vengano coinvolti esperti nel campo della bioeconomia, della mobiletica, dell’ecologia umana, della psicologia sociale, dell’urbanistica partecipativa e della gestione integrata dei biotopi, al fine di predisporre uno scenario di azione tecnico operativo di lungo respiro, che dovrà essere perseguito con determinazione e passione.
La sfida è esaltante e il suo fallimento sta solamente nell’arretratezza cognitiva e nel modesto capitale sociale che abita molti dei nostri contesti territoriali. Le territorialità migliori appartengono sempre alle comunità più evolute dal punto di vista etico e culturale.
Le nostre comunità devono accettare “la sfida di Amburgo e/o di Curitiba” per potersi proiettare con coraggio verso i migliori modelli di efficientamento, sostenibilità e promozione socio-territoriale. Il traguardo non potrà che essere quello di una territorialità del ben-essere e del ben-stare, sostenibile ecologicamente, socialmente ed economicamente, proiettata verso economie durevoli in grado di sostenersi nei moltissimi anni a venire.
Questo articolo, ora rivisitato, è stato e reso pubblico dall’autore per la prima volta nel 2015, in occasione di eventi culturali atti a sensibilizzare la comunità trevigiana sulle problematiche pianificatorie del comune di Treviso.
Per scaricare “Il territorio non è una mappa e la mappa non è il territorio” e i Quaderni editi da il prato cliccare qui